Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

I progressi ottenuti nel campo della produzione e commercializzazione delle materie prime, la riorganizzazione agraria, che portò ad una riassetto anche sociale delle campagne, ed infine la spinta proveniente dal mercato veneziano e dalla crescita manifatturiera nei distretti vicini fornirono la base sulla quale poté inserirsi l’avvio dello sviluppo manifatturiero di Bassano, dopo che per tutta la piena epoca medievale il settore era rimasto confinato alle esigenze di autoconsumo del distretto. In questo secolo invece l’area, a partire dal capoluogo, riuscì a recuperare il ritardo maturato rispetto agli altri centri veneti, non solo i capoluoghi ma anche le piccole e medie realtà del pedemonte vicentino e trevigiano, dove era già diventata stabile la più importante e diffusa fra le produzioni dell’epoca, il lanificio[148]. A Bassano la sua rapida crescita andò ad affiancarsi ad altri settori importanti per il territorio, come quello conciario e la produzione di materiali per l’edilizia e di calce nelle fornaci lungo il Brenta; entrambe queste manifatture, seppur caratterizzanti, vennero presto sopravanzate in manodopera e soprattutto investimenti da quella produzione laniera che già nei primi decenni del Quattrocento riuscì a catalizzare gli sforzi imprenditoriali del distretto. La lavorazione della lana, dal fiocco al panno, constava di una trentina di passaggi, suddivisi in cinque fasi, ma mentre le prime operazioni di preparazione del vello e di filatura non richiedevano particolare strumentazione e potevano essere eseguite anche da personale non specializzato, in maniera delocalizzata (secondo il modello del verlagssystem diffusosi anche nel bassanese[149]), le ultime tre – orditura, tessitura e tintura del panno – necessitavano di impianti produttivi specifici, che fecero la loro comparsa a Bassano ad inizio secolo e che furono decisivi nel fornire l’impulso verso una maggiore consistenza produttiva. A comprendere per prime le possibilità del settore e ad investirvi, probabilmente confortate dal suo buon andamento nel resto della regione e dalle possibilità di pieno controllo che anche in materia economica portava con sé il nuovo regime autonomo, furono alcune fra le più ricche famiglie del ceto dirigente. Nel 1405 il Consiglio cittadino approvò la creazione di un follo sul Brenta su richiesta di uno dei suoi più influenti membri, Oradino Rossignoli. L’anno seguente seguirono il suo esempio i da Romano, mentre del 1425 furono le concessioni per la creazione di un gruppo di quattro chiodere e del 1427 la creazione di una tintoria, della quale detenevano quote i membri di Consiglio Giacomo da Santa Croce e Todeschino da Semonzo[150]. A questi primi investitori locali si affiancarono subito le famiglie d’artigiani del settore, quei maestri che materialmente ne consentirono lo sviluppo, portando oltre al loro lavoro le conoscenze tecniche necessarie alla produzione di panni di una qualità che potesse rientrare nei termini di mercato; furono quei da Como-Abbondio che come abbiamo visto sfruttarono la rapida crescita della loro posizione per entrare quasi immediatamente a far parte dell’élite socio-istituzionale del capoluogo. Le casate di più alto censo e potere sembrarono fare a gara, durante questo primo quarto di secolo di dominazione veneta, per finanziare la crescita e lo sviluppo dell’arte e continuarono anche negli anni ‘30 insieme alle famiglie emergenti di recente immigrazione, come fece fra gli altri Giacomo Jechele, affittando per un triennio da Alvise da Romano un mulino con follo sul Brenta, due chiodere ed una bottega sulla piazza. Giacomo si apprestava dunque a fare il suo ingresso nel settore, assicurandosi gli impianti necessari alle fasi di preparazione del panno per la commercializzazione ed anche la bottega dove smerciare il suo prodotto.[151] Il modello era simile a quello impiegato dai mercanti imprenditori del vicentino-veronese, del padovano e dagli stessi veneziani: egli entrava in società per un periodo determinato con un artigiano, gli forniva le infrastrutture e si preoccupava di reperire le materie prime, affidando al socio d’opera, in questo caso il lanaiolo Franco dall’Aquila, la produzione, in cambio del 50% dei ricavi[152]. Il naturale sbocco del crescente peso del lanificio nell’economia locale e nelle tasche di una discreta parte del ceto urbano fu la creazione dell’Arte, i cui Statuti (andati perduti) vennero ufficialmente approvati con una ducale del 1435[153]. La regolamentazione ufficiale sancì, oltre all’affermazione dell’arte della lana all’interno del tessuto economico cittadino, il suo inserimento nel mercato regionale, con la necessità di un maggior controllo sia nelle fasi di lavorazione che nella qualità del prodotto finito. A partire dagli anni ’40 l’attività normativa del Consiglio al fine di regolamentare questi aspetti della lavorazione si fece dunque più frequente, sostituendo l’interesse pubblico per la creazione degli impianti produttivi che aveva caratterizzato il primo periodo, ormai affidata all’intraprendenza privata.Il punto dolente del lanificio non risiedeva più nella mancanza di strutture o di uomini, ma in aspetti tecnico-qualitativi come le fasi di follatura e garzatura; un problema che si ripresenta insistentemente lungo tutto il secolo e che nessun provvedimento normativo del tempo riuscì a risolvere definitivamente. Il primo di questi interventi coincise con la decisione del Consiglio di concedere una cittadinanza privilegiata al garzatore Antonio quondam Andrea da Monza, nel 1445[154]. L’artigiano aveva chiesto di potersi trasferire a Bassano per esercitare la professione di garzatore in cambio dell’immediato conseguimento della cittadinanza, offrendosi di lavorare i panni senza l’impiego degli scardassi (strumenti dotati di punte metalliche impiegati nella garzatura della lana), bensì secondo le tecniche adoperate a Vicenza e Padova, con l’intento di elevare la qualità del prodotto finito.
Lo scambio fra le parti prevedeva quindi la protezione e le agevolazioni della cittadinanza per il lanaiolo a fronte dell’introduzione nella terra Baxani di metodi di lavorazione e conoscenze tecniche decisive per migliorare il prestigio e la redditività della manifattura locale, portandola al piano di quella di capoluoghi tecnologicamente più evoluti. In quella riunione di Consiglio, a corroborare la necessità di risoluzione del problema della garzatura, il sindaco Bartolomeo Maggio aggiunse come da un po’ di tempo a Bassano e nelle ville del circondario i follatori e gli apertatores dei pannilana avessero iniziato ad utilizzare come prassi consuetudinaria gli scardassi, provocando deterioramenti e lacerazioni ai panni, in danno alla reputazione del lanificio bassanese e provocando l’abbassamento del prezzo del prodotto sulla piazza realtina, sceso dai 18-20 ai 12 ducati alla pezza. Si decideva quindi di estenderne il divieto d’uso a chiunque avesse lavorato i tessuti nel distretto, fosse bassanese o forestiero, e che di lì in avanti le operazioni di garzatura sarebbero state eseguite solo nel centro urbano, sotto l’alta pena di £ 25 di piccoli per ciascuna infrazione.[155] Accentrare la lavorazione, anche di fasi meno delicate, era una strada che si andava consolidando e che gli uomini di Consiglio (e i maggiorenti dell’arte) vedevano come risposta soddisfacente, grazie all’aumento delle possibilità di controllo. Una verifica che pochi anni dopo venne estesa anche alla tessitura, con l’imposizione di uno standard minimo di 42 portate per i panni di maggior pregio, portando avanti un processo di uniformazione comune a tutti i principali poli produttivi di lunga tradizione, attuato sin dall’inizio del secolo precedente nei grandi centri della manifattura tessile, come Firenze[156]. Da quel momento le delibere consiliari tese a regolamentare in maniera più stringente la manifattura iniziarono a rincorrersi, segno che nonostante gli sforzi non trovavano esito positivo. Nel 1456 venne votato un regolamento dettagliato: innanzitutto si cominciò a controllare anche la fase di purgatura, che per tutti i panni tessuti a Bassano doveva essere eseguita solo all’interno della terra o nelle immediate vicinanze.
Quindi i panni, di cui si ribadiva la garzatura obbligatoria senza scardacci (come fatto nelle buone città), d’ora in poi avrebbero subito il trattamento in una sola bottega, adeguatamente approntata e situata dove l’arte avrebbe ritenuto più conveniente. A provvedere all’esecuzione del mandato si designarono il gastaldo dell’arte Alessandro Broconi Abbondio ed i suoi consiglieri Bartolomeo Maggio e Marco Ussino, tutti e tre esponenti di primo piano anche del Consiglio[157]. La commistione d’interessi fra il ceto dirigente e l’Arte, nella quale diversificava parte dei suoi capitali, appariva allora sempre più concreta, come la volontà dell’oligarchia urbana di meglio controllare in prima persona la produzione. La serie di interventi d’emergenza finì col trovare forma compiuta in una riforma dell’Arte di ampie proporzioni nel 1467, della quale però ci restano solo alcune tracce[158]. In questa occasione una delle principali preoccupazioni dei governanti bassanesi fu cercare di uniformare degli standard minimi per i tessuti, probabilmente con la volontà di caratterizzare i panni locali e di farli rispondere alle esigenze dei mercati dove venivano esportati, in primis a Venezia.
L’altra grossa questione che i 32 e l’Arte cercarono di risolvere fu il salario dei lavoratori, in particolare dei filatori, o meglio delle filatrici essendo questa un’attività solitamente femminile, fissando uno stipendio a cottimo considerato adeguato. Le fonti a disposizione non consentono di valutare quanto i provvedimenti furono efficaci e se sì per quanto tempo, tuttavia i problemi relativi alla garzatura ed alla purgatura erano ormai già cronicizzati ed alla fine degli anni ‘60 l’Arte fece l’ennesimo tentativo di risolverli: dopo aver posto tutte le garzerie in un solo luogo, ora si scelse di affidare tutto il lavoro ad un unico artigiano, per mezzo di quella che potremmo definire una sorta di “condotta”. La decisione fu presa negli ultimi mesi del 1468 ed il candidato prescelto fu un garzatore marosticense[159], esperto certamente della lavorazione di panni alti e bassi (entrambi prodotti a Marostica) e delle tecniche in uso o importate anche dalla manifattura vicentina. L’accordo fra Apollonio da Marostica e l’Arte della lana bassanese fu definitivamente siglato nel dicembre 1468, con un contratto di durata quinquennale, dettagliato in 16 capitoli[160]. Compito di Apollonio «purgar a savon tuti pagni» prodotti a Bassano, per poi «quelli garzar cum garzere de reverso»; tutto a sue spese e con un compenso prestabilito di £ 4 di piccoli per ogni panno alto e di 11 grossi per ciascun panno basso. I mercanti bassanesi erano, in cambio, obbligati ad affidare a lui queste operazioni per tutti i panni prodotti nel distretto; inoltre garzatore ed Arte si accordavano anche sulle modalità d’esecuzione del lavoro e sul luogo dove egli avrebbe esercitato. Per evitare frodi gli veniva vietato di fare accordi con i follatori e d’inviare i panni da lui purgati ad alcun follatore senza prima aver ottenuto il permesso dal mercante proprietario, tuttavia la disposizione non servì a scongiurare la creazione di un monopolio nelle fasi di rifinitura dei pannilana, poiché fu lo stesso garzatore ad accentrarle su di sé, scatenando le ire degli altri artigiani. In quest’occasione il tentativo troppo spinto da parte del ceto dirigente di giungere ad un progressivo controllo in poche mani di fasi fondamentali e lucrose della lavorazione aveva da un lato avvantaggiato i mercanti, ma esacerbato gli animi degli artigiani col rischio di aggravare ulteriormente i problemi di controllo sul lanificio[161]. A complicare la situazione si aggiunse la progressiva diffusione della lavorazione dei panni nel contado. L’affermarsi della produzione di pannilana nel capoluogo ed il crescente ricorso a manodopera rurale e non specializzata per le fasi meno delicate della lavorazione, a cui si univa la crescente richiesta di autonomia da parte dei rustici della Rosà (sotto la spinta delle famiglie di contadini più ricchi e di quelle escluse dal Consiglio) sfociarono negli anni ‘70 nel tentativo dei comitatini e degli abitanti della Rosà di produrre panni fuori dalle mura cittadine, senza sottostare al controllo dell’Arte[162]. Agli scontri in materia di uso e privatizzazione dei beni comuni e dei pascoli, si affiancarono le pretese in senso sempre più autonomistico dei rurali anche intorno alla fiorente manifattura, scatenando un contrasto destinato a durare un quindicennio e che si risolse, dopo una lunga vicenda legale, solo con un intervento impositivo veneziano, al pari di quanto accaduto in campo fondiario. Le reciproche pretese si inseriscono in un contesto di generale spinta dei contadi verso una maggiore autonomia manifatturiera, che si riaffacciò ciclicamente, a partire dal primo Quattrocento, in larga parte della Terraferma, con l’intento di respingere il crescente monopolio dei capoluoghi nei settori produttivi più lucrosi. Uno dei casi più noti riguarda il veronese, nello specifico Legnago, dove nel 1436 le pressioni del comune di Verona indussero il governo centrale ad ordinare la distruzione di tutte le infrastrutture necessarie alla lavorazione di panni dopo la fase di tessitura; ed anche se non così violente, lunghe diatribe erano già sorte sia fra l’Arte della lana di Vicenza ed i centri produttivi del pedemonte berico, sia fra quella trevigiana ed i borghi e castelli di Ceneda e del distretto[163]. I primi tentativi da parte del Consiglio bassanese di bloccare l’attività dei rurali si manifestarono nel 1475, con la richiesta d’intervento veneziano in difesa degli Statuti, che vietavano l’esercizio fuori dalle mura, ma il ritardo nella risposta da parte delle magistrature centrali e le contromosse dei rosatesi presso gli stessi fori fecero sfumare la possibilità di far rientrare la controversia[164]. Gli eventi precipitarono nella primavera del 1480 quando infine, dopo le ennesime sollecitazioni dei rosatesi, si giunse alla presa di posizione veneziana, con la concessione ai rurali dell’esercizio della lavorazione di tutti quei panni che – almeno ufficialmente – fossero serviti per loro uso personale; con conferma ducale nel luglio dello stesso anno[165]. La Serenissima, come era accaduto nel trevigiano[166], favorì i rurali, ma nello stesso tempo mantenne una posizione di mediazione, facendo loro divieto di lavorare più lana della quantità necessaria o di rivendere prodotto finito, ma ciò appare più come un tentativo di non acuire lo scontro e salvaguardare, almeno di facciata, i vecchi diritti ed interessi dei lavoratori ed investitori del capoluogo, che una reale capacità di impedire la diffusione del lanificio di campagna per quanto fosse stato significativamente ridotto in portata. I membri di Consiglio si resero ben presto conto che rovesciare un ordine arrivato direttamente dalla massima carica della Repubblica non era di facile realizzazione, nonostante tutti i diritti ed usi che avessero potuto rivendicare; optarono allora per la ricerca di un compromesso con la controparte[167] e da ultimo a deliberare l’ennesima riforma degli Statuti dell’Arte[168]. Per limitare la concorrenza dei distrettuali non solo tornarono a ribadire elementi di protezionismo (come un più puntuale controllo sulla commercializzazione delle lane), ma decisero di puntare ulteriormente sul tasto della qualità, riproponendo la mai risolta questione della bontà dei procedimenti produttivi, onde allontanare la possibilità che i grezzi panni dei rustici fossero immessi nel flusso di mercato ufficiale. Inoltre le fasi della lavorazione ed il lavoro-compenso degli addetti vennero ulteriormente regimentati per scongiurare monopoli o frodi, che comunque sarebbero finite in giudizio davanti ad un tribunale dell’Arte rafforzato. Come abbiamo visto l’intento di rispondere alle esigenze di mercato con un controllo qualitativo rappresentò una costante ansia all’interno della gestione del lanificio di Bassano, ma sulla specie dei pannilana qui prodotti in realtà la documentazione è parca di dettagli. La perdita degli Statuti e di inventari, oltre alla mancata consuetudine al ricorso al notaio in caso di patti societari o di accordi di compravendita, lasciano filtrare pochissime informazioni sulle caratteristiche tipologiche delle pezze, fornendoci dati che vanno letti con prudenza e nei limiti di semplice tendenza. Non si trovano informazioni tipologiche dettagliate e non è perciò possibile stabilire se rispettassero parametri identici a quelli imposti negli altri territori della Serenissima, ma ci è noto il prezzo, che mediamente si attestava intorno alla £ 1 di piccoli al braccio (con punte fra i 16 ed i 24 soldi di piccoli al braccio) o ai 7-8 ducati alla pezza di panno basso gentile[169]. I panni alti, solitamente bianchi, venivano invece trattati preferibilmente a pezza intera, il cui valore medio si assestò lungo tutto il secolo intorno ai 12-15 ducati ciascuna, con eventualmente delle punte al ribasso di 8-11 ducati per quelle di minor pregio[170]. Questi prezzi medi ci fanno ipotizzare che la qualità dei panni bassanesi non fosse particolarmente alta, ma andasse a collocarsi in una fascia intermedia, superiore ai grixi feltrini ma inferiore ai pregiati pannilana prodotti in centri come Verona e Vicenza, quando non la stessa Venezia. Ciò non deve trarre in inganno, si trattava di un settore di mercato strategico sul quale già altri lanifici della Terraferma – come quello bresciano[171] – avevano puntato. Esso rispondeva alla domanda dei ceti medi, forniva prodotto pesante (quindi adatto al clima invernale) a prezzo più concorrenziale ed era facilmente esportabile oltremare attraverso la piazza veneziana. Durante il secolo successivo invece anche a Bassano la produzione serica, in particolare della seta greggia, conquistò il primato manifatturiero che nel Quattrocento era stato del lanificio, con un passaggio di consegne addirittura più marcato che in altre zone dello Stato[172]. Significativo che l’esplodere del setificio bassanese fu ancora più rapido del lanificio che l’aveva preceduto. Sia all’interno della documentazione pubblica che in quella privata per tutto il quattrocento non vi sono riferimenti né al prodotto né alla presenza dei gelsi sul territorio, a differenza di quanto in quel momento accadeva nel vicentino e nel veronese, dove la seta si era diffusa dalla metà del secolo. Il primo riferimento al comparto è del 1501 e sorprendentemente, nonostante il precedente silenzio delle fonti, si riferisce ad una diffusione della materia greggia che seppure recentissima appariva già consolidata. In quest’occasione, al fine di evitare frodi, il Consiglio impose l’obbligo di controllo presso la pesa comunale per qualsiasi quantità di seta smerciata nella podesteria[173]. Un’esigenza ribadita l’anno seguente, con l’elezione di un apposito addetto alla pesatura della seta e dei bozzoli (galetas) comprati e venduti nel bassanese[174]. Il primo decennio del XVI secolo costituì quindi il momento di veloce radicamento del settore portante dell’economia bassanese in epoca moderna, verso il quale, a differenza di quanto accaduto con l’industria laniera, mostrarono un precoce interesse anche i veneziani, scorgendovi la possibilità di approfittare del conveniente reperimento di materia prima, come era accaduto col loro inserimento nel mercato della lana[175].

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)