Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La pieve di Santa Maria di Bassano (fig.1)

1BassanoCollegiata

1. Bassano del Grappa, Collegiata di Santa Maria in Colle. Esterno della collegiata, nell’assetto della ricostruzione tardo-cinquecentesca.

figura fra le 30 in cui la diocesi di Vicenza risultava divisa a cavallo del XIII – XIV secolo[13]. L’intitolazione richiamava quella della cattedrale di Vicenza dopo la ricostruzione avvenuta nell’VIII secolo[14]. Nel corso del XIV secolo la nascita di nuove fondazioni rese periferico il ruolo della pieve, che fu tuttavia oggetto continuo di attenzione del Consiglio della comunità grazie alla volontà di esercitarvi il proprio giuspatronato[15]. Si trattava di una questione che riguardò costantemente la nomina degli arcipreti durante il dominio veneto, e che affondava le proprie radici nella vertenza che tra fine Duecento e inizio Trecento aveva coinvolto il Comune riguardo al pagamento delle decime. Il conseguimento dell’investitura delle decime alla comunità aveva infatti comportato che il Comune dovesse occuparsi della manutenzione dell’edificio ecclesiastico, con la conseguenza che il Comune aveva esteso il proprio controllo sul clero locale[16]. E’ un aspetto che, scorrendo gli Atti del Consiglio e il materiale documentario riguardante l’arcipretura conservati nell’Archivio del Comune di Bassano[17], emerge costantemente, a partire dal XV secolo, al momento della nomina di un nuovo arciprete. La questione rivela particolare interesse perché coinvolgeva le istituzioni centrali, in un intersecarsi di contrasti giurisdizionali che non risolvevano però problemi strettamente connessi al governo ecclesiastico locale. Nel periodo precedente il Concilio di Trento il protrarsi dei dissidi metteva contemporaneamente in luce da un lato l’assenteismo degli arcipreti, dall’altro l’utilizzo che i sacerdoti stessi effettuavano dei benefici, i quali spesso erano oggetto di permuta o servivano solo per garantirsi un’entrata senza rispettare alcun vincolo (come sappiamo era una situazione molto diffusa nel periodo pre-conciliare[18]): è il caso di diversi arcipreti di nomina papale, come ad esempio Benedetto Novello, che, ancora chierico, ebbe il beneficio nel 1473 e delegò al governo della pieve un proprio vicario, preferendo come luogo di residenza Padova, dove rimase per frequentare l’Università. Ma è anche il caso del canonico di Vicenza Nicolò da Soino, che, dopo la nomina ad arciprete conferitagli da Giulio II nel 1509 su proposta del Consiglio, non prese possesso del beneficio e divenne vicario generale del vescovo di Vicenza Francesco della Rovere, o ancora del modenese Sebastiano Bellencino, nominato nel 1512 da Giulio II (in seguito alla rinuncia di Roberto de Nidis), che a Bassano presenziò solo occasionalmente, e del frate Francesco del Cadore - eletto nel 1527 da Clemente VII successivamente alla rinuncia del Bellencino -, che permutò l’arcipretura con Marcantonio Sappa, rettore a Vedelago[19]. A questo proposito è da evidenziare il comportamento del Bellencino, che nel periodo in cui detenne formalmente l’arcipretura, contrastato dal Consiglio sia per il possesso di questo beneficio ecclesiastico che per il pagamento del quartese da parte del beneficiato della cappella di Sant’Antonio di Rosà (annessa alla pieve e sulla nomina del cui beneficiato il Consiglio rivendicava il giuspatronato), grazie a una serie di suppliche al pontefice e all’appoggio dei vertici ecclesiastici fece ripetutamente scagliare l’interdetto sul Consiglio, rinunciando all’arcipretura nel 1526[20]. Al di là delle questioni giurisdizionali sorte per il giuspatronato sulla pieve, la vicenda si rivela interessante perché mette in luce l’utilizzo delle suppliche al pontefice come strumento per riuscire a conferire i benefici oggetto di rinuncia a familiari o a persone della propria cerchia. Non è lontano dalla realtà pensare che comunque prima della rinuncia il Bellencino fosse riuscito a garantirsi una pensione sui benefici oggetto di contrasto[21]. La questione del giuspatronato raggiunse un momento cruciale all’indomani del Concilio di Trento, negli anni Sessanta-Settanta del Cinquecento, durante l’arcipretura del nobile veneziano Alvise Pizzamano, subentrato nel 1545 per nomina papale grazie alla rinuncia di Francesco Pizzamano[22]. La nomina celava molto probabilmente una resignazione in favorem, grazie alla quale membri di una stessa famiglia avevano la possibilità di tramandarsi il possesso di benefici come se si trattasse di beni propri. Fu dopo la morte di Alvise Pizzamano nel 1567 che il Consiglio decise in un primo momento di nominare quattro cittadini per porre ordine nel governo delle faccende ecclesiastiche locali e successivamente di ricorrere al vescovo di Vicenza, inviando due oratori perché fosse mandato a Bassano un arciprete che governasse adeguatamente, minacciando di fare ricorso al legato apostolico o al pontefice. Ma da parte del vicario vescovile la comunità ottenne solamente di poter nominare due sacerdoti con cura d’anime[23]. Né un successivo appello al vescovo per un migliore governo della pieve ebbe sorte positiva; il ricorso del Consiglio alle autorità veneziane, precisamente al Consiglio dei 10, sortì effetto migliore, motivo per cui i rappresentanti dell’amministrazione cittadina decisero di imporre una colta per promuovere la questione del giuspatronato presso la Santa Sede[24]. Evidentemente la nomina vescovile di Vincenzo Cicogna, allora vicario generale del vescovo Matteo Priuli, celava già in sé la certezza che il nuovo arciprete non avrebbe potuto governare la parrocchia personalmente[25]. La rinuncia del Cicogna in favore del bassanese Girolamo Compostella nel 1573 ancora una volta lascia intravedere come nella realtà la nomina all’arcipretura sfuggisse al controllo dell’amministrazione cittadina e fosse invece guidata dalle istituzioni ecclesiastiche centrali. Se è vero che all’epoca della nomina il Compostella si trovava al Collegio Germanico di Roma[26], non è da escludere che relazioni ed agganci gli avessero permesso di godere di appoggi per ottenere la nomina al beneficio. La collazione dello stesso grazie alla rinuncia in favorem divenne del resto la modalità consueta di trasferimento del possesso del beneficio: così nel 1611 la resignatio del Compostella fu seguita dalla nomina del nipote Antonio Veneziani, cui succedette con la stessa modalità, nel 1626, il fratello Cristoforo. Questi rinunciò al beneficio nel 1670, consentendo la nomina papale di Giovanni Battista Barbieri[27]. E’ chiaro che in tal modo il giuspatronato del Consiglio sulla pieve era completamente scavalcato e, d’altro lato, che il sistema di trasmissione del beneficio permetteva sia ai rinunciatari che ai successori di garantirsi una rendita economica: se i successori possedevano le entrate del beneficio, i rinunciatari molto spesso si riservavano una pensione sulle entrate dello stesso, le quali sovente avvantaggiavano più il rinunciatario che il nuovo nominato, il quale doveva calcolare che la propria rendita andava decurtata della pensione[28]. Per tutto il Seicento il beneficio parrocchiale era passato da una nomina papale all’altra sfuggendo al controllo diretto del Consiglio: non è da escludere che all’interno dell’assemblea cittadina fossero presenti sostenitori dei singoli arcipreti, ma in concreto è piuttosto evidente che le iniziative dei singoli fossero rivolte pressoché esclusivamente alle istituzioni ecclesiastiche centrali. Da un altro punto di vista va evidenziato che, se durante il Quattrocento e il Cinquecento il governo della pieve fu prevalentemente affidato a sacerdoti provenienti dalla diocesi o da città di altri Stati italiani, nonché, nel caso dei Pizzamano, dalla nobiltà veneziana, i quali generalmente non erano residenti e si avvicendavano con una certa frequenza, nel Seicento la nomina degli arcipreti riguardò più da vicino sacerdoti di Bassano, che avevano maggiore conoscenza della realtà locale, e che mantennero il possesso del beneficio per decenni[29]. Rimaneva tuttavia irrisolta la questione del giuspatronato, che riemerse nel 1722, allorquando l’età di Giovanni Battista Barbieri lasciava presagire che l’arcipretura si sarebbe presto resa vacante e da parte consiliare si reputò utile prendere informazioni presso le autorità veneziane sui diritti posseduti. Il Consiglio infatti rivendicava il possesso del diritto di eleggere il proprio arciprete. All’indomani della morte del Barbieri tra il Consiglio e la Curia di Vicenza scaturì una causa che vide il ricorso di entrambe le parti al Pien Collegio e che fu da quest’ultimo risolta a favore del Consiglio, il quale da allora avrebbe avuto il diritto di eleggere il proprio arciprete e presentarlo alla Curia per la conferma. A sostegno delle ragioni del Consiglio erano addotte le origini del giuspatronato risalenti ad un’epoca antica, nonché i giudizi emanati dall’autorità politica sul carattere perpetuo di tale diritto pronunciato nel 1474[30]. La controversia tuttavia proseguì con il ricorso della Curia vescovile di Vicenza all’Avogaria di Comun contro il giudizio del Pien Collegio, l’inoltro della sentenza al Consiglio dei Quaranta da parte dell’Avogadore e l’annullamento di tale sentenza nel 1726, motivo per cui l’elezione del bassanese Nicolò Bertagnoni, il quale non sembrava godere della simpatia dell’allora vescovo Sebastiano Venier, non fu riconosciuta. La vertenza si concluse solo nel 1734 con una sentenza del Pien Collegio favorevole al Consiglio[31], che si vide riconosciuto ufficialmente il giuspatronato secondo le richieste della supplica presentata nel marzo 1722. A succedersi, per nomina del Consiglio, cittadini di Bassano[32](fig. 2).

2Catalogoarcipreti

2. Catalogo degli arcipreti di Bassano. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, ms 30-C-2-18. La vertenza sulla nomina degli arcipreti si concluse nel 1734 con una sentenza del Pien Collegio favorevole al Consiglio Comunale, che si vide riconosciuto ufficialmente il giuspatronato e il potere di nomina.

Il dissidio sul giuspatronato si venne intersecando con la questione del ripristino della collegiata, già esistente nel 1205, e approvata nel 1280, quando con un decreto il legato apostolico a Firenze Francesco Latino eresse nella pieve un capitolo costituito da quattro canonici compreso l’arciprete, con la possibilità di accrescerne il numero qualora le entrate fossero incrementate[33]. Documenti dei secoli successivi attestano l’esistenza dei canonici, ma l’evoluzione del capitolo lascia intuire la scomparsa di tali figure, se all’inizio del 1611 il Consiglio aveva intenzione di erigere una collegiata di dodici canonici, compreso l’arciprete, con una serie di capitoli i cui punti principali riguardavano la remunerazione dei canonici e dell’arciprete, la celebrazione degli uffici divini nei giorni feriali e festivi, le modalità di elezione dei canonici, la norma da rispettare qualora l’arciprete non fosse presente (all’incarico era ammesso solamente un dottore in utroque iure laureato nel pubblico studio di Padova), l’obbligo che l’arciprete fosse un cittadino di Bassano e che il suo beneficio non fosse gravato da pensioni. La Comunità avrebbe versato denaro al capitolo, che in cambio avrebbe dovuto fornire tre maestri preparati per insegnare umanità, grammatica e seguire i principianti, temporaneamente esentati dal coro ma concorrenti alle distribuzioni, i quali però in caso di negligenza sarebbero stati privati dalla comunità dello stipendio. I canonici eletti avrebbero dovuto essere idonei a confessare le monache, a tenere la cura d’anime, mentre un massaro di cappella avrebbe dovuto insegnare gratuitamente ai chierici e nei giorni di festa i canonici avrebbero insegnato la dottrina cristiana[34]. In tale contesto, la volontà del Consiglio mirava a sottolineare l’importanza della «religione cittadina»[35], come più in generale i capitoli delle collegiate, che «costituivano un’effettiva presenza di potere sul territorio» e si caratterizzavano da un lato per la presenza in centri cittadini e dall’altro per la composizione sociale, che rifletteva quella degli organi di potere locali[36]; inoltre si inseriva in questo contesto «la ripresa di fondazioni di chiese collegiate, che interessò l’Italia a partire dalla fine del XVI secolo», entro i cui capitoli «si aggregavano e si amalgamavano le diverse componenti del ceto di governo»[37]. La ripresa di tale intenzione nel 1691 con la proposta di istituire un capitolo di quattro canonici a capo dei quali fosse l’arciprete[38] lascia intuire che l’istituzione della collegiata non era ancora stata attuata. Esito favorevole ebbe invece negli anni 1756-1757, grazie a lasciti, tra i quali si distingueva quello di 4000 ducati di Giustina Donà, e grazie all’azione promossa dal Consiglio per sostenere l’iniziativa[39]. Così nel luglio 1757 il doge Francesco Loredan, dopo avere sentito anche il parere dei consultori in iure, manifestò l’assenso alla fondazione di sei prebende laiche da affidare a canonici scelti dal Consiglio, cui era garantito l’intervento anche nella gestione economica di lasciti e capitali destinati alle prebende, precisando che tale gestione si sarebbe dovuta intendere sempre di «ragion laica» e che i relativi beni non avrebbero mai potuto assumere il carattere di «beni ecclesiastici», aggiungendo inoltre che all’arciprete sarebbe sempre spettata la precedenza con la direzione della disciplina e che in sua assenza la responsabilità sarebbe spettata al più anziano dei canonici[40]: si trattava di un vero e proprio capitolo, in cui la dignità maggiore spettava all’arciprete e, come spesso succedeva nei capitoli cattedrali, un ruolo importante svolgeva il canonico più anziano[41]. L’elevazione del numero dei canonici a 11 da parte del Senato veneziano nel 1769 e la successiva conferma vescovile costituirono l’esito di una vicenda che ebbe il proprio epilogo in un periodo durante il quale nel contesto più ampio dei rapporti tra Repubblica Veneta e Chiesa stavano avvenendo mutamenti importanti, in cui le rivendicazioni giurisdizionali della Serenissima si andavano sia via sempre più rafforzando[42] se da un lato evidenziavano le pretese giurisdizionalistiche della Repubblica di Venezia, che riusciva così a imporre il controllo del potere civile su aspetti strettamente legati alla sfera ecclesiastica, dall’altro sembrano mettere in rilievo il tardo riconoscimento ufficiale della volontà del ceto dirigente di Bassano, che in quegli stessi anni veniva pure riconosciuta «città»[43]. Né bisogna dimenticare che forse la vera intenzione del Consiglio era di far assurgere la pieve a sede diocesana, come lo stesso aveva palesato nel 1711[44], e che pertanto, per gli organi centrali del potere ecclesiastico ma anche politico, la concessione di una collegiata rappresentava un modo per accontentare i rappresentanti del governo locale senza compromettere i propri rapporti.     

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