Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il 1918, l’ “anno della vittoria”, avrà due protagonisti di assoluto rilievo: Bassano ed i bassanesi. Le loro vicende saranno però, almeno per i primi mesi, totalmente distinte: la città vivrà, pressoché abbandonata, il dramma di trovarsi ad un dì presso sulla linea del fronte; i suoi cittadini proveranno sulla propria pelle, da protagonisti diretti, il dramma del profugato e della dispersione. Forse dire abbandonata non è del tutto esatto, anche se a gennaio del 1918 almeno 14.500 cittadini non vi risiedevano più. Bassano venne infatti letteralmente occupata dai militari, dal semplice soldato di truppa, costretto al bivacco sotto la navata di San Francesco, ai comandanti dei Corpi d’Armata, alloggiati a Villa Giusti, a Villa Bianchi-Michiel o a Ca’ Cornaro. Le ville Zanchetta e Baroni davano ospitalità a degli ospedali da campo. E non erano soltanto militari italiani. Terminata la battaglia d’arresto nel dicembre 1917, anche gli alleati avevano accettato di entrare in linea, affrontando direttamente gli austro-tedeschi. Prima gli inglesi sul Montello, poi i francesi alla riconquista del Tomba, infine gli americani nelle file della nostra aviazione da bombardamento o sulle ambulanze fornite dalla Croce Rossa statunitense, che sgomberavano i nostri feriti dal Grappa, tutti prima o poi passarono per Bassano. Qualcuno come i “poeti di Harvard”, Dos Passos o E. Hemingway finirono addirittura con lo stabilirsi qui per un lungo periodo. Uno di loro, il s.ten. Joseph M.King, vi resterà per sempre, andando ad occupare dal 29 settembre 1917 una delle tombe di Santa Croce[54]. La città lascerà una suggestione profonda nelle loro opere, degnamente esplorata per anni da Giovanni Cecchin. L’autore di Addio alle armi lascerà un cocktail con il suo nome – o almeno così voleva la leggenda – che venne servito per anni al “Nazionale” in Piazza Libertà. Ecco come vedeva la città il ten. Giuseppe La Scala, cappellano metodista, nelle giornate del febbraio 1918, vissute sotto l’incubo dei bombardamenti nemici: «Bassano è quasi abbandonata dalla popolazione civile. Pochi negozi funzionano ancora, ma pare abbiano fretta di sbarazzarsi della roba rimasta; un po’ in tutte le vie si vedono case sforacchiate e qualcuna abbattuta dalle bombe o da granate nemiche. Girando per le vie di Bassano si è pervasi da un senso di mestizia (fig.4).

4PonteVecchiodistrutto

4.Il Ponte Vecchio è distrutto il 17 settembre 1915. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Un ponte di barche congiunge le due rive in località Ca’ Erizzo.

Sembra una città morta, che attende però nel raccoglimento e nel dolore l’ora della risurrezione… Trovo la città invasa da Alpini e da ufficiali. Parecchi battaglioni si danno il cambio e qui è punto di incrocio»[55](fig.5).

5PiazzaLiberta

5. Piazza Libertà - lato est. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La popolazione se n’è andata. Sulla piazza solo militari e cannoni pronti per l'offensiva sul Grappa.

Dopo la conclusione vittoriosa per le forze armate italiane della “prima battaglia dei Tre Monti”, sull’Altopiano dei Sette Comuni, nella quale perdeva la vita anche il bassanese s.ten. Giovan Battista Sonda, del XIV battaglione del 5° Rgt. bersaglieri, e la realizzazione di ben 5 sbarramenti lungo la Val Brenta, la città poteva dirsi ragionevolmente al sicuro[56]. Rimaneva d’altro canto esposta tanto ai tiri dei pezzi a lunga gittata, quanto ai bombardamenti dei velivoli austriaci, a dispetto di una difesa antiaerea ormai ben più sofisticata e fornita di mezzi di quella del 1915, e dei molti campi di aviazione che ormai la circondavano da Nove a Casoni[57]. Particolarmente pesanti furono quelli del 25-26 maggio[58]. Nemmeno il pericolo dell’invasione era del resto del tutto scongiurato. Come dimostreranno le vicende del IX C.d.A. del gen. E. De Bono durante la battaglia del Solstizio, Bassano restava “ad un passo” dalle avanguardie avversarie, inevitabile caposaldo di una delle tante linee realizzate anche in pianura e che terminavano nel campo fortificato di Vicenza. Nel mese di aprile veniva quindi commissionato alla 50ª Divisione di fanteria lo studio per la realizzazione e l’occupazione di una testa di ponte incentrata sulla città, il cui compito principale sarebbe stato quello di coprire il fianco destro delle truppe in ritirata dall’Altopiano, in caso di sfondamento sul Grappa. Del problema si occupò il gen. Roberto Bencivenga, comandante la Brigata “Aosta”, ed in quel momento responsabile interinale anche della Divisione. Si trattava di una delle “menti pensanti”, se non della principale, del Comando Supremo di Udine, destinato anche nel dopoguerra a rappresentare un caso pressoché unico fra i nostri generali, per la sua decisa opposizione al fascismo. Destinò il 20° Rgt. artiglieria da campagna (col. Prat) sulla riva destra del Brenta, tra Santissima Trinità ed i Maragonsei e schierò la Brigata “Alpi” (51° e 52° Rgt.) in seconda linea, tra San Fortunato-Borgo Zucco-Ca’ Baroncello e la polveriera. La prima linea di difesa, immediatamente a nord e nord-est della cinta muraria e dell’attuale Viale dei Martiri, o in parte dietro la cinta stessa e le prime case dell’abitato, sarebbe stata occupata dalla Brigata “Aosta”, in ripiegamento dalla difesa di Romano d’Ezzelino e quindi di Ca’ Cornaro. Merita riportare quanto raccomandato dal comando del XXX C.d.A. allo stesso Bencivenga, nonostante la gravità della situazione e nonostante il fatto che i danni già inflitti dagli austriaci alla città potessero indurre a ben altro atteggiamento: «3°) Lavori: Non ravviso, per ora, la necessità della loro immediata attuazione sia per quanto riguarda i reticolati, sia per quanto riflette i varchi nei muri di cinta; questi ultimi potranno essere praticati dalle unità assegnate ai settori della difesa quando se ne manifesti la immediata necessità. Cotesto comando, però, dovrà fin d’ora compilare in proposito un particolareggiato progetto. Per quanto riguarda l’approntamento dei materiali per il gittamento delle due passerelle attraverso il Brenta ed i ripari di sacchi a terra lungo il lato nord dei ponti esistenti, provvederà questo comando»[59]. Per fortuna di tutti il “particolareggiato progetto” del gen. Bencivenga, ancor oggi conservato all’Ufficio storico dell’Esercito, non trovò mai attuazione. Il pericolo restava però sempre in agguato, come dimostrò il disastroso incendio che il 25 maggio distruggeva il deposito munizioni d’Armata di Rossano, rinnovando l’incubo dell’agosto 1916[60]. Malgrado questi rischi e questi pericoli, a dispetto delle vittime crescenti tra la pur pochissima popolazione civile rimasta, le richieste di poter rientrare a Bassano da parte dei suoi cittadini profughi continuarono ad aumentare di numero, soprattutto a partire dalla tarda primavera. Le condizioni di vita dei profughi stessi, soprattutto ma non esclusivamente di quelli delle fasce socialmente più deboli, non erano naturalmente estranee a tali richieste. Sì, perché se la città soffriva sotto le bombe austriache e a causa della sovrana arte di arrangiarsi messa in atto spesso e volentieri dalle nostre truppe (comandi ovviamente inclusi), e doveva registrare in maggio anche qualche caso di vaiolo[61], i suoi cittadini non stavano molto meglio nelle mille destinazioni in cui li aveva dispersi l’abbandono forzato della zona urbana e del circondario. Fonte assolutamente privilegiata per conoscerne e seguirne le vicende sono i rapporti tenuti periodicamente, fino all’agosto 1918, da Giacomo Velo, allora responsabile dell’Ispettorato Profughi Bassanesi, situato a Cremona[62]. Da essi risulta, com’era ovvio attendersi, che la fase più dura della vita dei profughi fu quella iniziale, durata perlomeno fino al mese di marzo. Se si eccettuano le famiglie benestanti, sfollate per lo più presso parenti con collocazioni anche lontane ed eccentriche, o le principali attività commerciali per le quali si mobilitò direttamente l’Alto Commissariato per i profughi, la gran parte della popolazione andò a gravitare sulla Lombardia, centrale e meridionale, l’Emilia, il Piemonte e la Liguria. Un numero notevole di sfollati, almeno 3800, cercò sistemazione nell’area di Cremona, forte del fatto che la città del Torrione avrebbe dovuto ospitare la sede dell’Amministrazione Comunale, da cui le famiglie di profughi dipendevano per tutte le pratiche relative alla concessione del sussidio governativo. L’uso del condizionale è d’obbligo perché, dopo l’abbandono iniziale che aveva lasciato Zanchetta sola autorità civile a Bassano, anche Antonibon vi fece presto ritorno. L’amministrazione restava così in certo qual modo divisa a metà, come nota con una punta di malcelata amarezza lo stesso Velo[63]. I problemi principali erano costituiti dall’ostilità delle popolazioni che dovevano accogliere le nuove famiglie, dalla scarsità di alloggi, spesso affittati a prezzi da pura speculazione, dalla difficoltà ad ottenere dei sussidi, che agivano come un’autentica idrovora sulle già esauste casse statali[64]. A ciò si aggiungeva la mancata conoscenza degli usi e dei costumi, tanto dei nuovi arrivati, quanto in realtà anche degli ospiti, mancata conoscenza che sollevava una lunga serie di contumelie e lagnanze dall’una come dall’altra parte[65]. I mesi estivi miglioreranno notevolmente le cose, pur portando con sé altri problemi. Se l’integrazione con le comunità locali diviene un dato di fatto, fino al punto da essere giudicata in certi casi eccellente dagli stessi profughi, come capita ad esempio alla lontana Bari, peggiora quella con le autorità. I profughi vengono spesso accusati da queste ultime di rifiutare anche lavori ben remunerati e necessari allo sforzo bellico nazionale, per vivere “comodamente” del sussidio governativo, impiegato magari per bere ed oziare[66]. Gli sfollati vedono viceversa l’impiego magari interessante sotto il profilo economico, ma privo di garanzie di continuità, come la certezza di perdere o di vedersi quantomeno decurtare il sussidio, per non parlare del rischio di non ottenerlo più in caso di licenziamento. Ciò nonostante non mancano giovani bassanesi che accettano di lavorare come mondine nella Lomellina, altre che a Robbio si impiegano in attività pesanti presso le Officine Meccaniche dei F.lli Cantoni, per sfuggire all’autentico sfruttamento del cotonificio Gianolio, che corrispondeva appena £.0.70 al giorno a fronte di un lavoro di 10 ore[67]. Alla fine però il peso che la presenza dei profughi esercitava su amministrazioni pubbliche e patronati civili cominciò a diventare un gravame eccessivo; gli sfollati dalle terre invase o minacciate si trasformarono in un problema da cui tutti chiedevano la liberazione. Il protagonista indiscusso degli avvenimenti militari degli ultimi mesi di guerra, almeno in rapporto a Bassano, fu il suo monte: il Grappa. Lo fu durante la battaglia del Solstizio, nel giugno, quando – come abbiamo notato – le avanguardie del magg.gen. Sallagar infransero tre linee di resistenza sul fronte del IX C.d.A., spingendosi fin quasi a Ponte San Lorenzo[68]. Anche se solo per un istante, si corse realmente il rischio di spalancare agli ungheresi del Corpo del gen. Horsetzky la via per la pianura; gli eroismi degli arditi di Messe sul Col Moschin e le verbose polemiche del dopoguerra innescate da Giardino non possono mutare la realtà dei fatti. Sarà ancor più protagonista la montagna nei giorni di Vittorio Veneto, quando dovrà farsi carico del principale sforzo offensivo, subirà le perdite maggiori, finirà col dover cedere ad altri, l’8ª Armata di Caviglia e la 10ª di Lord Cavan sul Piave, l’alloro della vittoria. Gli alpini del “Bassano” saranno ancora della partita, ma non sul Grappa; varcheranno il Piave agli ordini della 12ª Armata del gen. J. C. Graziani, francese di origine corsa, ed occuperanno la cima di M. Cesen, sopra Valdobbiadene[69]. L’archivio comunale registrerà alla fine la concessione di 26 decorazioni a bassanesi, assegnate in buona parte per azioni compiute negli ultimi 12 mesi di guerra[70]. Il 4 novembre 1918 ed il proclama “firmato Diaz” chiudevano finalmente la fase della guerra combattuta, in realtà solo per aprire quella non meno difficile e complessa della ricostruzione. Si trattava in un certo senso di ricreare un mondo, avvalendosi di generazioni che la guerra aveva falcidiato ed i cui superstiti, al loro ritorno, non potevano lesinare nelle richieste. Lo avrebbero fatto sorretti ormai dal suffragio universale maschile, che contribuirà a sconvolgere tutti gli equilibri della vecchia Italia liberale. Occorreva rimettere in moto le attività commerciali ed industriali, affrontare il flusso dei reduci, militari e civili, che rientravano in case che a volte non esistevano più, spesso risultavano danneggiate, quasi sempre portavano i segni pesanti di un anno di occupazione militare. Non ci si era ancora liberati del tutto dalle questioni militari. Per mesi, se non per anni, la città ed il suo circondario, per non parlare delle montagne, necessiteranno di una radicale bonifica dagli ordigni bellici; le truppe anglo-francesi, che rimarranno in zona per tutto l’inverno, daranno vita a non pochi, incresciosi incidenti. Su Bassano e nel contado, come in tutta Europa ed in America, stava da mesi infierendo l’epidemia di “spagnola”, destinata a fare più vittime dell’intero conflitto. Fra i primi a morire in città sarà l’arciprete della Santissima Trinità, don Carlo dalla Vecchia, e l’on. Roberti dovrà adoperarsi, fin dalla fine di ottobre, per ottenere almeno il rientro in città del dott. Valentino Nosadini, in quel momento sotto le armi a Verona. Le pressioni esercitate sul Prefetto di Vicenza, per migliorare qualitativamente e quantitativamente l’assistenza sanitaria, erano rimaste in buona pace lettera morta[71]. Basti pensare che il solo opuscolo di profilassi e di consigli nei confronti del nuovo flagello venne inviato a cura di Mons. Rodolfi, vescovo di Vicenza. Quasi inevitabilmente infine Bassano si avviava a diventare una delle “capitali della memoria”, innanzitutto perché i suoi tre cimiteri (Santa Croce, Santissima Trinità, Campese) ospitavano oltre 1500 caduti, di cui molte famiglie richiederanno la salma. Poi perché costituiva la base di partenza privilegiata per chi si accingeva all’amaro compito di rintracciare la sepoltura di un proprio caro, sull’Altopiano e soprattutto sul Grappa[72](fig.6).

6militeignoto

6. I combattenti della sezione di Bassano portano a spalla la salma del Milite Ignoto (1921?). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La fotografia riprende il tratto di cammino della salma del Milite Ignoto affidato ai combattenti bassanesi.

Del resto il bilancio del conflitto lasciava Bassano con 298 caduti militari, 16 civili, 110 mutilati ed invalidi, 362 orfani e circa 120 vedove[73]. Non mancherà chi eserciterà pressioni sull’Amministrazione perché si faccia carico del problema e – con una punta nemmeno troppo velata di interessato cinismo – sappia cogliere le opportunità economiche che l’enorme numero dei caduti e la varietà delle loro provenienze geografiche potevano offrire[74]. In realtà la città seppe assumere una posizione ben più dignitosa e fin dai primi anni ’20 dimostrerà tutto il suo affetto per le vittime della guerra. Dall’adesione spontanea alla ricerca del “milite ignoto” al tentativo di farsi promotrice di una memoria condivisa, da laici e cattolici, delle immani sofferenze del conflitto, la città sarà comunque in prima fila. La posa della colonna romana a Ponte San Lorenzo (fig.7)

7PonteSLorenzo

7. La colonna posta a Ponte San Lorenzo nella prima collocazione dell’agosto 1920. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Essa verrà spostata sul ponte per garantire una maggiore visibilità.

appare come l’esito di un progetto politico di ampio respiro, sostenuto dalla vecchia classe dirigente, volto appunto a trasformare l’ormai consueta festa cattolica del Grappa nel ricordo, laico e cristiano insieme, di tutti coloro che si erano sacrificati per la Patria. A dispetto delle sue limitate dimensioni e del suo ancor più limitato successo, avrà un’eco vasta e profonda[75]. Bassano troverà comunque nei problemi posti dal difficile dopoguerra anche l’occasione per una vocazione “europea” destinata a future fortune. Tra le tante lettere conservate nell’Archivio Comunale ed indirizzate al sindaco vi è infatti anche una cartolina postale, inviata da Francesco Hochberger di Zettlitz presso Karlsbad in Boemia. Essa diceva: «Pregg. Sig. Sindaco, Mio figlio Enrico Hochberger, nato il 4.9.1900 in Zettlitz e stato soldato dell reggimento di bersaglieri n° 6 (Schützenregiment 6), 2ª kompagnia austriaca e venuto in ottobre 1918 in Italia in prigionia. Ultime notizie ho ricevuto li 24.10.1918 da Passano e prego molte volte per alcuni parole da Lei, se non sia, se mio figlio ancora vive, e poi dove e. Sono un povero uomo e amo mio figlio come Lei sue bambini. Grazie tante per la sua bontà e spero all’benevolo notizie, suo Francesco Hochberger lavoratore in Zettlitz presso Karlsbad in Boemia»[76]. Sia pur su una delle ultime vittime della guerra, era posta la prima pietra di un nuovo ponte verso l’Europa (fig.8). 

8MadonninaritornasulGrappa

8. Al termine della guerra, la Madonnina ritorna sul Grappa dopo il restauro. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Pronuncia l’orazione ufficiale il generale Gaetano Giardino.

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)