Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Bassano, posta ai confini tra il pedemonte vicentino e quello trevigiano, dove il Brenta sbocca dalla Valsugana per avviarsi verso Padova e la Laguna, rappresentava un luogo di mercato ideale per lo scambio tra i prodotti della montagna e quelli dell’alta e della bassa pianura. La presenza del ponte (fig.1; tav.1),

1AndreaPalladio

1. Andrea Palladio, Il ponte di Bassano. La presenza del ponte contribuiva a stabilire un forte legame tra il Bassanese e il Borgo Angarano che faceva parte  della riva vicentina del Brenta ma era inserito nella sfera d’influenza economica del centro urbano.

insieme ai numerosi traghetti che collegavano le due sponde del fiume, contribuiva a stabilire un forte legame tra il Bassanese e la riva vicentina del Brenta, inserita a tutti gli effetti nella sfera d’influenza economica del centro urbano. L’importanza del fiume come via di comunicazione e di accesso alle risorse della montagna, legname e carbone di legna in primo luogo, non sfuggì ai patrizi veneziani, che sin dagli anni immediatamente successivi alla dedizione investirono i loro capitali nell’acquisto di proprietà fondiarie e nel finanziamento di attività manifatturiere tanto a Bassano che nel suo territorio. Lo scambio di prodotti tra zone ambientali diverse, alta e bassa pianura, aree collinari e prealpine, aveva sostenuto la crescita urbana e la vitalità economica della Bassano medievale, dando vita ad una rete di traffici destinata a perdurare nel tempo. Questi commerci continuarono a rivestire un’importanza fondamentale per la sussistenza di un centro abitato posto in una zona dove i terreni erano poco fertili e la produzione cerealicola strutturalmente inferiore al consumo, oltre che soggetta a violente oscillazioni da un anno all’altro. Ma i secoli dell’età moderna videro realizzarsi profonde trasformazioni sia nella struttura dell’economia urbana, con una forte crescita degli impiegati nel settore manifatturiero, che nella sua collocazione all’interno delle reti commerciali a scala regionale e internazionale[1].Tra la metà del Cinquecento e la fine del Settecento l’Italia perse a vantaggio di Inghilterra e Olanda il primato in campo manifatturiero e commerciale che aveva conquistato nel corso del tardo medioevo, mentre mercanti e marinai nordici sottrassero a veneziani, genovesi e ragusei spazi sempre maggiori negli scambi tra l’Europa centro-occidentale e il Levante, riuscendo ad inserirsi anche nei traffici interni al Mediterraneo[2]. Questi processi, di larga scala e di lungo periodo, finirono per incidere sulla funzione svolta sino ad allora da Venezia come luogo di concentrazione e riesportazione dei manufatti e delle merci prodotte nell’area padano-veneta. Certo anche nel Seicento e nel Settecento la capitale della Repubblica rimase una delle maggiori città italiane, un grande centro di consumo tanto di prodotti agricoli quanto di manufatti di uso comune e di lusso, in forza di una popolazione molto numerosa, della concentrazione delle funzioni politiche ed amministrative e della gestione dei fondi pubblici, dell’impontente flusso di rendite generate dalle proprietà e dagli investimenti compiuti nel corso dei secoli dalle casate patrizie e cittadine. Con le sue numerose colonie mercantili straniere, presenze antiche e consolidate come quelle dei greci, degli ebrei e degli armeni, affiancate da altre di più recente origine, quali i fiamminghi e gli inglesi, Venezia costituiva per il resto della Repubblica una finestra sul mondo, il centro di raccolta delle informazioni e delle novità che giungevano da tutta Europa e dall’intero Mediterraneo, oltre che una piazza finanziaria di primaria importanza, punto di riferimento per tutta la regione nel campo del credito e della circolazione internazionale del denaro, in contatto continuo con tutte le maggiori piazze commerciali europee, da Londra a Norimberga, da Amsterdam a Lisbona[3]. Nel campo della produzione e circolazione di manufatti c’è motivo di ritenere che a partire dal secondo Cinquecento il ruolo di Venezia in ambito regionale abbia finito per indebolirsi[4]. La grande diffusione della gelsibachicoltura e della lavorazione della seta, prodotto destinato soprattutto all’esportazione verso i Paesi Bassi, la Germania e la Francia e solo in piccola parte assorbito dalle manifatture della capitale, che si approvvigionavano prevalentemente in Levante e nei Balcani, insieme all’affermarsi delle fiere di Bolzano come punto di incontro per i mercanti della Terraferma, della Germania e dei domini asburgici, si tradussero in una ristrutturazione delle direttrici del commercio internazionale all’interno dei quali la piazza marciana non aveva più la centralità di cui aveva goduto tra la fine del medioevo e l’inizio dell’età moderna[5]. Anche la crescita della produzione veneziana di panni in lana, interpretata da molti come un segno di vitalità dell’economia della Dominante, contribuì a rafforzare questa tendenza, perchè avvenne in gran parte a danno delle manifatture delle città suddite, che erano solite esportare i loro tessuti attraverso lo scalo marciano[6]. A Vicenza come a Verona il declino del lanificio si accompagnò ad una vigorosa espansione dell’industria della seta che, come s’è detto, veniva esportata direttamente verso Lione, Colonia o Anversa, senza transitare per la capitale[7]. Dotata di buoni collegamenti con Trento, Bolzano e le città della Germania meridionale, oltre che con Padova e Venezia, Bassano si trovava in una posizione ideale per sfruttare le opportunità create da queste trasformazioni. Oltre alla larga disponibiltà di materie prime, la lana e le pelli acquistate da pastori e allevatori delle aree montane e la seta greggia o in bozzoli prodotta in grande quantità nella fascia pedemontana, la cittadina poteva contare sull’abbondante forza motrice idraulica ricavabile dalle rapide acque del Brenta e dei numerosi canali che si distaccavano dal fiume, e sulla facilità di approvvigionamento di legname, carbone di legna ed altre risorse dei boschi e pascoli montani portati a valle dagli zatterieri della Valsugana. A questi vantaggi di natura economica se ne aggiungevano altri di carattere istituzionale ed amministrativo, in primo luogo l’elevato grado di autonomia riconosciuto da Venezia al centro pedemontano, svincolato sin dalla dedizione dalla dipendenza dalle città maggiori della Terraferma. Una situazione che veniva ulteriormente accentuata dalla collocazione, tutto sommato secondaria e periferica, del bassanese all’interno della Repubblica. All’interno di uno Stato di Terraferma ancora fondato sugli assetti territoriali ed amministrativi ereditati dall’età comunale, Bassano poteva regolare per proprio conto le questioni rilevanti per la vita economica e sociale locale senza doversi confrontare con altri centri di potere al di fuori di Venezia. Al tempo stesso le capacità di intervento e di controllo del territorio del rappresentante locale del governo veneziano, il podestà e capitano, erano condizionate dalle ridotte dimensioni del personale posto alle sue dirette dipendenze, mentre a livello centrale il controllo cui era sottoposto il Bassanese era meno attento e costante di quello che Venezia esercitava sulle città maggiori della Terraferma. Anzi in parecchi casi gli interventi compiuti dalle autorità veneziane fanno presumere che queste fossero poco e male informate sugli assetti amministrativi e sulle pratiche del luogo[8]. Bassano si propone quindi come un caso esemplare di quella tipologia di centri, le «quasi città», che riuscirono a sfruttare i margini di flessibilità insiti nella loro condizione periferica per minimizzare gli effetti della crisi del Seicento o, come si vedrà nel caso del centro pedemontano, per trasformarli in opportunità di crescita[9]

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