Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

In una realtà, quella locale come quella nazionale, deprivata del conflitto politico, ad occupare la ribalta della scena pubblica sono principalmente gli attori legittimati dal regime per impersonare la nuova Italia del littorio. Rimasto partito unico, il PNF non gioca un effettivo ruolo nella conduzione della politica centrale, dove passata la crisi Matteotti, Mussolini accentra su di sé ogni potere reale a scanso di eventuali sollevazioni dei ras e, di fatto, non esercita un effettivo peso nemmeno nelle periferie del paese, dove le gerarchie fasciste sono comunque subordinate a quelle dello stato[46]. Tuttavia, al partito fanno capo le organizzazioni di massa che costituiscono gli strumenti dell’educazione e dell’organizzazione del consenso a cui è rivolta l’esistenza stessa del PNF: guscio vuoto dal punto di vista del dibattito e dell’azione politica, il partito e i suoi gangli periferici funzioneranno, soprattutto a partire dall’avvento alla segreteria di Achille Starace nel 1931, come architrave della progressiva fascistizzazione della società – prima ancora che dello Stato[47]. Dei due processi, è particolarmente il primo che interessa esaminare indagando sulla scala della società locale. L’inquadramento della popolazione nelle organizzazioni che, a partire già dalla seconda metà degli anni Venti, tendono ad occupare tutto lo spazio dell’esistenza del vivere, dal tempo lavorativo e della scuola al tempo libero, rappresentano la via privilegiata di disciplinamento delle masse tra le due guerre. L’Opera nazionale del Dopolavoro (OND) dal 1925, l’Opera Nazionale Maternità e Infanzia (ONMI) dello stesso anno, l’Opera Nazionale Combattenti (ONC), ereditata dallo Stato liberale e ben presto in conclamata fucina del nuovo italiano, già eroico combattente, nuovamente addestrato per divenire volenteroso colono di terre una volte incolte, secondo la retorica imperante del ruralismo ufficiale, sono alcuni tra i più importanti enti parastatali, più o meno direttamente controllati dal partito (spesso dopo un duro conflitto interno con i ministeri) e tutti finalizzati alla riconversione della società italiana in culla delle virtù del nuovo italiano, lavoratore disciplinato (e pronto a lottare nuovamente per la grandezza della nazione), se uomo, devota sposa e madre laboriosa, se donna[48]. Ma fu soprattutto in due direzioni che il regime incanalò i tentativi di plasmare la visione totalitaria della nuova nazione fascista: la militarizzazione della popolazione maschile - o almeno di una parte di essa - attraverso la costituzione della Milizia Volontaria Sicurezza Nazionale e delle leggi per la preparazione alla guerra della nazione, in modo ancora più rilevante e con successo, l’inquadramento militare della gioventù, attraverso l’Opera Nazionale Balilla e la Gioventù Italiana del Littorio. Fu attraverso la partecipazione alle organizzazioni di massa, fino al 1939 non obbligatoria per legge, che si realizzò la conquista della società locale e che venne vissuta l’«adesione passiva»[49] e benevola al regime, gestita attraverso i rituali collettivi da cui veniva scandito il tempo della vita pubblica. Nello iato tra i due piani, quello dello spegnimento di ogni partecipazione e proposizione reale al potere e quello della costruzione di una macchina scenica e rituale in grado di disciplinare ogni segmento della comunità, si ritrovano ancora oggi le ragioni dell’apparente conflitto tra l’«apatia» denunciata dai militanti dello squadrismo, interpretata sovente come imborghesimento degli apparati e dunque tradimento del fascismo rivoluzionario delle origini, e presa totalitaria del regime sull’intera popolazione, soprattutto sul terreno dell’educazione e del tempo libero giovanile, ritenuto fondamentale per la costruzione del «nuovo italiano»[50]. All’inizio degli anni Trenta, a ridosso dell’avvio dell’era Starace che coincise con la stagione di più tumultuosa espansione del partito, sia in termini di tesserati sia di competenze sottratte a enti statali, il fascismo nel vicentino era concordemente dipinto come una creatura apatica e amorfa: nei ranghi del PNF e delle sue organizzazioni si registrava ormai una predominante di nuovi arrivi, provenienti specialmente dagli ambienti dei vecchi partiti liberale (e talvolta popolare), mentre la sempre più palpabile subordinazione delle federazioni locali alle autorità statali, da un lato, e la politica di appeasement verso le gerarchie clericali, dall’altro, facevano gridare allo scandalo e al tradimento gli esponenti più convinti della vecchia guardia[51]. La modesta quantità di iscritti al Fascio di combattimento bassanese fino alla fine degli anni Venti (erano non più di 200 nel 1929) e il rapido (ma non straordinario) aumento a partire dagli anni successivi raggiunto fondamentalmente attraverso una penetrazione tra gli esponenti di un ceto medio urbano emergente, (1127 nel 1936, su una popolazione di oltre 20.000 abitanti), testimoniano efficacemente l’ancipite qualità della fascistizzazione (fig.4):

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4. Corteo della compagnia Mario Lapi delle Brigate Nere diretto al Cimitero di Santa Croce per rendere onore alla salma di Mario Toniolo (anni ’20). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La documentazione testimonia efficacemente i modi autoritari della fascistizzazione.

debole dal punto di vista dell’impegno politico organico e persino sotto accusa per la disorganizzazione regnante nelle strutture territoriali che avrebbero dovuto rappresentare il fiore all’occhiello del movimento-milizia, il partito dispiegava piuttosto un’efficacissima azione di reclutamento e consenso sul versante della mobilitazione giovanile e dell’egemonia sul tempo libero. Mentre i Fasci di combattimento provinciali perdevano iscritti, o diminuivano la loro attività, e mentre i reparti della Milizia locali rarefacevano la propria attività addestrativa e vivevano una crisi apparentemente irrisolvibile per l’inettitudine dei comandanti e l’ostilità conclamata di autorità civili e militari regolari, l’inquadramento della gioventù faceva passi da gigante[52]. Di fatto, alla metà degli anni Trenta, la punta di diamante della manipolazione del consenso era rappresentata, secondo uno schema peraltro tipico dell’Italia dell’epoca, dal mondo giovanile e studentesco in particolare: nel 1935-36 quasi il 90% degli allievi delle scuole primarie locali erano tesserati all’ONB, mentre all’inizio dello stesso anno la Coorte degli avanguardisti (che inquadrava i giovani dai 13 ai 18 anni) contava 463 elementi, approssimativamente un terzo dei giovani maschi residenti[53]. L’attenzione riservata dal regime alla ristrutturazione del sistema scolastico e alla gestione del «popolo bambino» (e più in generale delle giovani leve) era proporzionale alla risposta entusiastica assicurata in effetti dal mondo studentesco, particolarmente quello liceale e universitario, in caso di mobilitazione[54]. I giovani, soprattutto gli studenti delle scuole medie, costituivano la massa di manovra delle spettacolari adunate di regime ed erano i protagonisti delle più clamorose e pubblicizzate attività ludiche e pedagogiche (campi scuola; campeggi DUX; colonie; campi di addestramento; campionati sportivi) che avrebbero dovuto rappresentare il laboratorio di una nuova razza, guerriera e sportiva: un compito non facile in un territorio dove il PNF e l’ONB dovevano competere, sul terreno della conquista della gioventù, con le superstiti strutture cattoliche (attive, per quanto perennemente minacciate), e dove comunque si potevano registrare strepitosi successi, come le grandi rassegne provinciali di 20.000 studenti avanguardisti nel 1933 o i saggi ginnici di 15.000 giovani l’anno seguente[55]. E’ vero che, dopo il 1927, per evitare scontri violenti con il regime e auspice il Vaticano, si era sciolta la Federazione delle Associazioni Cattoliche, e con essa, a distanza di pochi mesi, erano scomparsi il movimento scoutistico e gli Esploratori cattolici, rimanendo in vita l’Azione cattolica e la Federazione universitaria cattolica (FUCI)[56]. Tuttavia, circoli associativi di ispirazione cattolica e protetti dalla curia continuavano ad esistere in provincia di Vicenza, e, ancora agli inizi degli anni Trenta, come si sarebbe lamentato il capo dell’ONB, Ricci, in una relazione a Starace, erano in grado di attirare migliaia di giovani (almeno 3500) sottraendoli alle cure del partito[57]. Il successo dell’inquadramento educativo della gioventù da parte del fascismo, anche in una zona difficile come il Bassanese, deve dunque essere misurato a partire dalle capacità degli apparati di massa del PNF di garantire, in primo luogo, forme di assistenza materiale, particolarmente rivolte verso l’infanzia e il mondo scolare, del tutto sconosciute in precedenza ai ceti bassi e medio bassi, assistenza espletata da enti parastatali sotto il controllo del partito e sostanzialmente, se non sempre formalmente, indirizzati esclusivamente agli aderenti. D’altra parte, non va trascurata la pressione psicologica esercitata dalle organizzazioni giovanili sulle famiglie; come ha efficacemente sintetizzato Patrizia Dogliani recentemente, la mancata iscrizione all’ONB (e più tardi alla GIL) avrebbe comportato forme di discriminazione pesanti (soprattutto nei piccoli centri urbani) e sancito «l’isolamento del ragazzo rispetto alla società», reso sospetta la famiglia di appartenenza e, non da ultimo, specialmente per i giovani del ceto medio il cui futuro era garantito da un solido percorso scolare e da un titolo di studio (possibile via di accesso ad una posizione nel sempre crescente impiego pubblico), avrebbe ipotecato la carriera futura, o anche semplicemente reso difficile la vita durante il servizio militare.[58] Benché i due aspetti non possano essere ragionevolmente scissi, è soprattutto sul terreno dell’assistenza e delle cure per l’infanzia che il regime vinse una battaglia di popolarità e di costruzione del consenso. Lo sviluppo delle attività sportive e ricreative dei Fasci giovanili era solo un aspetto (forse il più spettacolare) di quella vasta rete di cure rivolte a bambini e ragazzi in nome della sanità del corpo che contraddistinse l’Italia fascista, soprattutto negli anni Trenta. Dimensione non trascurabile della modernizzazione del paese, sia pure in chiave totalitaria, l’ossessiva attenzione rivolta, anche a livello propagandistico, sullo sviluppo del benessere fisico dei futuri adulti si situava nel solco del pensiero dei filantropi igienisti ottocenteschi, turbati dalla decadenza dei corpi (e quindi, della razza) degli abitanti delle città, viziati dalle poche cure mediche, dalla scarsa pratica sportiva e dal clima malsano dei primi concentramenti industriali, e il passaggio allo Stato delle responsabilità in materia di sanità e igiene pubblica. Il regime sottrasse gli oneri in materia alla beneficenza privata e religiosa, a cui nella società italiana rurale e premoderna erano state affidate l’assistenza all’infanzia, la tutela della maternità e il soccorso medico per i poveri, e li avocò allo Stato, in nome del «potenziamento della stirpe». Il risultato, misurabile concretamente sul piano locale, fu il dispiego di vaste risorse che andarono a beneficare soprattutto i più giovani e le famiglie, viste come centro propulsore delle politiche demografiche lanciate ufficialmente nel 1927: la donna madre-sposa doveva essere sostenuta nella sua opera di produzione di nuovi figli, nuove braccia e nuovi uomini per la più grande Italia fascista. L’ONMI bassanese poteva vantare, in un solo semestre del 1935, oltre 800 visite pediatriche, e la tutela di oltre 500 nuclei familiari che precedentemente non avrebbero avuto accesso ad alcuna forma di cura pubblica; nel contempo, premi in denaro venivano distribuiti alle coppie «più prolifiche», insieme a migliaia di «corredini per l’infanzia», mentre in estate i bambini più piccoli venivano avviati, a spese pubbliche, alle colonie marine e montane, e gli adolescenti formati alle fatiche della guerra nelle scuole di roccia o nei campi premilitari[59]. Nel complesso, una formidabile macchina di assistenza sociale, che assicurava, in cambio dell’adesione al partito e alla partecipazione più o meno convinta ai suoi riti periodici (il sabato fascista, apogeo della scansione del tempo «militarizzata» imposta dal regime negli anni Trenta, fu quasi sempre vissuto come un noioso dovere a cui sottrarsi più spesso possibile), il godimento di privilegi (la villeggiatura in montagna o al mare; le cure mediche gratuite; la medicalizzazione del parto e della maternità) fino ad allora negati alla working class e al ceto piccolo borghese[60]. Fu questa capillare penetrazione nei bisogni delle fasce più deboli della popolazione ad assicurare la fascistizzazione – formale se non ideale – della comunità bassanese, non solo dei suoi segmenti giovanili, e l’inquadramento delle masse nell’esistenza plasmata dal regime. Scomparsa ogni forma di dissenso organizzato e palese, Bassano spiccò così per tutta l’ultima decade di vita della dittatura come uno dei centri più quieti della pur tranquilla provincia vicentina. Il maniacale controllo poliziesco a cui il fascismo di regime aveva sottoposto tutto il paese era in grado di recepire e trasmettere al centro anche i più piccoli turbamenti dell’apparentemente inossidabile consenso degli italiani verso il duce; locali episodi di protesta di lavoratori subito rientrati grazie alle provvidenze del partito (anche grazie all’analitico monitoraggio della situazione economica delle province) e all’assistenza devoluta anche verso i lavoratori (purché non iscritti in passato a partiti «antipatriottici»); individuali dissensi manifestati anche in pubblico, «offese al capo del governo» (uno dei più tipici reati introdotti nella legislazione del ventennio) o sopravvivenza di sotterranee reti di antifascismo tenute in vita da vecchi esponenti dei partiti democratici; tutto questo veniva sorvegliato, registrato, punito, ma non nella Bassano degli anni Venti e Trenta, assente dai dettagliati rapporti, sia della Questura che della federazione fascista, in cui, pure, comparivano come sospetti, e non poche volte, esponenti del clero provinciale[61]. Al contrario, proprio Bassano fu teatro di alcuni dei più clamorosi riti di massa marziali del decennio. Per un caso non irrilevante, infatti, l’avvio deciso del processo di militarizzazione, che coincise con la prima, grandiosa mobilitazione civile e militare per la guerra d’Africa (autunno 1935), con la coscrizione “volontaria” per la guerra civile spagnola (estate 1936) e infine con la mobilitazione per il deflagrare del conflitto europeo, si sovrappose all’inaugurazione solenne dei monumenti cardine del ricordo pubblico della Vittoria: Tempio Ossario e, soprattutto, sacrario del Grappa (fig.5).

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5. L’inaugurazione del Sacrario di Cima Grappa (settembre 1935). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Nella sistemazione del nuovo impianto, protagonista del colpo d’occhio doveva essere non più la statua della Madonna ma la grande immagine di un fante di vedetta, protetto da un gigantesco simulacro della Patria alto 12 metri, vero e proprio baricentro figurativo del complesso. Il progetto fu poi abbandonato. Nella fotografia della cerimonia è riconoscibile il Re Vittorio Emanuele III (secondo da sinistra in prima fila).

Fu in quell’occasione che si poté misurare appieno la capacità del regime di sfruttare ampiamente le retoriche della memoria patriottica per ri-mobilitare, in nome dei più alti destini della nuova Italia, dell’Impero e della crociata antibolscevica, le masse (anche adulte). Le adunate militaresche e inneggianti di quegli anni facevano seguito ad un decennio di penetrazione in ogni aspetto dell’esistenza quotidiana, ad anni di tutela e inquadramento, e soprattutto ai successi dell’organizzazione di una sociabilità maschile disciplinata e controllata come quella del Dopolavoro: nella Bassano divenuta nel frattempo anche primordiale centro industriale con l’arrivo delle Smalterie, le organizzazioni dopolavoristiche riuscirono in breve tempo ad attirare una parte consistente dei ceti lavoratori, gestendone il tempo libero nei modi più acconci all’obbligo della preparazione sportiva e premilitare[62]. Furono in larga parte queste stesse masse già inquadrate a fornire, insieme alle organizzazioni più tipicamente preposte ai riti nazionali (le associazioni d’arma, dei reduci e dei mutilati di guerra) i quadri dei pellegrinaggi patriottici sugli Altipiani e sul Monte sacro alla Patria, preludio e sfondo ideale alle adunate festanti che avrebbero salutato la conquista dell’Impero, la visita di Mussolini del 1938, la caduta di Madrid il 2 aprile 1939 e, da ultimo, l’entrata in guerra il 10 giugno 1940. La scenografia di massa del partito avrebbe giocato così, fino in fondo, la sua parte nella gestione totalitaria della folla, benché, come è noto, la decisione di entrare in guerra contro Inghilterra e Francia avesse sollevato nel paese molteplici dubbi e benché nella stessa quieta, disciplinata Bassano l’avvio dell’ultima avventura del regime destasse più preoccupazioni che entusiasmi[63]

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