Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

I velli di lana sucida giunti a Bassano dovevano innanzitutto essere lavati e ripuliti dalle impurità ad opera dei lavatori di lana, tre dei quali erano attivi in città nel 1646. La materia prima veniva quindi riportata nella bottega del mercante per essere suddivisa secondo la lunghezza e qualità del fiocco per poi essere preparata alla filatura attraverso la battitura, la pettinatura e la cardatura. Tutte queste operazioni venivano eseguite da lavoratori che operavano in locali detti “stufe”, con un’attrezzatura molto semplice, dei bastoni in legno e dei pettini o cardi in metallo. La lana a pelo più lungo veniva pettinata per ottenere lo “stame”, dal quale si sarebbe ricavato il filo d’ordito, più robusto ed in grado di sopportare meglio la tensione impartita dal telaio, mentre quella a pelo corto era cardata per prepararla alla filatura in trama. Per facilitare la lavorazione del filo di lana in questa fase si utilizzava una gran quantità d’olio, sia locale che importato. La lana veniva quindi distribuita alle filatrici, di gran lunga il gruppo più numeroso tra i lavoratori del lanificio. Si trattava di donne, residenti in città e in campagna, che dividevano il loro tempo tra le attività domestiche, la filatura della lana ed il lavoro nei campi, ma sulle quali siamo ben poco informati. Una volta trasformata in filo torto, la lana veniva raccolta dai mercanti e dai loro agenti e distribuita ai tessitori. Questi erano artigiani indipendenti, che lavoravano nelle proprie case e con telai di loro proprietà. Erano direttamente i tessitori a rivolgersi alle orditrici per la messa in opera del filato sui telai. Le orditrici, in genere donne, ricevevano il filo in matasse e a seconda del tipo di panno da fabbricare ne ricavavano un numero variabile di portate, ciascuna formata da 40 fili di eguale lunghezza, pronte per essere arrotolate sul subbio. I telai bassanesi potevano essere di due tipi: da panni bassi, con un pettine di larghezza variabile da poco meno a poco più di un braccio, ossia 68 centimetri, e telai da panni alti, con pettini di dimensioni all’incirca doppie. Mentre i primi potevano essere azionati da una sola persona, nei secondi la larghezza del pettine rendeva impossibile al tessitore di lavorare da solo e quindi diventava necessario ricorrere ad un garzone, che aveva il compito di lanciare la navetta contenente il filo di trama. Terminata la tessitura, che stando a quanto dichiaravano gli artigiani stessi impegnava una persona per quattro giorni nel caso di un panno basso e due persone per cinque giorni nel caso di un panno alto, il drappo doveva essere portato al banchetto dell’arte della lana, dove veniva pesato, misurato ed esaminato. Il banchiere aveva il compito di controllare che il calo di peso dovuto alla tessitura rientrasse nella norma e che quindi l’artigiano non si fosse appropriato di parte del filato che gli era stato consegnato, che la lunghezza del panno raggiungesse il minimo previsto dalle regole, dopodichè il mercante doveva pagare al tessitore il compenso stabilito dalle tariffe fissate dalla corporazione, detraendo il costo della riparazione di eventuali difetti di fabbricazione. È possibile però che gli artigiani ricevessero prestiti o degli anticipi all’inizio e nel corso della lavorazione, come avveniva in altri centri, e che il saldo al banchetto fosse solo parziale. Dopo aver superato l’esame del banchetto, il tessuto tornava nella bottega del mercante per essere rammendato e quindi sottoposto ad una serie di operazioni di rifinitura: dalla cimatura, eseguita con delle grandi forbici dalle lame arrotondate che ne spianavano e pareggiavano la superficie, alla garzatura, che aveva lo scopo di sollevare la peluria con cardi naturali o in ferro, alla follatura, con la quale si purgava il panno dalle impurità e lo si compattava per renderlo resistente all’usura e alle intemperie. La follatura si svolgeva in appositi impianti, i “folli”, dove il panno, posto in grandi conche di pietra colme d’acqua saponata, veniva ripetutamente battuto da grandi mazze di legno messe in movimento da una ruota idraulica. Il tessuto veniva quindi asciugato nei tiratoi, o chiodare, lunghe strutture coperte da tettoie ma aperte ai lati, nelle quali il panno veniva disteso e sottoposto a tensione per riportarlo alla lunghezza prevista dalle norme dopo il calo provocato dalla follatura. Infine i panni tornavano nelle botteghe dei mercanti per essere pressati ed infine erano pronti per essere spediti a commissionari o acquirenti. Nel bassanese, dove pure le macchine mosse da ruote idrauliche erano numerose, erano in funzione pochi folli, che invece erano più numerosi a Mussolente, al di là del confine con il Trevigiano. Per questi impianti, mossi dalle acque dei torrenti Misquile e Volon, doveva passare una quota non indifferente della produzione del lanificio urbano e non è certo un caso se su di essi si concentrarono le mire di alcuni mercanti bassanesi. Sappiamo, ad esempio, che nel 1630 Alvise Lugo acquistò da Paola di Vincenzo un follo con annessi terreni, orto, tiratoi e diritto d’acqua posto in Mussolente in contrà Vallepiana [53]. Marcantonio Salvioni e Matteo Zambelli invece prestarono denaro ai Facchinello chiedendo come garanzia l’ipoteca di un follo posto a Mussolente sull’acqua del Volon.[54]. È possibile che questi impianti fossero di piccole dimensioni e non richiedessero un flusso d’acqua particolarmente intenso, di qui la scelta di costruirli su modesti torrenti e non lungo il corso del Brenta, fiume soggetto a piene primaverili ed autunnali molto violente che potevano danneggiare o distruggere gli impianti. Nel 1574 un’inondazione recò danni così gravi ad un follo posto nel borgo di Margnan ai piedi del Castello che il suo proprietario preferì disfarsene a basso prezzo piuttosto che sostenere le ingenti spese necessarie alla riparazione[55]. La lana poteva essere tinta in filo o in pezza. Si trattava di un’operazione complessa, svolta da artigiani specializzati, che rivestiva un’ importanza fondamentale per la buona riuscita del prodotto. Gli strumenti di lavoro del tintore erano relativamente semplici: vasi per mescolare coloranti e mordenti, calderoni per riscaldare le soluzioni da applicare ai tessuti, tine nelle quali bagnare i panni e banchi e cavalletti dove filati e pezze venivano stesi per farli asciugare. Ciò che distingueva i tintori dagli altri artigiani impegnati nell’arte della lana era la loro competenza tecnica e l’esperienza maturata in anni di apprendistato e di pratica del mestiere nell’utilizzare sostanze costose e spesso di origine esotica. Nella bottega di tintoria di Giovanni Marchesano si trovavano 68 libbre e mezza di indaco, di legno tauro e di verzino, che costituivano le scorte di magazzino insieme a grandi quantità di legna da ardere[56]. Dalle poche notizie contenute negli atti notarili si ricava che i panni bassanesi, quando non erano lasciati nel colore grigio o bruno della lana naturale, venivano di preferenza tinti in colori vivaci.

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