Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

È stato spesso sostenuto dalla pubblicistica austriaca e ripreso, anche in studi molto recenti, da quella italiana che la frontiera fra Impero Asburgico e Regno d’Italia era sguarnita e che tale rimase fino allo scoppio del conflitto. L’esercito italiano, nelle prime settimane di guerra, si sarebbe lasciato passare sotto il naso “l’attimo fuggente”; l’insipienza del nostro comando supremo sarebbe stata quindi la prima causa dei quattro lunghi anni di sofferenza che sarebbero toccati al nostro Paese. In effetti certi pregiudizi, come certe convinzioni, specie se sbagliate, condividono con i vecchi soldati il privilegio di “non morire mai”. In realtà, dal mancato intervento dell’Italia a fianco delle Potenze Centrali nell’agosto 1914 molte cose erano cambiate alle nostre frontiere orientali. Un comandante di Corpo d’Armata austro-ungarico, il gen. di cavalleria Franz Rohr, fin dall’11 agosto 1914, era stato nominato comandante delle forze alla frontiera, con giurisdizione sui comandi di Graz ed Innsbruck. I 7 battaglioni e mezzo di truppe regolari che avevano affiancato, fino a quel momento, le guardie confinarie ed i presidi delle opere permanenti, erano rapidamente e successivamente arrivati a superare i 70. L’arrivo dell’inverno e la maturata convinzione che l’Italia non sarebbe scesa in guerra, almeno non prima della primavera del nuovo anno, li aveva notevolmente ridotti a favore dei fronti serbo e russo[16]. Ciò nonostante non scesero mai più sotto la trentina. Anche se mosso nel modo più tempestivo e con le migliori intenzioni offensive, l’esercito italiano avrebbe trovato comunque un osso molto duro da rodere. Mentre a 30 km più a nord, lungo la Val Sugana o oltre l’Osteria del Termine, sull’Altopiano di Vezzena, il problema nei primi mesi del 1915 era quello di rinforzare presidi e dotazioni di munizioni, a fronte della sempre meno sicura neutralità italiana, più a sud, sulle due rive del Brenta, prevaleva un altro ordine di problemi. Agli emigranti rimpatriati si erano infatti uniti i profughi della Val Sugana e del Trentino meridionale: irredenti, possidenti spaventati dal livello di tassazione che l’Impero si vedeva costretto ad adottare, o semplicemente renitenti alla leva. Il 29 gennaio l’Associazione Nazionale Dante Alighieri riferiva che più di 400 persone erano ricorse alla sua assistenza e che la preoccupazione principale era costituita dal recupero integrale dei crediti esteri, crediti che peraltro cominciavano lentamente a giungere dai consolati di Francia, Austria, Germania, Svizzera e Serbia. Due giorni prima la Direzione delle Ferrovie aveva nuovamente concesso lo svincolo gratuito dei bagagli di chi era giunto in Italia, purché i loro effetti risultassero spediti prima del 26 dicembre 1914[17]. In realtà la guerra, ormai sempre meno scongiurabile, avrebbe risolto quasi di colpo il dramma della disoccupazione; ne avrebbe creato molti altri. I primi mesi del 1915 vedono d’altro canto infuocarsi anche in Veneto il clima del dibattito politico tra interventisti e neutralisti. Il 2 marzo il Prefetto Ferrari, da Vicenza, proibisce qualsiasi pubblica manifestazione favorevole od ostile a qualsivoglia stato belligerante, vietando di conseguenza le riunioni e le manifestazioni “pericolose” nei luoghi pubblici o comunque al pubblico destinati[18]. In realtà si tratta di una “grida manzoniana”; pochi fogli dopo, nel relativo faldone dell’Archivio Comunale, è conservato il manifesto con cui la “Trento e Trieste” chiede esplicitamente all’amministrazione di dare la sua adesione al convegno dedicato alla difesa della «nazionalità delle provincie italiane soggette all’Austria», previsto per il 7 marzo 1915 al Teatro Adriano di Roma. Il mondo contadino, nel bassanese come in gran parte delle realtà rurali del Veneto, si mantiene nel suo intimo contrario alla guerra, ma non scende in piazza e non fa opinione. La guerra che sta per coinvolgere anche il nostro paese viene vissuta come una delle tante fatalità della vita, inevitabile come la grandine alla fine di maggio, alle troppe piogge o alla siccità che compromettono anche il raccolto più promettente. Ad aprile la mobilitazione è già in atto e la prima a registrarne le conseguenze è una volta di più la macchina amministrativa comunale. Vengono chiamate alle armi le classi dal 1894 al 1897, mentre di lì a poco cominceranno le revisioni per i riformati delle classi più anziane. Le richieste del comune di Bassano relative ai propri cittadini residenti altrove si intrecciano con quelle analoghe in arrivo dagli altri comuni: Asiago, Tezze, San Zenone, Montecchio Precalcino, ma anche da realtà più lontane: Vicenza, Padova, Portogruaro, Milano, una dalla Francia, un’altra – quella di Pietro Bonsenbiante – dal consolato di New York. Da un elenco relativo a 190 «coscritti» della classe del 1896 possiamo ricavare la composizione sociale di questo mondo bassanese che «va alla guerra»: 11 risultano studenti (5.78%); 52 contadini, braccianti, agricoltori (27.36%); 35 operai, muratori, telegrafisti (18.42%); 53 tra artigiani, impiegati e commercianti (27.89%); 3 possidenti (1.57%) ed un compositore (tale Antonio Nave di Giovanni). Parecchi di loro non si allontaneranno in realtà da casa, destinati come sono a prestare servizio come alpini nel “Bassano”, ma altri dovranno raggiungere Verona (come fanti, granatieri, artiglieri da campagna, genieri o addetti alla sanità ed alla sussistenza), Vicenza (i “montagnini” del 2° Artiglieria da montagna), Schio (gli artiglieri da fortezza del 9° Reggimento), Treviso (i genieri del 5°); addirittura Mantova (gli addetti al genio aviatori ed automobilisti). È il primo distacco, certamente il più duro, anche se le vicende della guerra spingeranno più o meno tutti molto più lontano e costringeranno molti ai primi forzati trasferimenti della propria vita. Eppure all’indomani del fatidico 24 maggio erano ancora pochi gli elementi che parlavano effettivamente della guerra. Certo la città si era letteralmente riempita di militari. Il tutto però sembrava presentare i toni della commedia piuttosto che del dramma. Il 29 maggio il neo-costituito Comitato Bassanese di Preparazione Civile, che impegnerà l’élite cittadina in un’attività pressoché senza soste fino allo sgombero di Bassano, poteva protestare perché osti e rivendite vinicole sembravano essersi accordati nel praticare prezzi «astronomici» sul vino venduto ai troppi militari assetati, e dalle tasche improvvisamente ben fornite, che affollavano vie e piazze. Il problema non era quello del moralismo sui «facili guadagni», quanto il timore che ne risultasse compromessa «la fama patriottica della città»[19]. Don Angelo Garbolin, direttore del Patronato, lamentava viceversa lo stato in cui i cavalli dei militari lasciavano il suo cortile, chiedendo il pronto intervento del Comune[20]. Qualcuno degli ufficiali addetti al parco automobilistico aveva pensato di portare con sé anche la moglie. Una di loro ricordava, con una punta di compiacimento, di essere stata per parecchi giorni la sola ad aggirarsi per la «bella Piazza Venezia» [l’attuale Piazza Libertà], ma di essere stata presto imitata da «madri, mogli, sorelle, fidanzate, amiche» piovute da ogni dove a far compagnia a cuori «troppo solitari»[21]. Quest’aria da tranquilla città di guarnigione, piuttosto che di centro di immediata retrovia, era favorita dalla lontananza dal fronte e dalla presenza in città di alti comandi: dall’Intendenza della 1ª Armata, a quello della 15ª Divisione. Quest’ultimo, tenuto all’epoca dal ten.gen. Lenchantin, aveva escluso esplicitamente Bassano dai primi provvedimenti di coprifuoco relativi al territorio di sua competenza. Eppure la guerra non faceva sconti e cominciò presto ad imporre il proprio prezzo. Il 17 giugno, mentre le operazioni stentano ad assumere un carattere realmente offensivo, anche sul fronte degli Altipiani, viene registrata la morte di uno dei primi soldati: Alban Antonio del 113° Fanteria della Brigata “Mantova”. A causarne il decesso non furono gli austriaci, ma il piombo del suo ’91. Per ragioni che probabilmente non sapremo mai uno dei primi lutti della città era morto suicida. Un commilitone volle comunque erigere un cippo in suo ricordo, ed aveva ragione; nella guerra che stava iniziando tutti sarebbero stati degli “eroi”, anche solo per quello che avrebbero sofferto[22]. I bassanesi accorrevano sotto le armi. Un quadro riassuntivo della classe del 1896 consente anche di sapere dove: su 144 riconosciuti idonei al servizio in guerra, infatti, 57 venivano mandati negli alpini (39.58%), 52 in fanteria (36.11%), 12 in artiglieria (8.33%), 6 nel Genio (4.16%), 3 nei carabinieri (2.08%), 2 nei granatieri (1.38%), 2 nella guardia di finanza, 1 rispettivamente tra gli automobilisti, in sussistenza ed in aviazione (Luigi Manfré di Luigi Andrea)[23]. L’estate e l’autunno mutarono significativamente il quadro generale; non sempre in peggio. La speranza di una fine rapida e vittoriosa della guerra, che più di qualcuno aveva nutrito, era rapidamente venuta meno. Sull’Isonzo Cadorna combatteva le sue prime quattro battaglie, le offensive di logoramento; lì come del resto sull’Altopiano di Vezzena, in Cadore o sul fronte lombardo i fanti italiani imparavano pagando col loro sangue la nuova realtà della guerra di posizione. Eppure, anche se gli alpini del “Bassano” avevano attaccato invano la linea dei forti a Vezzena, se nel giugno più di 30 artiglieri dell’opera italiana di Monte Verena erano rimasti vittima di una sola granata austriaca, i morti della città, fino alla fine dell’anno, non risultarono più di 20, mentre una decina figuravano fra i prigionieri di un campo destinato ad una triste fama: Mauthausen[24]. Il prezzo del pane schizzava naturalmente alle stelle, in seguito all’aumento del costo delle farine che in un anno e mezzo era salito di oltre il 30%. Il Decreto Luogotenenziale del 15 agosto imponeva di conseguenza, e per la seconda volta, ai panifici il confezionamento del solo “pane unico”, naturalmente calmierato, invece del costoso “pane bianco”. Più di qualche fornaio bassanese (Giacomo Benetti, Battista Zen) faticherà ad adeguarsi all’imposizione, con il conseguente intervento della Prefettura. In compenso la disoccupazione, incubo dei mesi precedenti, spariva come d’incanto. Le richieste militari alle ditte bassanesi, gli operai impiegati direttamente presso le grandi officine del genio realizzate subito ad est del centro cittadino, quelli arruolati nelle centurie di lavoro sull’Altopiano o assunti nelle fabbriche d’armi del bresciano (che cercavano soprattutto esperti tornitori, non difficili a reperirsi tra i tanti orafi del bassanese) indicavano un fabbisogno di manodopera impensabile anche solo pochi mesi prima. I sussidi finanziati dalle casse comunali o dai primi contributi bancari andavano a favore ormai solo delle famiglie dei richiamati al fronte[25]. Lavorare in città non era d’altro canto semplice. L’ordinanza sul movimento dei mezzi, emanata dal Comando Supremo alla fine di luglio, imponeva restrizioni durissime per la cosiddetta “zona di operazioni” e richiedeva il possesso di appositi documenti ed autorizzazioni anche per quella delle “retrovie”. Bassano, tagliata in due all’altezza delle frazioni di Campese e San Michele, e l’intero canale di Brenta rischiavano di vivere situazioni davvero insostenibili. Anche il movimento con un carretto, se non addirittura con la carriola, risultava proibito. Come osservava Lazzarotto, sindaco di Valstagna, in una lettera al collega Antonibon, tanto valeva condannare alla morte per inedia intere frazioni e tutte le malghe isolate. Persino il mercato settimanale in città poté essere mantenuto, previa autorizzazione al movimento dei mezzi concessa dal Prefetto su quattro sole strade di accesso, in seguito ad esplicita e pressante richiesta[26]. L’anno si chiudeva con le prime regolamentazioni per la difesa antiaerea (fig.2).

2Militarielearmi

2. Militari e le loro armi per la difesa contraerea. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Gli abitanti di Bassano, divenuto fronte di guerra, hanno lasciato la città ai militari.

Il 18 settembre un velivolo con la croce nera sulle ali aveva fatto la sua comparsa nel cielo di Bassano, scaricando alcune bombe. Il carattere ancora rudimentale degli ordigni non aveva impedito che venisse danneggiato il Ponte, che si avviava ormai a diventare “vecchio”, ferito un ragazzino di Solagna (che morirà pochi giorni dopo) e provocata la morte del… mulo del fornaio di San Michele[27]

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)