Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La spiccata crescita che aveva portato all’evoluzione demografica ed economica del bassanese durante il XV secolo, oltre che ad un deciso riordino a livello sociale e politico, trovò un punto di frattura ad inizio Cinquecento, quando anche il territorio di Bassano finì al centro dei giochi e dei traumi che caratterizzarono il periodo della guerra della Lega di Cambrai. Il lungo conflitto (1509-1518) che segnò il punto più dolente fra le guerre rinascimentali ebbe le sue origini nella lega di forze unitesi in funzione anti-veneziana, sostenute dalla volontà in primis di papa Giulio II (preoccupato della perdita dei possedimenti in Romagna) di bloccare l’espansione italiana della Repubblica veneta; al pontefice si univano il neoeletto imperatore Massimiliano I, il regno di Francia, la Spagna ed i duchi di Ferrara e Mantova, con la sottoscrizione di un patto segreto il 10 dicembre 1508. In quell’anno il nuovo imperatore del Sacro Romano Impero aveva già dimostrato la sua insofferenza verso la Serenissima ordinando l’invasione del Cadore, ma non era che un antefatto, la guerra vera e propria era destinata a scoppiare solo l’anno seguente, sul pretesto della nomina del vescovo vicentino, che il papa contestò alla Repubblica. L’offerta pacificatrice veneta di restituzione allo Stato della Chiesa delle città della Romagna che precedentemente si erano volontariamente sottomesse a Venezia non trovò riscontro ed alla fine di marzo Giulio II rispose aderendo ufficialmente alla Lega e scomunicando la città lagunare. All’inizio di maggio il re di Francia prese il comando delle truppe ed il 14 di quel mese Venezia visse una delle più pesanti sconfitte militari della sua storia ad Agnadello, spalancando la porta all’invasione militare della Terraferma ed alla perdita di quasi la totalità dello Stato. In pochi mesi le città caddero o si consegnarono volontariamente alle forze degli imperiali, portando con sé degli sconvolgimenti che neanche il veloce recupero da parte veneziana di gran parte dei possedimenti entro la fine dell’anno potè attutire. Fra l’estate e l’autunno del 1509, in quella situazione di incertezza, riemersero vecchi contrasti ed alleanze segrete, destinati a durare ben oltre il cambio degli equilibri (con il passaggio del papa al fianco di Venezia nel 1510 e la costituzione della Lega Santa antifrancese nel 1511) e l’ufficiale fine del conflitto protrattosi fino al 1518. Nei primi scontri con Massimiliano e nelle concitate fasi del 1509 Bassano, in virtù della sua posizione geografica, si trovò in uno degli snodi fondamentali del conflitto, allo sbocco di quella Valsugana che le forze imperiali erano intenzionate ad usare per invadere la regione[176]. Nel 1508 le ostilità aperte da Massimiliano, nel tentativo di dimostrare il suo potere e punire Venezia per lo sgarbo che gli aveva fatto non concedendogli di attraversare con l’esercito la Terraferma per andare a farsi incoronare a Roma, avevano toccato il bassanese, ma solo marginalmente. L’imperatore intendeva attraversare l’Altopiano di Asiago per scendere a Verona, ma la strenua difesa dei montanari aveva reso insicura la Valsugana, sbocco alternativo, ed il governo veneto aveva inviato truppe di rinforzo per scoraggiare i movimenti delle truppe di Massimiliano concentrate fra Grigno e Primolano. Già allora nel Bassanese si erano manifestati alcuni segni di antipatia verso il governo, ma la spostamento dello scontro verso il Cadore e la forzata sottoscrizione di una tregua da parte di Massimiliano avevano momentaneamente fermato le operazioni belliche. La sconfitta di Agnadello invece fece emergere tutti i contrasti accumulatisi fra la Dominante e le città suddite, fomentati dalla rapida avanzata delle truppe francesi ed imperiali alla conquista delle città della Terraferma. In questo momento i ceti dirigenti dei capoluoghi maggiori scorsero la possibilità di scrollarsi dal controllo veneziano, con la convinzione che consegnarsi al potere di Massimiliano avrebbe consentito loro in seguito di aumentare gli spazi di potere sul territorio; emergeva l’avversione per un potere centrale che aveva rosicchiato loro margini di potere sia a livello economico-fiscale, sia nel rapporto con i distretti. I ceti dirigenti locali si sollevarono contro i rettori veneti e consegnarono spontaneamente le città da loro governate agli imperiali, come nel caso di Verona e Vicenza, rendendo agevolissima alle forze della Lega la conquista, accompagnata da devastazioni e saccheggi. In questo contesto la vicenda bassanese fornisce una conferma importante dell’evoluzione politica realizzatasi nel secolo precedente, al di là degli accadimenti militari: seguendo quanto avevano già deliberato gli importanti ceti dirigenti nobiliari delle città maggiori il 3 giugno 1509, prima che il podestà veneziano venisse allontanato dalla città, il Consiglio bassanese su proposta di Andrea Fontegari deliberò di inviare un messo all’imperatore, al fine di annunciare la spontanea dedizione del territorio, sancita dall’ingresso delle truppe imperiali il giorno seguente[177]. Nonostante le iniziali resistenze ed i contrasti fra le fazioni interne, filoveneziane o filoimperiali, come sottolineato da Seneca l’aspetto importante risiede nella percezione che l’élite bassanese aveva maturato di sé: essa si sentiva accomunata ai governi cittadini di più lunga tradizione autonoma ed al loro ricco patriziato nella volontà di conquistare ulteriori spazi di autorità, illudendosi che un potere “distante” e “blando” come quello imperiale glielo avrebbe consentito nei fatti. Sembrava maturata una volontà di autogoverno politico e di controllo del distretto ancora più forte di quando Venezia aveva concesso l’autonomia, dimostrando anche un certo fastidio per le ingerenze istituzionali ed economiche sempre più frequenti da parte del patriziato veneto. Al contempo, il ceto dirigente bassanese nonostante una condizione sociale ed economica palesemente differente rispetto a quella dei grandi casati ne condivideva aspirazioni e percezione di sé. Le richieste che accompagnarono la dedizione bassanese all’imperatore rafforzano l’impressione. Il Consiglio, fra le altre cose, chiedeva che la comunità potesse non solo continuare a nominare autonomamente i consiglieri, ma anche eleggere il proprio podestà in modo indipendente; chiedeva di essere esentata da ogni tipo di dazio o gabella; di poter comprare il sale liberamente, senza più il vincolo di monopoli ed imposte ad esso collegate; che a Bassano si potessero esercitare liberamente tutte le attività manifatturiere, in particolare quella allora emergente del setificio; che gli appelli civili e criminali passassero al foro padovano; che venissero confiscate le terre comunali entrate nelle mani dei veneziani, per essere riconsegnate al Comune[178]. Queste richieste toccavano i principali punti dolenti nel rapporto fra amministrazione locale e potere centrale, quelli interessati ormai da decenni dalle ingerenze veneziane su sollecitazione dei rurali o in proprio. Tornavano ad emergere il problema della tassazione (dazi, gabelle ed imposta sul sale) o la volontà di limitare il rischio di interventi podestarili che si opponessero, o avessero cercato di mediare, a decisioni prese in Consiglio, come era accaduto con la lunga diatriba fra cittadini e rurali circa la manifattura laniera – ora infatti per scongiurare il ripetersi della situazione con il setificio se ne chiedeva il completo libero esercizio –. Un potere veneziano che aveva dato fastidio a livello giuridico, attraverso il frequente uso delle camere d’appello venete da parte di chi si fosse voluto opporre alle delibere locali, ma un fastidio palese anche a livello di potere economico, di possesso della terra, che se prima il Comune aveva liberamente concesso in cambio di denaro, ora si presentava come costante rovello a causa del mai sopito contrasto in materia coi comitatini e gli abitanti della villa. Le aspettative del ceto dirigente vennero però disilluse dal fatto che Massimiliano non ratificò mai le concessioni, e che sequestri delle terre dei veneziani se pure vennero eseguiti non andarono a pieno beneficio del Comune; anche i rurali che con questo provvedimento avevano sperato di vedersi sollevati da un potere sempre più forte capirono che quell’aspettativa non si sarebbe concretizzata e, al contrario del gruppo oligarchico, ben presto tornarono a parteggiare ed aiutare la riconquista veneziana, stremati anche dalle violenze dell’esercito tedesco. Un atteggiamento quest’ultimo che era sempre stato tenuto dai territori montani, i quali dopo aver aiutato il recupero dei domini da parte delle truppe venete, presentarono a loro volta istanza per essere premiati per la loro fedeltà, come fecero le comunità di Pove, Solagna, Rossano e Cartigliano[179]. Tornarono anche in questo caso a riproporsi i problemi già da tempo dibattuti a livello locale, mentre ancora una volta le ville cercavano di scavalcare il potere a cui erano immediatamente soggette – quello del Consiglio bassanese – attraverso il ricorso a quello centrale. I comuni del distretto chiesero fra le altre cose una migliore redistribuzione dei carichi fiscali e della tassazione locale (la questione forse più pressante e delicata), oltre al libero mercato ed esercizio nel settore vinicolo e laniero. Tutta la vicenda assume quindi una chiave di lettura interna che si affianca a quella della politica internazionale allora in gioco, da una parte la ricerca di maggior autorità nelle mani dell’oligarchia al governo, dall’altra il contrasto fra questo gruppo di potere ed i ceti rurali o le ville, accomunando i fatti bassanesi a quelli che si stavano contemporaneamente verificando negli altri distretti guidati dai patriziati urbani. Il ritorno di Bassano in mano veneziana alla fine del mese di novembre portò con sé solo parzialmente una risposta a quelle sollecitazioni. La fazione che in cerca di maggior potere aveva ceduto il distretto agli imperiali venne punita con la confisca dei beni nel caso di Giovanni Fraccaro dalla Porta, mentre altri fra i Gardellin, gli Stecchini e gli Uguccioni preferirono allontanarsi per precauzione. Per le restanti questioni la Serenissima preferì invece mantenere la sua vecchia politica di pragmatica mediazione, acconsentendo a piccole concessioni ai rurali, senza però gravare sui margini di potere delle autonomie. Sul momento la situazione sembrò tornare presto alla normalità, con la sola perdita a livello territoriale del Covolo. Nel profondo, tuttavia, il periodo di guerra rese ancora più teso il contrasto a livello interno sotto due punti di primaria importanza facendoli emergere definitivamente: per primo lo scontro fra il governo oligarchico, composto dall’élite dei proprietari terrieri e degli imprenditori, e i coloni rurali; quindi quello interno fra le fazioni che quel governo costituivano. Problemi che segneranno con la loro difficile risoluzione la piena epoca moderna bassanese, spaziando dalla necessità di rifondare il Consiglio sino alla lunga controversia fra il capoluogo e la comunità della Rosà.[180] 

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