Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

A beneficiare per primo della nuova condizione del Bassanese fu il commercio del legname, che dalle aree alpine veniva inviato in tronchi o come semilavorato a Venezia, sfruttando la fluitazione sul Brenta. L’interesse dei veneziani per questo tipo di risorsa era precedente alla conquista della Terraferma e già alla metà del XIII secolo la Valsugana figurava fra le aree di approvvigionamento preferite, insieme alla montagna veronese ed al Cadore[85]. A Bassano, al “porto di Brenta” (fig.4)

4-MarcoSebastiano

4. Marco Sebastiano Giampiccoli, Veduta minore di Bassano (part.). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Inc.Bass. 535.
La presenza di zattere per la fluitazione del legname a valle è attestata in numerose vedute della città, dalle più antiche alle più recenti.

si trovava quello che Katia Occhi ha definito come uno «scalo tecnico per i traffici di legna e tavolame», mentre le lavorazioni più gravose e buona parte della contrattazione si svolgeva nelle ville del distretto e del circondario[86]. Sulla piazza bassanese afferivano, infatti, i materiali provenienti da un’ampia area prealpina, in particolare quanto giunto dal centro specializzato di Primiero, senza che il confine amministrativo e fiscale costituisse un ostacolo. A Primiero venivano raccolti i legnami confluiti dalla Val d’Adige, dal feltrino, dall’agordino e dalla Valsugana-Tesino, per poi essere trasferiti a Fonzaso (nel feltrino) lungo la via fluiviale del Cismon, dove – insieme al prodotto della zona – erano sottoposti alla prima fase di lavorazione nelle numerose seghe. Successivamente, sempre lungo il torrente Cismon, il prodotto confluiva nel Brenta, per fare ulteriore tappa a Bassano, dove si univa a quello giunto dalla Valsugana inferiore e da parte dell’Altopiano di Asiago, lì condotto dagli operatori di Valstagna. Una volta giunto in pianura la fluitazione proseguiva su zattere, prima verso Padova e poi Venezia, coprendo un’area di provenienza di circa 1000 km2, per quantità che potevano aggirarsi complessivamente sulle 50.000 taglie di legname[87]. Il grande flusso di legname che transitava per Bassano trova conferma negli appalti del dazio, che nel 1418, ad esempio, venivano valutati in £ 600 di piccoli (circa 160 ducati) l’anno[88]. L’importanza strategica di questa risorsa, anche a livello fiscale, aveva indotto il governo centrale a trattenere il ponte sul Brenta come bene demaniale ed un provvedimento di riforma del Senato del 1422 in materia di dazi scosse per alcuni anni gli equilibri consolidatisi a livello locale[89]. In quell’occasione i senatori, sotto il pretesto delle ingenti spese da sostenere per i continui lavori di rifacimento della struttura lignea del ponte a seguito dei danni apportati dalla fluitazione e dalle brentane, procedettero ad una revisione delle imposte di dazio, ma soprattutto ne tolsero il controllo agli appaltatori del luogo, a favore di uno diretto da parte delle camere lagunari. Veniva prevista la riscossione delle imposte di dazio da parte del massaro del Comune di Venezia o del collega bassanese, ed il denaro così raccolto doveva essere poi consegnato al rettore bassanese, che insieme a debito rendiconto l’avrebbe infine ceduto ai Provveditori di Comun in laguna; inoltre il rettore aveva l’obbligo di ispezionare mensilmente sia la qualità del prodotto che il regolare pagamento delle imposte. L’ingerenza provocò gli immediati malumori degli operatori del luogo e dei mercanti, che lamentarono il dirottamento delle legne verso altre vie commerciali a seguito dell’innalzamento della pressione fiscale, in grave perdita per tutta l’economia del territorio. Tuttavia un danno ancora maggiore lo subirono i montanari che dal commercio del legname traevano gran parte del loro sostentamento, a partire da quelli del distretto bassanese, che per primi si mossero autonomamente per tornare alle modalità tradizionali. Furono loro ad offrirsi di riprendere in mano la situazione per tornare alla regolamentazione anteriore al provvedimento: all’inizio del 1426 i solagnesi, con presentazione di adeguata fideiussione, ottennero dai Pregadi l’annullamento della delibera del 1422 e la restaurazione del vecchio dazio, con l’impegno da parte loro di tenerlo per un triennio e con l’aumento di £ 1000 di piccoli all’anno rispetto alle condizioni allora in vigore[90]. La soluzione della vicenda portava in primo piano i principali operatori del ramo, con una netta preminenza dei distrettuali delle località di montagna, primi fra tutti quelli di Solagna. Famiglie come Cataneo, i Buzola e gli Sguario, che occupavano ruoli di primo piano all’interno della loro comunità, erano specializzate nel settore intrattenevano contatti lungo tutta la filiera, dai tagliatori fino ai mercanti veneziani, quando non si recavano in prima persona sulla piazza realtina[91]. Questi imprenditori del legname erano in grado di trattare in prima persona grandi capitali, all’interno di un’area di mercato relativamente vasta, che superava il mero confine fluiviale e, come abbiamo visto, avevano competenze e disponibilità finanziarie tali da consentire loro un diretto controllo su aspetti fondamentali come quello fiscale. Inoltre potevano vantare una certa tradizione familiare sul comparto, che si tramandavano di generazione in generazione. Negli anni ‘80 del XV secolo, ad esempio, gli Sguario non solo erano ancora fra i principali operatori del distretto, ma continuavano a trattare sia con mercanti padovani e veneziani che a gestire in proprio interessi anche su una piazza decentrata rispetto alla della fluitazione come quella vicentina[92]. In questo contesto i bassanesi si dedicarono prevalentemente all’intermediazione ed allo smercio verso valle, lasciando ai mercanti veneziani, ai distrettuali ed ai mercanti di montagna il compito di organizzare ed investire nell’intera struttura commerciale. Nella filiera essi arrivavano dopo che era già stato organizzato l’esbosco, al momento di acquistare il legname da inviare allo smercio, comprato all’ingrosso dai montanari del distretto o direttamente al punto di raccolta di Primiero. Seguiva questa modalità anche Giacomo Botton, quando il suo procuratore Benedetto Forcatura – a sua volta esponente cittadino di primo piano – comprava una partita di tronchi dal solagnese Zanetto di Cristoforo che sarebbe poi stata rivenduta sul mercato patavino[93]. Il tutto poteva diventare ancora più conveniente all’interno delle reti di parentela che le famiglie del ceto dirigente bassanese andarono creando lungo il secolo: così per i Botton, un cui ramo dopo la metà del secolo si insediò stabilmente a Padova, i contratti con i solagnesi per la fornitura di grosse partire di legname di vario genere si legavano al loro ruolo di intermediari fra il commercio all’ingrosso della montagna e quello locale nella città del Santo[94]. Un tipo di traffici che alcune famiglie, come la suddetta, portarono avanti per lungo tempo: nel 1463 Antonio Alvise Botton, in quel momento residente a Padova, si apprestava nel mese di gennaio a dichiararsi debitore del distrettuale Bartolomeo Pizinino per oltre £ 800 di piccoli, rimaste da saldare per una precedente fornitura di legname da parte del solagnese pari a £ 890 di piccoli in legne; di lì a qualche settimana, in marzo, i due rinnovavano gli accordi di rifornimento per un’ampia varietà tipologica di legnami che il Pizinino gli avrebbe inviato a Padova da Levico[95]. Difficilmente però i contratti di fornitura si trasformavano in accordi societari veri e propri anche nel caso della famiglia bassanese che più delle altre sembrò inserita in quest’attività commerciale: i dall’Amico. I suoi membri, oltre a partecipare all’acquisto e rivendita di partite di prodotto, fecero un salto ulteriore, andandosi a collocare direttamente sulla piazza veneziana, dove almeno dagli anni ‘20 del Quattrocento possedevano e gestivano un magazzino con bottega nell’area della “Barbaria”, dove facevano «bon marchado de lignamine et si compra a credenza e si vendi a danari»[96]. In questo modo la famiglia superava il ruolo di mero rivenditore, per supervisionare buona parte delle fasi di commercializzazione ed avere un maggior controllo sulla gestione del prodotto, la clientela e la contrattazione dei prezzi. Tuttavia, anche in un caso come questo il coinvolgimento nel settore del legname per le famiglie del ceto dirigente o di maggior sostanza non diventò mai predominante od esclusivo (a differenza di quanto accadeva per i comitatini della montagna), bensì questo tipo di investimento si inseriva in un contesto di diversificazione degli interessi economici e nello sfruttamento di correnti mercantili verso la laguna che coinvolgevano, come vedremo, anche la lana e prodotti alimentari quali il vino. Solo a partire dal tardo Quattrocento ed in modo sporadico il coinvolgimento diretto dei maggiorenti bassanesi sfociò in partecipazioni societarie sin dalle fasi dell’esbosco, come in un caso del 1473, quando Francesco Campesan stipulò un contratto quindicennale quale socio investitore a favore di Andrea di Giuliano da Oliero, assumendosi il pieno controllo e la responsabilità della parte commerciale, mentre il socio d’opera si sarebbe occupato dell’esbosco presso alcuni boschi del Tesino precedentemente affittati dal Campesan; il tutto in cambio della spartizione a metà dei profitti[97]. Sulla piazza operavano inoltre alcuni mercanti delle città venete, a partire dai padovani. Nella primavera del 1424, ad esempio, il padovano Manfredo del fu Leonardo si rivolgeva più volte al tribunale podestarile bassanese per dirimere contrasti insorti intorno alla professione, in particolare per la consegna di oltre 260 taglie da parte del cartiglianese Antonio; lo stesso in quel periodo aveva stipulato accordi anche coi Cataneo di Solagna[98]. Negli anni ‘70, invece, era il fornaciaio padovano Giovanni di Antonio da Verona ad accordarsi con gli operatori della zona per il rifornimento ed il trasporto a Padova di legname proveniente da nove boschi che Giovanni aveva precedentemente affittato nel Tesino, per assicurarsi combustibile per la sua attività e probabilmente anche per una rivendita al dettaglio sul mercato cittadino[99]. Meno scontato era invece l’interesse emergente dei patrizi veneziani, che accompagnarono gli investimenti fondiari con un diretto coinvolgimento nella produzione e nel commercio delle materie prime, forti degli sgravi fiscali e dei privilegi di cui godevano e che li rendevano competitivi sul mercato, oltre che del ruolo già ricoperto nel mercato realtino[100]. Lo stesso Girolamo Morosini che durante il secolo accumulò un vasto patrimonio fondiario fra Bassano e Cartigliano già alla fine degli anni ‘50 fu coinvolto nella rivendita di legname, comprato direttamente dai buscheri tedeschi che lavoravano nei boschi del Trentino, mentre negli anni ‘70 lungo l’asse Brenta-Primiero si snodava un’area strategica per i suoi commerci nel comparto; egli impiegava nel pagamento ai mercanti locali prodotti della pianura (secondo il classico schema di scambio piano-montagna) compresi quelli provenienti dalle sue proprietà fondiarie bassanesi, come il vino[101]. Lungo la direttrice montagna-pianura si innestava l’interesse del patriziato veneziano anche per un’altra materia prima di enorme importanza: la lana, impiegata massicciamente nei numerosi ed importanti lanifici dello Stato, compreso quello veneziano. I Diedo, i Querini ed i Morosini, in proprio o grazie all’intermediazione delle famiglie locali, partecipavano non solo al commercio delle lane da rivendere sul mercato lagunare, ma si interessavano anche alla parte produttiva, stipulando contratti di conduzione delle greggi[102]. Un significativo esempio della loro partecipazione ci viene fornito dal caso di Girolamo di Marco Gradenigo: per il triennio 1473-1476 si sono conservati 46 rogiti notarile che lo vedono venditore di partite di lana con una movimentazione di oltre 15.900 libbre di vello (circa 7630 kg), dalle quali ricavò più di 755 ducati. Fra i suoi compratori si contano alcune delle principali famiglie di lanaioli bassanesi (i Montini, i da Chioggia, i da Tortima), ma anche famiglie che pur non operando direttamente avevano diversificato parte dei loro capitali in questo settore, come i dall’Amico, ai quali solitamente il veneziano concedeva un pagamento dilazionato, in modo che potessero ripagarlo coi profitti derivati dalla vendita dei panni prodotti con quella materia prima[103]. Marco Gradenigo non partecipava alla manifattura laniera locale, ma era pienamente inserito nel fondamentale mercato della materia prima, proveniente dalle sue greggi con base nel territorio bassanese, dalle quali doveva ricavare quantitativi di prodotto anche maggiori di quelli appena citati, indirizzati anche alla rivendita diretta sulla piazza realtina. Al pari che per il mercato del legname, anche in questo caso i veneziani sfruttavano i legami venutisi a creare a seguito della creazione dello stato regionale, per partecipare attivamente in uno dei più vivaci comparti economici del territorio. La disponibilità di pascoli, a lungo non in competizione con una cerealicoltura povera e sconveniente, l’accesso a corsi d’acqua di collegamento diretto coi lanifici, la posizione geografica, che situava Bassano lungo i percorsi di transumanza fra la montagna (la fascia di pascoli d’altura compresa fra l’altopiano di Asiago, la Valsugana ed il Tesino) e le poste di pianura (specialmente del padovano, ma anche interne al territorio bassanese), e non da ultima la domanda di lana in crescita sia internamente che dai centri vicini, facevano del distretto un’area naturalmente vocata all’allevamento ed alla commercializzazione delle greggi ovine e dei prodotti da esse derivati. A questa data la transumanza era una pratica consolidata in tutto il Veneto (fig.5),

5-RaphaelSadeler

5. Raphael Sadeler da Jacopo o Francesco Bassano, Primavera (1598-1600), acquaforte e bulino.
La lavorazione della lana è stata molto importante per l'economia bassanese. L’incisione eseguita nel soggiorno veneziano dell’incisore fiammingo documenta un dipinto eseguito per il cavaliere Alfonso Morandi ma non identificabile con i dipinti noti.

già strutturata in zone e percorsi ben noti e definiti, che Venezia provvide a confermare nella loro regolamentazione sin dal primo periodo di dominazione[104]. Era una pratica vantaggiosa, che consentiva di utilizzare ambienti complementari in diversi periodi dell’anno, in modo da sfruttare appieno le aree di pascolo per mezzo del trasferimento del bestiame: in estate si potevano mettere a profitto i ricchi pascoli montani, in zone non utilizzabili dall’agricoltura, mentre le fertili pianure erano impegnate nelle colture cerealicole; in inverno i terreni di pianura, liberi o a riposo, fornivano il cibo per gli animali in condizioni climatiche migliori rispetto a quelle montane[105]. Come dicevamo la Dominante comprese immediatamente l’importanza, per il sostegno alla manifattura laniera – la principale dello Stato –, del buon funzionamento di un sistema che consentiva una maggiore redditività delle greggi senza gravare eccessivamente sull’agricoltura e lo sostenne con leggi apposite. L’altopiano dei Sette Comuni costituiva una delle più vaste aree di pascolo dello Terraferma, collegata con la pianura anche attraverso la fortezza della Scala, la Valsugana ed il Canale di Brenta (in alternativa alla via dei Lessini o a quella della Valle dell’Agno), dove le greggi potevano trovare ristoro estivo per poi scendere e trovare sbocco nel Bassanese prima di dirigersi a svernare nel padovano (fig.6);

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6. Jacopo Bassano, Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo.Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, donazione W.R.Rearick.
Jacopo Bassano esegue a partire dagli anni ’60 del Cinquecento numerosi dipinti nei quali è documentata la pastorizia. Le pecore vi sono raffigurate dal vero con le caratteristiche della pecora dell’Altopiano.

Venezia confermò la concessione ai pastori altopianesi che consentiva loro di pascolare nel distretto padovano fino al giorno di san Giorgio in tutte le campagne ove non vi fossero stati orti, vigneti o seminati (secondo l’uso), garantendoli con l’obbligo di mantenere a livelli ragionevoli l’affitto delle poste[106]. Il distretto bassanese continuava dunque, anche in epoca veneziana, a fare da collegamento e da zona di sosta a sua volta, inoltre altre concessioni veneziane permettevano al prodotto della zona di uscire dalla sfera del protezionismo dei maggiori capoluoghi, nel caso quello vicentino, nonostante le forti pressioni delle città. Se da una parte Vicenza riproponeva con insistenza misure atte al pieno controllo ed accentramento sul lanificio urbano di tutte le lane prodotte nel distretto berico, l’interesse veneziano di poter disporre di prodotto che uscisse da quella stretta maglia, a vantaggio innanzitutto della manifattura realtina, agevolò anche la produzione bassanese, come via alternativa per i pastori che volevano sfuggire dai lacci dell’economia di distretto, in forza del diritto che Venezia si riservò di poter acquistare lane delle pecore vicentine andate a svernare fuori da quel territorio[107]. La conseguente sovrabbondanza di vello, rispetto alle esigenze locali, trovava allora sfogo nell’esportazione verso il mercato veneziano, stimolando di riflesso una specializzazione ed un interesse crescenti. Una libertà di movimento per le greggi che la Serenissima garantì anche ai pastori della Valsugana e dall’Alto Adige con una ducale del 1443, consentendo loro di poter vendere le lane dei loro animali in qualsiasi distretto dello Stato[108]. Anche in questo caso la via privilegiata per la transumanza di quelle greggi attraversava il bassanese, rendendolo uno dei principali snodi sia per il commercio regolare che per il nebuloso settore del contrabbando. Su Bassano si sommavano, dunque, le lane locali, sovrabbondanti rispetto alle esigenze interne e a parte di quelle dell’Altopiano asiaghese dirette alla capitale, oltre a quelle provenienti dal Tesino, da Lavarone e dalla Folgaria, le zone del Trentino che naturalmente si indirizzavano alla laguna eludendo la politica protezionistica del principato di Trento; ad esse poi si aggiungeva una parte anche delle lane provenienti dalla Germania. Il passaggio delle greggi, nonostante le difficoltà che esso causava alle colture, veniva perciò sostenuto anche dalle istituzioni di Bassano, che nel 1465 onde evitare dissidi con l’accresciuto numero di agricoltori, stabilì che fossero sempre assicurate lettere de credentia a tutti quei pastori che avessero voluto attraversare il territorio[109]. In questo modo trovavano un punto d’incontro le volontà d’espansione di un settore vantaggioso per Bassano e l’esigenza veneziana di svincolarsi per l’approvvigionamento, dalla competizione con i lanifici della Terraferma ed il protezionismo dei capoluoghi, anche a livello istituzionale centrale. Un accordo d’intenti che traspare anche dalla concessione di istituzione dell’Arte della lana bassanese da parte della Dominante nel 1435, nella quale quest’ultima impose che tutte le lane non utilizzate dalla locale manifattura fossero riservate in via esclusiva al mercato lagunare, a differenza di quanto accaduto fino a quel momento con la libera esportazione delle lane sovrabbondanti[110]. Una produzione di materia prima che era consistente, come risulta da una ducale dell’anno successivo: al lanificio bassanese il doge assicurava 12.000 libbre (5,76 tonnellate) di lana su una produzione stimata annualmente in 40.000 libbre (19,2 tonnellate), trattenendo quindi per gli operatori veneziani il 70% del vello, pari a 28.000 libbre (circa 13,5 tonnellate)[111]. Un flusso che diminuì in quantità solo nella seconda metà del secolo, probabilmente a causa della crescente richiesta di prodotto da parte dei lanaioli bassanesi e della riduzione dei pascoli, inducendo l’Arte della Lana ad approvare nel 1469 una delibera più severa per contrastare il contrabbando, dannoso non solo a fini fiscali ma anche nel rapporto di fornitura a Venezia: chiunque avesse voluto vendere lana sul mercato veneziano doveva presentare localmente una controlettera, mentre al daziere bassanese era vietato bollare le balle di lana finché il venditore non avesse presentato una fideiussione[112]. La preoccupazione dei bassanesi venne confermata nella riforma degli Statuti dell’Arte della Lana del 1483, nella quale si stabilirono altri due importanti provvedimenti a fine protezionistico[113]. Il primo prevedeva l’elezione di due deputati, eletti dal Consiglio cittadino, che avrebbero deciso il prezzo di vendita delle lana per tutto il territorio, previo accordo con il podestà e capitano. La presenza del rettore garantiva la Dominante, la maggiore acquirente, mentre la scelta dei primi deputati, Matteo Caffeti e Paolo Corradini, sembra indicare nella figura del Caffeti, esponente del ceto dirigente e membro di Consiglio, la volontà da parte dell’élite bassanese di mantenere uno stringente controllo su un commercio nel quale era ampiamente inserita[114]. L’allevamento delle greggi era affidato a pastori in maggioranza provenienti dalle aree montane; essi conducevano gruppi di animali composti da ovini di loro proprietà o che governavano per altri in base a contratti di soccida. La soccida semplice prevede l’affidamento del bestiame ad un pastore per un tempo determinato, il quale avrebbe provveduto alla sua cura in cambio della spartizione fra proprietario e conduttore dei guadagni e del prodotto ricavato dagli animali lungo tutto il periodo. La forma di contratto più diffusa a Bassano era la cosiddetta “soccida tasiniana”, che pattuiva l’affidamento delle pecore per un quadriennio, con una spartizione delle lane, dei latticini e dei nuovi nati a metà fra i due attori[115]. Il numero dei capi che nel bassanese i proprietari affidavano in soccida con ogni singolo contratto era mediamente compreso nella fascia fra i 20 ed 100 capi, con una preferenza per l’arrotondamento al centinaio o al mezzo centinaio di animali. Le conduzioni venivano siglate soprattutto in primavera ed in autunno, all’inizio o alla fine della transumanza subito dopo i periodi di tosatura di marzo e di fine agosto-settembre. Quasi la metà delle soccide veniva registrata in autunno, al ritorno in pianura delle greggi, con una preferenza giustificata, infatti ciò consentiva di avviare un nuovo ciclo che già in pochi mesi avrebbe raggiunto uno dei punti di massima redditività (alla raccolta della più pregiata lana invernale), consentendo al soccidante di rientrare subito di una quota dell’investimento per l’acquisto degli animali e di intascare velocemente una parte del prestito-sovvenzione eventualmente accordato al conduttore. Dagli anni ‘60, inoltre, all’affidamento in soccida si affiancò la locazione degli animali, dalla quale i proprietari ricavavano una rendita fissa in denaro, o meno frequentemente in lana. Questa rimase una modalità meno diffusa (attestata intorno al 10% dei casi), ma che dal decennio successivo trovò uno spazio di alternativa consolidata; la locazione consentiva l’investimento nel settore anche a chi non fosse stato addentro alla commercializzazione, caricando tutto il rischio delle oscillazioni produttive sul pastore[116]. Ma ad essere inserita nel settore era una larga parte della popolazione del territorio, da una parte i contadini ed i pastori impegnati nell’allevamento (ma anche per persone di condizione modesta l’affidamento di qualche capo poteva rappresentare un modo per integrare il reddito familiare), dall’altra le famiglie di più grande sostanza, proprietarie della maggioranza degli animali ed impegnate nella commercializzazione su larga scala del vello, grazie alla raccolta di lane da un grosso numero di animali assoccidati a più conduttori. Le principali famiglie del ceto dirigente compaiono quindi quasi tutte fra i soccidanti, sia che fossero direttamente inserite nel settore laniero (come i da Como), nel collaterale settore del commercio delle carni (come i Novello), o che operassero prevalentemente nell’ambito commerciale (come i Botton ed i de Cante). I Botton potevano, ad esempio, sfruttare l’acquisizione della cittadinanza veneziana per facilitare la vendita delle lane in laguna, mentre i de Cante sembrarono sfruttare i rapporti col Tesino, operando con strategie specifiche e specializzate, quali ad esempio disposizioni più precise sulla qualità del prodotto da ricevere in consegna o con l’affitto di aree di pascolo dove indirizzare i conduttori delle loro greggi[117]. Nonostante il tentativo da parte di alcune famiglie vicentine, come i da Angarano ed i dal Tonso, di inserirsi a loro volta nel mercato e nella produzione delle lane in queste zone, esso restò lungo tutto il secolo nelle mani dei bassanesi o, come abbiamo visto, dei patrizi veneziani. A rafforzare la loro posizione era inoltre la possibilità, col riordino agrario, di affidare gli animali anche ai propri coloni, così da poter controllare in modo più stringete tutte le fasi dell’allevamento e rafforzare il legame coi lavoranti[118]. Ciò consentiva anche una distribuzione più equa degli animali, in base alle possibilità di allevamento del conduttore, un migliore sfruttamento dei diversi terreni e dava modo ai grandi proprietari di accrescere ulteriormente il numero di capi trattati per incrementare la produzione. Un ultimo aspetto che merita attenzione è la tipologia del prodotto. La lana venduta al peso (un’unità di misura pari a circa 8 kg) in quest’epoca nel Veneto veniva ceduta ad un prezzo oscillante fra i 173-186 soldi di piccoli per la più pregiata tosatura di marzo e fra i 120-133 soldi di piccoli per quella estiva di qualità inferiore[119]. Nel bassanese il vello sporco veniva venduto in balle di un centinaio di libbre (circa 50 kg), facendo le debite proporzioni sappiamo che negli anni ‘70 il suo valore era stimato fra i 100-117 soldi di piccoli per le lane invernali e fra i 76-83 soldi di piccoli per quelle estive. La netta differenza di prezzo va ricollegata, oltre che al surplus di offerta sul mercato locale, ad una qualità inferiore del prodotto, con una maggiore presenza di lane di più bassa categoria nel bassanese. Come vedremo fu una tendenza condivisa con la manifattura laniera, ma non va interpretata come uno svantaggio, poiché la materia prima di inferiore bontà soddisfava la richiesta di un vasto mercato indirizzato al rifornimento dei diffusi lanifici specializzati in tessuti di basso e medio pregio, ampliandone gli sbocchi commerciali.     

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