Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il vero tramonto del liberalismo bassanese fu dovuto ad una vicenda dalle dimensioni internazionali, che coinvolse Francesco Vendramini. Questi era stato rieletto nelle elezioni del 1904 praticamente senza concorrenza. Se alcuni cercarono di contrapporgli i nomi dell’economista Tullio Martello e del conte Luigi Michiel, furono i socialisti alla fine a proporre un candidato alternativo, Enrico Ferri, che tuttavia prese meno di un quinto dei voti del Vendramini. In realtà il successo di Vendramini non si basava su un consenso ampio, bensì era legato al centro storico, che votava il candidato liberale, mentre le campagne, dove l’influenza clericale era molto più accesa, di fatto non votavano. I voti con cui il candidato liberale si era imposto anche in quest’ultima elezione erano poco più di un quarto degli aventi diritto (1472 su 5573). Il declino di Vendramini cominciò con la morte del suo referente politico, Zanardelli, e con la polemica, scatenata in città dagli ambienti cattolici, sul sostegno che il deputato bassanese forniva all’anticlericale militante Nunzio Nasi. Neppure nel resto della regione il suo consenso nei ceti produttivi resistette, nonostante gli impegni riformistici sui dazi di consumo e su altri sgravi tributari, e questo a causa del suo schierarsi a favore della statalizzazione delle Ferrovie. E in effetti la sua prospettiva, che doveva scontentare gli industriali locali, fu alla base per la fondazione della linea ferroviaria Venezia-Bassano-Trento. Ma fu la sua implicazione nel crack della Mutual Reserve che chiuse la carriera politica del deputato liberale. La Mutual Reserve era infatti una compagnia assicurativa americana che operava in Italia dai primi anni ’90 del XIX secolo. Vendramini, che aveva assunto l’incarico di avvocato di questa compagnia, nel 1905 si espose con il ministro dell’industria e commercio, Luigi Rava, per ottenere che lo Stato patrocinasse uno svincolo di ben 300.000 lire, trattenute a garanzia degli assicurati. Questo comportò che, con il fallimento della compagnia, nel 1908, tutti gli assicurati italiani persero i propri soldi. Vendramini venne accusato di aver favorito la compagnia, e questo fu solo l’inizio: si scatenò una campagna di stampa, da parte clericale, che diffamava il deputato sostenendo che egli aveva usato i suoi contatti con Rava per ottenere quello svincolo, ma pure che il fallimento fosse preordinato e che ne fosse al corrente. Queste ultime, ovviamente, erano accuse pretestuose, ma tanto bastò perché l’eco della vicenda assumesse una dimensione nazionale[69]. La vicenda sconquassò gli equilibri politici pregressi e nelle elezioni politiche del 1909 Vendramini, dopo 23 anni di egemonia politica, perse contro un candidato di area cattolica, Giuseppe Roberti. Va notato, per comprendere le dinamiche politiche a fondo, che in queste elezioni il liberale in realtà aumentò i suoi voti, salendo a quota 1589, che egli ricavava sempre per la maggior parte nel centro storico cittadino, ma questo non bastò di fronte al candidato cattolico che riuscì a far emergere il voto delle campagne, prendendo la cifra record di 2627 voti, che riuscirà quasi a triplicare nelle elezioni politiche del 1913[70]. La scena si chiudeva sul deputato simbolo della Bassano giolittiana[71]. Vendramini, e tutto il liberalismo bassanese, ebbero questo destino fin dalle origini: espressione di un ceto dirigente cittadino e illuminato, non seppero mai trovare le parole ed interpretare le esigenze dei ceti più poveri che un poco alla volta venivano affacciandosi alla rappresentanza politica. La grande narrazione cattolica, che in realtà proprio dallo stimolo dell’unità aveva iniziato a tessere la sua trama nelle campagne contadine, innervandole non solo di una chiara identità confessionale, ma riuscendo a rappresentarne le esigenze produttive e le istanze economiche prima e meglio di quanto seppero fare i socialisti, era di fatto destinata, quando avesse saputo esprimere anche una degna classe dirigente, di scalzare un confuso e diviso mondo liberale. Ed in effetti Giuseppe Roberti, certamente favorito dal sostegno dei giornali cattolici come «Il Prealpe» di Bassano o «Il Berico» di Vicenza, era un candidato di sintesi tra le due anime del cattolicesimo bassanese, quella più favorevole ad un confronto costruttivo con il liberalismo e quella schiettamente clericale. Tante le ragioni storiche che consentirono l’emergenza di una simile candidatura, non tutte riconducibili all’atavica debolezza della rappresentanza laica e liberale. La prima ragione: Roberti era espressione di una Bassano antica, di una famiglia che aveva tra i suoi avi personalità illustri come il gesuita settecentesco Giambattista Roberti e come il padre di Giuseppe, Tiberio, già incontrato come uno dei notabili che portarono al re Vittorio Emanuele II la richiesta di annessione di Bassano al Regno d’Italia. La seconda ragione va riconosciuta su un piano culturale, nella diffusione che a livello internazionale stavano avendo dottrine filosofiche e scientifiche come il positivismo e il darwinismo, la cui affermazione provocava il ricompattamento, in un contesto culturalmente arretrato come l’Italia, del fronte cattolico: di fronte ad una cultura liberale che, nelle semplificazioni spesso in atto soprattutto in provincia, sembrava via via identificarsi sempre più con questa nuova visione del mondo, materialista e determinista, in cui si facevano strada dottrine individualiste, o in senso inverso collettiviste, le élites cattoliche, spesso non all’altezza della sfida intellettuale di quella stagione, avevano due strade: o staccarsi definitivamente dalla chiesa, assumendo ad esempio il punto di vista del positivismo (è la parabola di un Ardigò), oppure operare dei distinguo, in un movimento che di fatto tendeva a rinsaldare il fronte della chiesa ma che ne apriva al contempo l’azione politica. Giuseppe Roberti è una chiara illustrazione di questa seconda possibilità: nato nel 1874, laureato in Legge a Padova, divenne leader del cattolicesimo cittadino fin dal 1901, consigliere comunale nel 1904, favorevole a un programma di cristianesimo sociale che si battesse per l’autonomia dei comuni, per la riforma tributaria, per la prassi del referendum. Tra il 1905 e il 1906 diede alla stampa alcuni opuscoli che presentavano la sua prospettiva politica. Secondo Roberti non vi era alternativa all’orizzonte democratico, e questo era tanto più vero se si guardava cosa capitava nei paesi più avanzati. Ma il modo in cui un paese come l’Italia doveva pervenire all’orizzonte democratico non poteva essere uguale agli altri: la presenza del papato doveva fungere da guida della cultura nazionale, secondo un modello che richiama il neoguelfismo. La pretesa coerenza tra Chiesa e mondo moderno, secondo uno schema, si otteneva estromettendo, sia chiaro, dalla modernità “buona” gli errori madornali dell’intelletto e dello spirito incarnati dal positivismo e dal darwinismo. Era pertanto una modernità sui generis. Anche per quanto concerne l’atteggiamento nei confronti della politica sociale l’approccio di Roberti si mostrava più debitore di un generico paternalismo borghese e proprietario, interessato a confrontarsi con problemi radicali come l’emigrazione delle classi contadine, ma tramite mezzi che di fatto risultavano coerenti ai processi economici e che acuivano le disparità di classe. Scarsi e poco significativi sono anche i suoi interventi come deputato, per lo più interessati alla politica scolastica, nella prospettiva di una promozione della scuola cattolica[72]. Riassumendo, Roberti è figura che ben racconta la timidezza intellettuale e politica della classe politica della Bassano alla vigilia della grande Guerra, una generazione intrisa di un certo conformismo e priva di una visione chiara. Questi tratti faciliteranno in Roberti, con il Ventennio, un suo allineamento al fascismo, finendo per venire, dopo la legge Acerbo, da lui sostenuta, espulso dal partito popolare. 

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