Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’intensa politica di privatizzazione fondiaria portata avanti dal Comune lungo il secolo mutò il paesaggio, con una transizione dagli ampi spazi aperti del prato verso la costruzione di blocchi fondiari, che i grandi proprietari riorganizzarono secondo il modello allora più diffuso, quello dell’azienda colonica. Con l’avanzare del Quattrocento, mentre si consolidava il territorio agricolo anche con un più accurato sfruttamento delle acque, diventarono perciò più frequenti gli appezzamenti coltivati e strutturati. I grandi proprietari suddivisero le loro possessioni fondiarie in nuclei di ampiezza e tipologia simile, con case rurali o teze circondante da campi coltivati che le famiglie di coloni insediate in quelle abitazioni avrebbero coltivato, in base a precisi patti di conduzione a tempo o in base al riallivellamento della campagna. Il Bassanese, dal punto di vista agrario, andava uniformandosi al resto della Terraferma e dell’Italia centro-settentrionale, dove il sistema basato sulla cascina o sulla mezzadria (nelle loro varianti locali fra le quali la colonìa parziaria che caratterizza la pianura vicino al Brenta) andava man mano a ridisegnare l’assetto delle campagne[120]. Caratteristica particolare di questo territorio si trova però nel fatto che tale espansione e riorganizzazione del coltivo non sorse sullo sfruttamento dell’indebitamento contadino, come stava accadendo (o era già accaduto) nella maggior parte d’Italia e dello stesso Veneto[121], ma si diffuse con l’occupazione di spazi trascurati sino ad allora dall’investimento privato. Fu un processo in gran parte nuovo quello in atto e che nella sua rapida espansione e prepotenza mise in difficoltà la piccola proprietà fondiaria che fino ad allora aveva occupato la campagna. Un andamento spinto dagli interessi sul commercio dei prodotti agricoli generatosi con la ricollocazione geo-economica bassanese all’interno dello Stato veneto. Come vedremo ampiamente col caso del vino (fig.7),

7-RapahelSadeler

7. Raphael Sadeler da Jacopo (?) Bassano, Autunno (1598-1600), acquaforte e bulino.
La viticoltura è una delle attività agricole più praticate. L’incisione eseguita nel soggiorno veneziano dell’incisore fiammingo documenta un dipinto dell’artista bassanese che presenta differenze iconografiche con i dipinti di pari soggetto noti.

l’economia agraria del piccolo distretto mirò esplicitamente a superare una visione di autosussistenza ed anzi si ridisegnò sulle possibilità offerte dall’esportazione, sulla domanda veneziana, e su questa linea tracciò la sua fisionomia. Con questi fini sviluppò la sua azione politica e privata il ceto dirigente dei proprietari fondiari e su queste motivazioni esso riordinò le aziende agricole e sfruttò l’immigrazione contadina della seconda metà del secolo; il tutto attraverso la stipula di contratti dettagliati nei quali la cerealicoltura ed il prato si restringevano in favore del vigneto, in base alle prospettive di guadagno sulle rendite in materia prima che caratterizzano nella quasi totalità dei casi i patti agrari del bassanese[122]. La centralità della speculazione commerciale sulla rendita e un’economia che puntava sull’asse del Brenta furono alla base della riorganizzazione guidata dai proprietari anche sul piano amministrativo e politico. Le famiglie bassanesi affidavano quindi parcelle delle loro possessioni a coloni che le avrebbero lavorate e ai quali fornivano oltre alla terra spesso anche un’abitazione o il ricovero nelle teze che iniziarono a punteggiare la pianura. In cambio questi ultimi avrebbero mantenuto fede ai lavori di miglioria concordati coi proprietari (quasi sempre rivolti ad un aumento della quota di viticoltura) pagando annualmente un canone in materia prima che di norma era fissato in 1/3 dei cereali ed in 1/2 dei frutti e del vino, oltre alle consuete onoranze. Si attenne, ad esempio, a questo modello Bartolomeo dall’Amico al momento di riaffidare 20 campi ad un suo livellario nel 1455, con modalità che costituivano una pratica quotidiana in materia di conduzione agraria. Si trattava poi di aziende generalmente abbastanza equilibrate, dove si conservava quasi sempre un’area prativa per il bestiame da lavoro e da allevamento, e che se sacrificavano alla vite i cereali (coltura agronomicamente sfavorita su terreni come quello bassanese) cercavano comunque di garantire spazi di autosussistenza alla famiglia dei lavoratori. Inoltre, in particolari casi, nei confronti di famiglie di coloni più grandi o solide si poteva assistere all’affidamento in conduzione di grandi estensioni, che lasciano ipotizzare margini di manovra autonoma e di crescita per le famiglie contadine di maggior sostanza, oltre a qualche possibilità per il lavoro salariato subalterno, del quale però le fonti non offrono conferma[123]. A queste aziende si affiancava, come diversificazione d’investimento, il prato irriguo, che però nel nostro caso non sembrò rivolto all’allevamento bovino come in Lombardia o in altre aree della Terraferma, quanto piuttosto a quello ovino ed alla commercializzazione del fieno[124]. Furono strutture organizzative che i proprietari esportarono anche nei vicini territori dove acquisirono possessioni, in forza dei privilegi di importazione esentasse sul territorio bassanese delle proprie rendite agricole, una consuetudine che era stata confermata da Venezia al momento della dedizione[125]. L’ultimo aspetto da sottolineare prima di passare alla trattazione del settore vitivinicolo è un’altra particolarità del territorio bassanese, ovvero l’ingresso precocissimo, per territori così lontani dalla laguna, del patriziato veneziano. Bassano è il solo distretto della Terraferma settentrionale per il quale Sanudo, durante il suo famoso viaggio, parli di proprietà fondiaria dei nobili lagunari[126]. I Morosini, ad esempio, che in maniera forte caratterizzeranno il territorio cartiglianese con la loro presenza, furono impegnati già lungo questo secolo in una serie di acquisizioni private che aumentarono quelle ottenute dall’amministrazione; si trattò di un lunghissimo elenco di acquisti di minute proprietà fondiarie secondo una precisa strategia di ingrandimento, sulle quali insediare coloni e percepire rendite ricommercializzabili, al pari di quanto facevano le grandi famiglie locali[127]. Come anticipato, il posto di primo piano all’interno di questa riorganizzazione fondiaria – e nella nostra trattazione – spettò però ad un prodotto tradizionalmente legato al territorio bassanese e che se già nel pieno medioevo aveva caratterizzato l’agricoltura locale[128], col Quattrocento fece un balzo in avanti nella specializzazione: il vino. Questa coltura giocò un ruolo fondamentale all’interno dell’agricoltura del territorio e confermò le tendenze già anticipate per il settore delle materie prime: convogliare la produzione ed il commercio al di fuori di un’economia di distretto, inattuabile per dimensioni e struttura in quel sistema territoriale, per spostare gli intenti verso il mercato di tratta regionale, contando sullo sfruttamento del collegamento con una piazza come quella veneziana forte di un consumo annuale stimato in circa 360mila ettolitri[129]. In questo periodo il vino era, del resto, uno dei componenti fondamentali del regime alimentare di tutti gli strati sociali, utile ad integrare l’apporto calorico della dieta quotidiana e più sicuro dell’acqua nella potabilità[130]. L’affermarsi della colonìa e la ristrutturazione dei fondi agricoli di questo secolo sono quindi caratterizzate principalmente dalla progressiva crescita della piantata padana (la coltivazione in larghi filari della vite “maritata” al sostegno vivo di altri alberi, quali il ciliegio o l’ornello) che si diffuse sempre più capillarmente tanto in pianura quanto in collina[131]. La stessa istituzione del fondaco granario sostenne questa diffusione, fornendo quella garanzia di approvvigionamento per la popolazione che consentiva di ridurre gli spazi necessariamente riservati ai cereali e mostrando come l’interesse dei proprietari locali si rivolgesse più alla produzione vitivinicola che alla speculazione sul commercio delle granaglie, a differenza di quanto accadeva nell’economia di distretto dei maggiori capoluoghi[132]. A livello concreto ciò trovò forma nell’incremento dei vigneti e più precisamente nell’infittirsi delle piantate, con la riduzione degli spazi destinati alla cerealicoltura, al pascolo libero ed al prato da foraggio. Questo criterio viene impiegato, sulla base delle dichiarazioni d’estimo, da Lucia Bulian nel suo studio sull’asolano, rilevando per la metà del XVI secolo un’altissima densità di piantate pari a circa sei filari per ettaro, doppia rispetto persino a quella, già elevata per l’epoca, che si riscontra mediamente nel trevigiano[133]. Per il Bassanese non disponiamo di questo tipo di fonte, tuttavia è il notarile a mostrarci un progressivo infittirsi delle piantate, che passarono dai 3-4 filari per campo della prima metà del Quattrocento ai 5-6 della fine degli anni ‘60, per raggiungere mediamente i sette alla chiusura del secolo, uniformandosi alla media di tre per ettaro del vicino distretto trevigiano. L’infittirsi della piantata venne affiancato dal suo estendersi ordinato dentro i fondi colonici, anche in spazi dai quali tradizionalmente era esclusa, quali le aree del pascolo bovino, come accade ad esempio all’interno di un fondo prativo di 30 campi di proprietà dei Vezati[134], dando vita ad un diffusissimo sistema di coltura mista. Le uve così ottenute venivano di norma spartire al 50% fra il proprietario dei terreni ed il colono, come previsto nella quasi totalità dei contratti, e dalla documentazione sappiamo come fosse prassi comune che le fasi di vinificazione venissero effettuate presso i torchi e le cantine del primo; così i percettori della rendita potevano controllare ulteriormente la produzione ed evitare le frodi dei contadini in merito alla qualità e quantità del vino loro spettante[135]. I maggiorenti locali accumulavano in questo modo grandissime quantità di vino da reindirizzare nel commercio, mentre al contempo le famiglie contadine ed i piccoli proprietari ne traevano a sufficienza sia per sopperire all’autoconsumo che, in annate favorevoli, per partecipare in piccola misura al mercato. La centralità delle viticoltura era del tutto evidente anche ai contemporanei e la politica locale se ne occupò con costanza lungo tutto il secolo, tanto da dichiarare esplicitamente sin dalla dedizione che le vigne erano l’unico sostentamento del territorio[136]. Al di là della retorica contenuta nelle parole dei bassanesi al momento di contrattare una posizione favorevole con la nuova Dominante, l’importanza di questo settore commerciale torna insistente anche nella legislazione e nella politica economica perseguita dal ceto dirigente, a ribadirne un peso che fu reale. La prima preoccupazione che tornò a riproporsi con martellante insistenza, come aveva fatto nei secoli precedenti, fu la necessità di chiudere il distretto ai vini provenienti da altri territori, ad eccezione però dei vini di pregio come la malvasia, che tradizionalmente venivano commercializzati in Italia e in larga parte d’Europa da Venezia che li importava dal Mediterraneo: «quod nulla persona possit conducere vinum forensem in ipsa terra Bassani, ne merchantia vinorum ipsius terra Bassani destruatur, exceptis malvasiis et aliis vinis navigatis»[137]. Contemporaneamente ci fu uno sforzo per convogliare tutto il prodotto locale verso il solo mercato bassanese, senza però sentire ancora la necessità di regolamentare ulteriormente le procedure vinificatorie, ormai consolidatesi[138]. Nel 1422 il doge Mocenigo confermava dunque la richiesta bassanese, imponendo la consistente multa di £ 25 di piccoli e la perdita del prodotto per chi avesse tentato di introdurre vini foresti; elevata successivamente a £ 30 di piccoli[139]. Le istituzioni locali, i cui componenti erano direttamente interessati al settore, ribadivano a loro volta la vigilanza e nel 1451 ottennero un’altra ducale a loro favore, caricando ulteriormente le responsabilità di controllo anche sul podestà (e la sua corte), che si sarebbe visto comminare una multa di ben 1000 ducati in caso di mancata vigilanza[140]. Un controllo che il Consiglio esercitava indirettamente anche attraverso l’appalto della cosiddetta portaria vini, uno dei pochi strumenti fiscali rimasti in mano del Comune, che assegnava il monopolio sulla misurazione del vino ed il trasporto delle botti all’interno del territorio a uomini in stretto legame con le famiglie di governo[141]. Incisiva fu l’azione del Consiglio anche nello sforzo di garantire e consolidare la posizione commerciale per il vino bassanese lungo le due principali direttrici di smercio: verso Padova e Venezia lungo il Brenta, sfruttando la fluitazione, oppure verso nord, sul mercato tedesco e montano. Ci fu quindi un interesse nell’intercettare i mercanti specializzati e nel regolamentare le procedure di vendita. Venne creata una misura pubblica, si fece divieto di condurre i mercanti al di fuori del distretto ed infine si vietò di trattare la vendita presso le abitazioni private dei venditori. Inoltre si proseguì con la richiesta a Venezia dell’esenzione dalle imposizioni fiscali lungo la tratta verso la laguna, per rendere il prodotto ancor più concorrenziale[142]. Infine la protezione dei mercati, che il Consiglio si trovò a dover fronteggiare nel 1443, davanti al rischio che fosse attuata la decisione padovana di chiudere le porte all’importazione di vino extra-distrettuale. In quest’occasione Bassano ricorse immediatamente a Venezia, per scongiurare un pericolo che a detta degli ambasciatori sarebbe andato «in maximum dannum et totalem consumptionem territorii Baxani», a conferma dell’importanza di questa piazza[143]. Fondamentale anche lo smercio sul mercato realtino, che se non trovava opposizione da parte veneziana, doveva però essere periodicamente protetto sul piano fiscale, tanto a livello locale che centrale. Uno sbocco naturale che negli anni ‘80 venne definitivamente esplicitato dal Comune, con la decisione di chiedere a Venezia di poter ottenere l’affitto di una “riva da vino” nella capitale, dove far confluire e rivendere il vino dei soli cittadini bassanesi, in cambio di un prezzo calmierato; una richiesta rinnovata nel 1493, quando la riva sarebbe ormai andata ad affiancare il fondaco dei bassanesi in laguna, nel frattempo aperto[144]. Molto interessante che la richiesta originaria del Consiglio escludesse i rurali ed i veneziani dalla possibilità di usufruire del punto di smercio, con il chiaro intento di circoscriverne i vantaggi ai soli grandi proprietari bassanesi, ovvero le stesse famiglie che quel provvedimento avevano deciso. Lungo la direzione opposta il vino bassanese andava ad integrare i vini trentini ed altoatesini nella risposta alla domanda che arriva dall’area alpina e tedesca, climaticamente sfavorita nell’autoproduzione[145]. La centralità del settore viene evidenziata anche dalla presenza di mercanti specializzati, fra i quali spiccano i bergamaschi, un gruppo capace di creare una solida rete commerciale in tutto lo Stato[146]. Un aspetto quest’ultimo che riconferma l’applicabilità per Bassano di una definizione usata principalmente in ambito tedesco, quella di Weinstadt (città del vino). Se per la Germania e l’Europa centrale essa sottintende una serie di parametri (quali la densità di colture e strutture, il tasso di coinvolgimento della popolazione nel settore o la presenza di un mercato vitivinicolo) riscontrabili in pochi centri, Varanini ha sottolineato come all’interno del contesto italiano essa potrebbe essere calzante per una larga fascia di realtà urbane tanto da renderla evanescente nel contesto della penisola[147], tuttavia nel caso bassanese non solo vi fu la presenza di tutte le caratteristiche, ma soprattutto vi furono un’intensità ed un radicamento capaci di produrre un salto di qualità; in particolare la capacità del mercato del vino di dominare l’economia cittadina, o quantomeno una sua larga quota, risulta elemento fondamentale per attribuirle appieno la qualifica, insieme all’ulteriore passo, dell’autorappresentazione di Bassano quale terra del vino.     

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