Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

A Bassano, il 1916 lasciava al 1917 che iniziava un’eredità pesante. Si trattava di un nuovo massiccio arrivo di profughi, quelli che avevano lasciato l’Altopiano dei Sette Comuni sotto la minaccia dell’invasione austriaca. Dall’inizio dell’estate molti di loro, quasi sempre i più poveri e bisognosi di aiuto, si erano riversati su una città che oggettivamente aveva già dato molto e si trovava prossima all’esaurimento delle forze. Le conseguenze non si fecero attendere, prima di tutto per i profughi stessi. Accantonati alla meglio, sprovvisti spesso di pagliericci e coperte, accompagnati dalla fama un po’ sinistra di “austriacanti”, e quindi potenziali traditori, alimentata fra l’altro anche dagli interventi di Mussolini sul «Popolo d’Italia», fuggiti troppo in fretta per poter contare su mezzi sufficienti di sostentamento, avevano vissuto mesi di profonda sofferenza. Non ne aveva risentito meno d’altro canto la popolazione cittadina. Accanto alle lettere dei sacerdoti dell’Altopiano, che si fanno interpreti presso il sindaco dell’indigenza e dello stato di assoluto bisogno dei loro parrocchiani, l’Archivio Comunale conserva più di una missiva di bassanesi preoccupati dal fatto che questo ennesimo arrivo finisca col compromettere il tenore di vita dei propri familiari. Uno di loro, in quel momento in servizio presso la 463ª batteria del 9° Rgt. artiglieria da fortezza, non si fa molti problemi a minacciare esplicitamente il primo cittadino, se la sua famiglia dovrà abbandonare la casa in cui vive a causa dei profughi[42]. L’amministrazione si rivolgerà all’Intendenza della 1ª Armata, per quel supporto economico e logistico di cui non poteva più fare a meno. La risposta fu che le autorità militari sarebbero intervenute solo se si riusciva a dimostrare che il profugato dei vari comuni dell’Altopiano era stato provocato da un preciso ordine dello stesso esercito. Sarà un ordine un po’ difficile da esibire per chi, come gli abitanti di Asiago e Gallio, aveva lasciato la propria casa sotto le esplosioni del “Lungo Giorgio”, il cannone da marina da 354 mm che aveva bersagliato i due paesi dagli oltre 20 km di distanza del Lago di Caldonazzo[43]. Il lungo inverno tra il 1916 ed il 1917 – sull’Altopiano verranno registrati anche 12 m di neve – aveva imposto una pausa quasi totale sul fronte delle Prealpi vicentine. Gli alpini del “Bassano”, a cima delle Saette, avevano bensì subito un colpo di mano, per riscattarsi dal quale il ten. Santino Calvi cercherà in seguito – trovandola – la morte sull’Ortigara. Le perdite reali erano state peraltro minime. La guerra faceva sentire lo stesso tutta la sua fatica, che dopo tre anni stava diventando insopportabile. Erano stanche le truppe combattenti, fra le quali si diffondevano sempre più spesso episodi di sconforto e di aperta ribellione. La paura della propaganda socialista ed il timore degli influssi esercitati sui cattolici dalla presa di posizione di Benedetto XV contro il conflitto procurarono un’autentica paranoia nelle nostre autorità militari, che spesso ne ingigantivano ad arte il pericolo e l’importanza. Era d’altro canto un dato di fatto che i rifiuti d’obbedienza, se non le vere e proprie ribellioni, sembravano non risparmiare più nessuno e diventavano più frequenti proprio nei reparti che, dando il maggior affidamento, venivano impiegati più a lungo e sui fronti più difficili. A Bassano il numero dei renitenti alla leva, soprattutto ma non solo delle classi più anziane, superava la trentina[44], mentre si era giunti a richiamare ben 22 ultraquarantenni della classe del 1874. Era esausta la popolazione civile. I grandi mutilati si aggiravano per le vie a ricordare i costi umani e sociali del conflitto[45]; il grano era arrivato a costare £. 53.30 al quintale rispetto alle poco più di 30 di tre anni prima, che già non rappresentavano un esborso trascurabile, provocando anche qualche tumulto soprattutto fra le donne[46]. Si era arrivati a razionare praticamente ogni bene di consumo, dallo zucchero alla carne, per non parlare della legna da ardere e dei combustibili in genere. I 28 salumieri e le 7 rivendite di formaggio presenti in città vennero in settembre obbligati a chiudere nei giorni festivi, onde limitare i consumi; i 14 fornai si videro vietare la vendita dei biscotti oltre al pane; i bar minacciavano la serrata per le forniture ridotte all’osso dello zucchero. Alcune officine, come la ditta Balestra, chiedevano una fornitura sia pur minima di carbone per non dover interrompere ogni attività. La città si era riempita di prostitute, che esercitavano anche al di fuori dei luoghi istituzionali a ciò deputati, creando non pochi problemi di ordine pubblico oltre a procurare alla città una “fama” del tutto particolare. I limiti di questo contributo non consentono di citarla analiticamente, ma la memorialistica di guerra è ricca di gustose citazioni a riguardo[47]. Tra le comunicazioni di caduti al fronte, oltre ai tanti alpini morti nelle file del 6° Reggimento, compaiono quelle del ten. Novari, figlio del magg.gen. Niccolò, del cap. Ettore Slaviero, decorato di medaglia d’argento, del ten. Enrico Castellani, e del s.ten. Aldo Bernucci del battaglione alpini “Monte Cervino.” Eppure la classe dirigente non viene meno alla sua adesione e al suo impegno nei confronti del conflitto, tanto meno rinuncia alla volontà di garantire alla città vita e sviluppo. Il 10 aprile viene inaugurata la Casa del soldato, una provvidenza fondamentale soprattutto per le truppe in transito; l’amministrazione non mancava di far sentire la sua presenza ai funerali degli ufficiali caduti in città, ricevendone in cambio testimonianze toccanti di gratitudine dalle loro famiglie. Vengono registrate nell’Archivio Comunale almeno 6 medaglie al valore assegnate a bassanesi sui diversi fronti. In luglio sempre la Giunta comunale delibera di sfruttare le esperienze belliche, in particolare quella delle officine del genio, per realizzare una centrale idroelettrica sul Brenta in grado di rendere la città autosufficiente sotto il profilo energetico. Il 30 ottobre Bassano entrerà a far parte dell’associazione dei comuni della provincia, che avevano deciso di difendere anche di fronte alle autorità centrali le esigenze che la guerra stava imponendo alle proprie popolazioni e ad ottenere le relative provvidenze. Gli avvenimenti bellici dell’estate si svolsero all’insegna di grandi speranze, le ultime forse che era lecito chiedere e suscitare, e si conclusero con una profonda delusione. Sull’Altopiano la “difensiva nell’ipotesi 1”, voluta da Cadorna per riportare il fronte sulla linea di difesa Portule-Verena-Campolongo, era naufragata fin dal primo giorno in una sequela di errori ed imprevidenze. Gli alpini la ricorderanno come “la battaglia dell’Ortigara”, ma la loro sarà in realtà la memoria del sacrificio inutile di 22 battaglioni reclutati lungo l’intero arco alpino. Sulla Bainsizza le conquiste territoriali del XXIV C.d.A. del gen. Caviglia, che passeranno alla storia come l’undicesima battaglia dell’Isonzo, le più consistenti dalla presa di Gorizia, si rivelarono inutili sotto il profilo strategico e addirittura dannose sotto quello tattico. In tali azioni erano stati definitivamente consumati i residui entusiasmi di un esercito condannato da troppo tempo all’offensiva ad ogni costo. Il 24 ottobre 1917 iniziava la dodicesima battaglia dell’Isonzo, che per gli italiani diverrà tristemente nota come la rotta di Caporetto. Le dimensioni reali di questa sconfitta sono oggi oggetto di una profonda revisione storiografica e documentale, ciò nonostante rimane un dato di fatto inoppugnabile che essa comportò la crisi della 2ª Armata ed il conseguente ripiegamento dell’intero fronte orientale prima al Torre, quindi al Tagliamento, infine al Piave. Cadorna riuscì a salvare l’esercito dalla dissoluzione e a costituire una nuova linea di difesa, ma gli alleati dell’Intesa ne chiesero la testa. Vittorio Emanuele III diede il suo assenso, ponendo quale unica condizione il veto sul nome del Duca d’Aosta quale successore. La 4ª Armata, in ripiegamento dal Cadore, dovette coprire l’intero arco di fronte dal Brenta al Montello. Sul Grappa operarono inizialmente le sole forze del XVIII C.d.A. e di una parte del IX: un velo di truppe provate dalla ritirata, prive di supporto logistico e mal sostenute da un’artiglieria in profonda crisi di schieramento. Di fronte a loro agivano i reparti austro-tedeschi del Gruppo Krauss, stanchi da settimane di ciclo operativo, ma col morale alle stelle. I vincitori di Plezzo non seppero decidersi se spingere il loro attacco lungo le valli del Brenta e del Piave o infiltrarsi sul massiccio del Grappa; finirono in buona sostanza per non fare con decisione né l’una né l’altra cosa e si verificò il miracolo[48]. Anche le migliori truppe germaniche, gli alpini del Wüttenberg del ten. Erwin Rommel fra tutte, vennero arrestate e non raggiunsero la pianura[49]. Bassano restava però sotto il tiro dei pezzi di artiglieria avversari, che andavano ad aggiungersi ad incursioni aeree sempre più frequenti e devastanti. Soprattutto a partire dalla metà di dicembre, quando gli austriaci piazzarono sulle Melette ed in Val Brenta i loro cannoni da 152 mm a lunga gittata, in grado di battere direttamente e con precisione la città, la situazione divenne drammatica. In questo caso fu uno dei principali filosofi del ‘900, Ludwig Wittgenstein, ad osservare a lungo lo sbocco della Val Brenta, anche se solo per correggere il tiro dei suoi pezzi, già fin troppo precisi. Iniziava l’esodo della popolazione cittadina, in un certo senso della città stessa. Il 26 novembre lasciava la stazione il primo convoglio ferroviario con 1.500 profughi, che andava a sommarsi ai treni che scendevano a ritmo frenetico dal canale di Brenta. Entro la sera del 24 dicembre – certamente la più triste vigilia natalizia nella storia di Bassano – nel centro abitato non rimaneva che un piccolo resto della Giunta comunale, nonché un paio di centinaia di abitanti. Abitazioni ed edifici pubblici, non esclusi i luoghi di culto, si trasformarono in altrettanti accantonamenti. Per una singolare nemesi, la classe borghese, che la guerra aveva voluta e sostenuta, abbandonava ora quasi in toto il luogo della lotta; i contadini, che l’avevano vissuta come una calamità ed avevano approfittato di ogni minima occasione per tornare al proprio lavoro dei campi, restavano a subirne le conseguenze più gravi[50]. Qualche bassanese, prima di andarsene, pensò bene di dar fondo alle proprie scorte di cantina e, di fronte alla triste prospettiva di sapere il proprio vino bevuto dagli austriaci, preferì condividerlo con le truppe già in città[51]. Molti altri recrimineranno a lungo nel dopoguerra i danni, reali o presunti, subiti dalle proprie abitazioni e dai beni che non avevano potuto portare con sé, ad opera dei soldati che le avevano occupate. Abbandoneranno la città anche le ultime opere d’arte che ancora rimanevano in deposito al convento delle Canossiane, nonostante i molti sgomberi predisposti fin dal 1915 e reiterati quindi nella primavera del 1916, in direzione di Firenze[52]. Il Barone Zanchetta, che presiedette a tale sgombero, si era trovato in realtà tra Scilli e Cariddi: più di qualche ufficiale, di chiara matrice futurista, gli aveva consigliato di affidare il tutto alle risolutive onde del Brenta; il Cap. Ugo Ojetti, noto critico d’arte in servizio al Comando Supremo, lo aveva tempestato di richieste, che egli non poteva evadere, per mettere in salvo quello stesso patrimonio[53].

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