Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il 1919-1920 è tradizionalmente noto nella storiografia italiana come “biennio rosso”. Fu in questi anni, infatti, che in Italia si raggiunse l’apice di una tensione rivoluzionaria, tanto pervasiva e ossessiva quanto virtuale, alimentata dal mito della rivoluzione bolscevica in Russia e dei suoi apparentemente incontrastati successi in Europa, un mito cavalcato senza alcun criterio di prudenza dal massimalismo italiano[1]. Il Veneto, tuttavia, costituì, nel panorama del “biennio rivoluzionario”, un caso a parte. Non perché anche qui non si siano registrati apici di violenza e di ribellismo, né perché siano mancate in Veneto zone di territorio sottratte periodicamente al controllo dello Stato con la forza, o perché il problema dell’ordine pubblico non si sia presentato in modo preoccupantemente innovativo anche in questa regione. Tuttavia, l’egemonia e il controllo politico sulle masse rurali in Veneto fu tutt’altro che esclusiva del massimalismo socialista e delle leghe rosse. Al contrario, le lotte e le proteste postbelliche, che furono soprattutto lotte e proteste agrarie, furono nella maggior parte dei casi condotte, dopo i primi moti spontanei della primavera 1919, dalle organizzazioni cattoliche (le “leghe bianche”). In un paesaggio agrario dominato dalla mezzadria, dalla piccola affittanza e dal colonato, dove le zone bracciantili erano ridotte, le proposte delle leghe bianche, che miravano strategicamente alla diffusione di una piccola conduzione familiare, rispondevano in modo assai più realistico all’“attesa della terra” dei reduci delle piattaforme “rosse”, intrise di programmi inneggianti alla lotta di classe e alla bontà della proletarizzazione dei ceti rurali e della socializzazione della terra[2]. La spinta politica verso la redistribuzione della terra nella direzione di una piccola proprietà diffusa assecondava inoltre un movimento in larga parte spontaneo di acquisto della terra da parte di mezzadri e piccoli affittuari, accelerato se non promosso dalle potenti spinte inflazionistiche e dalle particolari condizioni di mercato della guerra[3]. Si trattava di un fenomeno non uniforme (ad esempio era particolarmente pronunciato nel Trevigiano ma molto meno rilevante nella Bassa Padovana)[4] ma molto significativo per il diverso carattere assunto dalla contestazione agraria in molte zone della regione. Anche se il frazionamento dei possessi non era infatti andato a beneficio di tutta la popolazione rurale, il suo carattere «tumultuario e parossistico» aveva «elettrizzato» la gran parte dei contadini, declinando in modo particolare una «fame di terra» sostenuta, a partire dal 1919, dal neonato Partito Popolare, tutore politico della CIL, la Confederazione Italiana dei Lavoratori che nel settembre 1918 aveva riunito le organizzazioni sindacali “bianche”[5]. In realtà, l’azione del Partito Popolare non era affatto omogenea a quella delle leghe cattoliche; contrasti, anche radicali, sul carattere e sulla misura dell’appoggio da concedere alle rivendicazioni contadine attraversarono tutto il dopoguerra cattolico, fino alla “normalizzazione” del 1922 e alla successiva liquidazione dell’esperienza Popolare[6]. Ciò nonostante, è indubbio che l’endiadi Partito Popolare-leghe bianche monopolizzò la vita politica e la protesta sociale del Veneto postbellico, tanto che, come ha giustamente fatto rilevare Giampietro Berti, non solo nel bassanese è più corretto parlare di un biennio “bianco” anziché “rosso”[7]. Al Partito Popolare, non meno che agli agitatori socialisti in talune zone, veniva attribuita una buona dose di responsabilità nel precipitare della situazione: «a mezzo di sacerdoti e borghesi» si legge nella lunga relazione di un ispettore «esso partito ha promosso e promuove continue riunioni e conferenze, alle quali assiste sempre numerosa folla di contadini, ed il suo lavoro è diretto oggi a favorire, in modo speciale, le classi dei contadini, braccianti, salariati, obbligati e bovari, incitandoli a costituirsi in associazioni, per pretendere ed imporre le otto ore di lavoro, aumento di mercedi, il numero degli operai da adibirsi al lavoro dei campi, ed altre condizioni […]. E’ insomma una vera e propria agitazione agraria che ha suscitato e suscita il predetto partito, dando vita ad una lotta di classe fra i contadini e i proprietari…»[8]. Agli inizi di settembre, i moti di protesta del Basso Vicentino riguardavano una zona di 21 comuni, con una popolazione di oltre 70.000 abitanti, per controllare i quali il prefetto dichiarava di non poter disporre di più di 400 uomini[9]. A fronte di questo dilagare di violenze, la zona settentrionale della provincia di Vicenza rimase, per tutto il 1919, relativamente tranquilla, e solo qualche sparuta agitazione testimoniò il saldarsi delle rivendicazioni contadine con disagi e proteste originate piuttosto dall’incessante aumentare della disoccupazione[10]. Le ragioni della (relativa) quiete del Bassanese era sostanzialmente dovuta alla differente struttura della proprietà: se nel Basso Vicentino si estendevano infatti grandi proprietà con un forte impiego della manodopera salariata, e se nella zona di Thiene e Schio erano diffuse piuttosto la piccola affittanza e la piccola proprietà, i distretti di Bassano e di Marostica erano piuttosto caratterizzati dalla presenza della mezzadria[11]. Ciò portava non tanto a proteste che miravano al miglioramento dei contratti, con rivendicazioni sul terreno delle condizioni di lavoro, quanto alla generalizzata e diffusa volontà di mutare il vincolo mezzadrile in un rapporto di affittanza in denaro che, in un momento di forte spinta inflazionistica e di rapido aumento dei prezzi alimentari, avrebbe di fatto concorso al rapido arricchimento degli affittuari, fino a garantire ad una buona parte di essi la possibilità di accumulare un certo capitale e divenire col tempo essi stessi proprietari[12]. Fu a questo scopo che mirò la lotta agraria delle leghe bianche nel Bassanese, organizzate a partire dal febbraio 1920 tra Bassano e i comuni del circondario dall’avvocato Egidio Todesco, prestigioso esponente del Partito Popolare locale. Molto velocemente, il movimento delle leghe bianche si ramificò nel territorio, fino a tenere, sotto il patrocinio dell’Unione del lavoro di Vicenza, un suo primo convegno locale nel marzo 1920, quando convennero in città oltre 200 delegati in rappresentanza di 8000 iscritti[13]. Era il segnale del consolidarsi di una posizione di forza dei cattolici nell’area bassanese, naturale pendant dell’affermazione, pressoché incontrastata, del PPI alle elezioni politiche del novembre precedente, quando, in una competizione caratterizzata dalla scarsità dei votanti sugli aventi diritto, i popolari avevano riportato 1151 voti, contro i 325 dei socialisti, i 287 degli ex combattenti e i 138 dei liberali democratici[14]. Lo sgretolamento della tradizionale egemonia della vecchia classe politica liberale era coerente all’andamento del voto in tutta la provincia di Vicenza – dove i popolari riportarono un clamoroso ma non inaspettato successo[15] – e, per molti versi, al risultato in tutta Italia delle elezioni del 1919 che, con la prepotente affermazione dei partiti di massa socialista e popolare e il tracollo della tradizionale classe politica segnarono il vero e proprio turning point della storia nazionale. Tuttavia, al di là della constatazione della perdita concreta della rappresentanza e del potere politico, sembrò che il notabilato che del “partito” liberale era stato la base, la borghesia colta delle professioni, i funzionari, i medi o grandi proprietari, non avvertisse i segnali di un mutamento che investiva anche (e forse soprattutto) il proprio prestigio sociale, la possibilità di far valere ancora un’ascendenza sul mondo contadino che si era definitivamente sgretolata durante la guerra. La sordità dimostrata rispetto al mutare degli equilibri di potere sul territorio fu lampante nei primi mesi del 1920, quando diversi eventi segnalarono l’inasprirsi della conflittualità sociale nelle campagne. In primavera, uno sciopero agrario nel basso vicentino coinvolse più di 20.000 lavoratori, innescando una spirale di assalti a persone e proprietà che portò il prefetto e i comandi militari a ipotizzare scenari di repressione brutale e di guerra civile, mentre il 21 di aprile, con una dimostrazione di forza inusitata da parte delle leghe bianche, Bassano fu invasa da 12.000 contadini fatti affluire da tutto il territorio per reclamare la rapida soluzione della vertenza[16]. Si trattò, come ha messo in evidenza Giampietro Berti, della più grande adunanza di massa mai avuta nel centro della città, e costituì un trauma per le classi dirigenti. Il contemporaneo esplodere dei grandi scioperi agricoli massimalisti a Ferrara e a Bologna – con il diffondersi a macchia d’olio delle squadre armate socialiste e il costituirsi delle satrapie “rosse” – e l’accendersi della rivolta rurale violenta nel Veneto centrale (dove fecero la loro apparizione gli “arditi bianchi” organizzati da Corazzin), fecero temere il collasso definitivo della legalità. Come ha scritto Francesco Piva, gli scioperi duri e le agitazioni organizzate delle leghe mostrarono «tutta la potenzialità eversiva del movimento bracciantile, ma ne indicò anche i primi segni della parabola discendente»[17]. A Bassano, dopo una seconda “invasione” contadina in agosto, la minaccia fisica della protesta e il ricorso ad una lotta violenta, ottennero nell’immediato il raggiungimento degli scopi programmati dalle leghe, ma anche la loro sconfessione da parte delle gerarchie ecclesiastiche, e quindi del PPI, isolando politicamente le masse contadine. Inoltre, l’evidente dimostrazione dell’incapacità del partito di controllare le intemperanze e gli estremismi teppistici dei contadini, oltre alla conclamata incapacità dello Stato di assicurare il rispetto della legalità con la forza, costituirono i due fattori principali che spinsero i ceti agrari ad imboccare la strada della ri-mobilitazione patriottica contro il pericolo del rovesciamento degli ordinamenti costituiti; una miscela esplosiva, fatta di paura e di sfiducia, che portò alla formazione di squadre agrarie pronte a dare battaglia agli “arditi bianchi” e soprattutto accelerò il ricorso a formazioni armate di provata esperienza ed efficacia, come le squadre fasciste[18]. Tuttavia, se in provincia di Vicenza si può parlare di una vera e propria presenza fascista dalle prime incursioni squadriste del gennaio 1921, a Bassano il Fascio di Combattimento, benché già fondato nel settembre 1920, rimase un elemento marginale della vita politica cittadina fino al 1923. Nelle elezioni politiche generali del 1921, che segnarono l’ingresso del fascismo in parlamento auspice il Giolitti dei Blocchi Nazionali, il fascismo bassanese ottenne 214 voti su 2790 votanti, contro i 1535 dei popolari, i 437 dei socialisti e i 405 dei liberali[19]. Questo significava poco per una forza politica il cui destino si giocava più nelle strade e nelle piazze che sui banchi dei consigli e della Camera, e le cui suggestioni nei confronti dell’opinione pubblica si esercitavano a partire non da una funzione politica rappresentativa ma in virtù di una efficacia repressiva nell’ottica di una violenza diffusa, ma è comunque un segnale, se non altro, delle differenze profonde che dividevano le diverse zone della provincia. Sullo svilupparsi dello squadrismo agrario nelle campagne del vicentino come reazione al dilagare e ai successi delle lotte contadine ci possono essere pochi dubbi. Un prezioso testimone contemporaneo, come il nuovo prefetto di Vicenza Gutierrez, nel marzo 1921 mise direttamente in relazione l’appoggio dato dai ceti agrari ai fasci di combattimento con le «insopportabili sopraffazioni» delle organizzazioni contadine, e con la volontà dei proprietari di arrivare piuttosto ad uno scontro frontale anche se armato, ma localizzò nettamente queste dinamiche nella fascia della bassa vicentina: «Da un lato le organizzazioni operaie, che nel basso vicentino sono in prevalenza rosse, imbaldanzite dalle vittorie passate e divenute più arroganti, dimostrano di voler imporre patti ancora più gravosi ai proprietari e conduttori di fondi, a tal segno che i proprietari […] spaventati per le esagerate nuove pretese che li condurrebbero a sacrificare del tutto i loro diritti e i loro interessi hanno assunto un atteggiamento di sfida e non sentendosi abbastanza tutelati dall’Associazione Agraria hanno favorito il sorgere nei centri agricoli più importanti di fasci che sotto la denominazione di Fasci di Combattimento o Fasci Agricoli di difesa sociale hanno il compito di spalleggiare i proprietari contro ogni sopraffazione provenga dai contadini organizzati, intervenendo in ogni contesa, anche del più piccolo interesse economico. […]»[20]. Prima della primavera, i Fasci di combattimento erano sorti in tre soli centri della provincia, Vicenza, Schio e Bassano, ma in tutti e tre avevano condotto una vita stentata, cercando di trovare inutilmente una dimensione nella politica urbana[21]. Come avrebbe testimoniato Gugliemo Gambetta, il capostazione fondatore del primo Fascio, in una lettera a Pasella, il segretario centrale dei Fasci, nell’ottobre 1920, la sezione bassanese si trascinava malamente, perché degli oltre 50 iscritti nessun bassanese aveva la volontà (o il coraggio) di assumersi cariche politiche, e il Fascio, affidato a dei non bassanesi come lui stesso si dichiarava, non sarebbe mai riuscito ad inserirsi nei giochi politici locali né a conquistarsi la fiducia della gente[22]. La fondazione del primo Fascio bassanese dovette aver luogo con tutta probabilità il 26 settembre 1920, (nelle memorie di Vicentini, del resto, il Fascio bassanese figura come unico rappresentante della provincia al convegno regionale dei Fasci di Venezia del 24 ottobre)[23]. Ma seguire pedissequamente le tappe della vicenda politica del Fascio a Bassano non aiuta a comprendere fino in fondo il ruolo giocato dal fascismo anche nell’Alto vicentino. Benché infatti estraneo, nelle sue strutture organizzative, alla vita cittadina, il fascismo ebbe, anche nel Bassanese, un’influenza e un peso assai maggiori dei suoi numeri nella politica teorica. La sequela quasi endemica delle incursioni squadriste nel vicentino e degli scontri con gruppi più o meno organizzati di “guardie rosse” (nella bassa provincia) o “bianchi”, era percepita, nell’ottica della Vicenza e della Bassano moderate, una naturale reazione al turbamento dell’ordine del biennio precedente, una riappropriazione delle città e del territorio cadute in mano ai “sovversivi”. Nello specifico del caso bassanese le dinamiche non furono molto diverse dal plauso solitamente riservato all’eliminazione, più o meno cruenta, dei “rossi” rivoluzionari. Nell’aprile 1921 un’ondata di azioni squadristiche attraversò il Veneto da Verona a Venezia: a Bassano il 21 aprile si registrò la prima spedizione punitiva vera e propria, con la distruzione della casa di un capolega bianco, Giovanni Bertoncello, consigliere comunale, che venne sequestrato e poi rilasciato, imbavagliato e legato, a Rosà[24]. Il progressivo annientamento dell’organizzazione sindacale cattolica non corrispose immediatamente ad una progressiva perdita di peso politico del PPI in ambito locale; benché indubbiamente minato al suo interno da fortissimi contrasti e senza più quel vasto consenso in tutti i settori della società che ne aveva caratterizzato l’ascesa al potere subito dopo la guerra, il partito di Don Sturzo conservava a Bassano la maggioranza assoluta dei voti, come riconfermato dal trionfale successo di Roberti alle politiche di maggio[25]. Tuttavia, le dimissioni da sindaco di quest’ultimo misero in forse la leadership in sede municipale – che fu ritrovata nell’avvocato Antonio Gasparotto – e soprattutto tolsero ai Popolari la più prestigiosa e influente figura attiva nella politica locale. D’altra parte, dopo l’insuccesso delle elezioni politiche, la concentrazione conservatrice-moderata che dai liberali ai fascisti aveva dato vita ai blocchi nazionali ebbe più occasione di riconquistare l’egemonia in chiave elettorale. Ma si trattava di una partita meno rilevante del progressivo smantellamento del sindacalismo rurale, bianco e rosso, che aveva rappresentato la vera novità nella vita sociale ed economica veneta del dopoguerra e che grazie all’appoggio dello squadrismo fascista, alla connivenza delle autorità statali e soprattutto della forza pubblica, i ceti agrari stavano ora riaffrontando da posizioni di forza. L’accordo del novembre 1920 venne così rinnegato dai proprietari che infierirono senza riserve sui protagonisti delle lotte contadine: centinaia di disdette furono date ai coloni, mentre venivano denunciati, arrestati e processati molti militanti cattolici che avevano condotto le lotte dei mezzadri[26]. Come avrebbe commentato amaramente «Il Popolo» il 10 luglio, il ciclo di lotte iniziato con i moti della primavera 1919 si chiudeva con lo «sgretolamento delle organizzazioni, lo sfasciamento delle unioni sindacali bianche» e il ritorno, sulle rovine della guerra civile in corso, al regime d’anteguerra[27]. Da questo punto di vista, Bassano costituì una rilevante eccezione a quell’atteggiamento «elastico» tenuto dal fascismo nei confronti del mondo cattolico veneto almeno fino al 1924: se, infatti, come sostiene Ernesto Brunetta, in gran parte della regione a quella data le organizzazioni cattoliche esercitavano ancora una non trascurabile influenza, nell’Alto Vicentino la capacità del movimento di influire sulle condizioni materiali e sullo status sociale dei contadini era ormai nulla[28]. Ufficialmente, Bassano Veneto continuò ad essere una città a influenza popolare fino al settembre 1922, quando la giunta si dimise per le profonde divisioni al proprio interno. Nel 1923 e nel 1924, alle amministrative e poi alle politiche generali, la città sarebbe entrata a pieno titolo nell’orbita della nuova Italia fascista, con un’amministrazione vincitrice di una competizione elettorale in cui si era presentata una sola lista, e delle elezioni politiche più contestate della storia dell’Italia unita. Nel 1926, infine, con l’abolizione del sindaco e l’introduzione della carica podestarile di nomina prefettizia, anche a Bassano la lotta politica sarebbe formalmente cessata: imposta ormai la dittatura a viso scoperto in tutto il paese, attraverso l’applicazione delle «leggi fascistissime» e l’architettura progressiva dello stato di polizia, nella città l’unico attore politico attivo rimase il Partito fascista, mentre i superstiti rappresentanti degli altri partiti emigrarono o si ritirarono (come la maggior parte dei popolari) dalla vita pubblica. Sostenuta dal fascismo, filofascista o semplicemente simpatizzante, a partire dalla metà degli anni Venti si impose una classe dirigente locale che avrebbe tenuto il potere senza soluzione di continuità fino al 1943. Guglielmo Gobbi, medico assai noto e attivo in zona, liberale conservatore, ultimo sindaco eletto (ottobre 1923) e primo podestà nominato (nell’aprile 1927, dopo un biennio di commissariamento), fu il tipico esponente di un notabilato tradizionale, che con la dittatura convisse senza turbamenti e che anzi ne legittimò, in sede locale, l’esistenza[29]

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