Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nei primi decenni del Quattrocento buona parte del territorio bassanese era destinato a prato e a pascolo ed è quindi possibile che la manifattura tessile urbana abbia mosso i suoi primi passi lavorando lane locali. Ma nella seconda metà del Cinquecento i terreni della pianura erano stati quasi del tutto ridotti a coltura e si può escludere che da essi si potesse ricavare una quantità di materia prima sufficiente ad alimentare i telai cittadini. La lana doveva quindi essere importata e a Bassano ne giungeva di provenienza e qualità diversa. Nel Cinquecento e nel Seicento le pecore del Trentino, dette “tesine”, e quelle dei Sette Comuni davano un prodotto non particolarmente pregiato, tanto che a Venezia l’uso di queste lane era espressamente proibito nella fabbricazione di tessuti, ma i bassanesi dovevano acquistarne in quantità, anticipando denaro o generi alimentari ai pastori durante l’inverno per assicurarsi il prodotto della tosa[50]. Attraverso Venezia i mercanti del centro pedemontano potevano approvvigionarsi di materia prima a basso prezzo, e pari qualità, giunta via mare dalle Puglie, dal Lazio e soprattutto dai Balcani, la «lana salonicca» che compare con frequenza negli inventari delle botteghe e dei magazzini bassanesi. In genere però i notai che compilarono questi documenti non specificarono la provenienza delle lane possedute dai mercanti, ma ne registrarono solo la qualità secondo una scala che a partire dalle migliori, le gentili e fiorette, scendeva alle mezzane e quindi alle grosse[51]. Ad un livello di prezzo e di qualità ancor più basso si collocavano le lane di scarto o di recupero, come quelle ottenute dalle pecore morte di malattia o dalla raschiatura delle pelli destinate alla concia, che fornivano la «lana de calcina». Nei borghi manifatturieri posti alle pendici del Grappa nel Trevigiano è documentato per il Seicento l’uso di lana spagnola, di buona o ottima qualità, importata attraverso Venezia e utilizzata per confezionare panni bianchi, che venivano poi riportati nella capitale per essere tinti, rifiniti e probabilmente ricevevano il bollo che distingueva i prodotti del lanificio marciano. Per Bassano non v’è notizia dell’utilizzo di lana spagnola, ma nel centro pedemontano doveva giungere occasionalmente della pregiata lana padovana, materia prima che di diritto non avrebbe dovuto uscire dai confini del territorio in cui era ottenuta, perchè il suo uso era riservato esclusivamente alla locale arte tessile. Ma mercanti intraprendenti come il bassanese Giorgio Miazzi riuscivano comunque ad ottenerne illegalmente. Nel 1581 infatti il Miazzi venne accusato da un dipendente del dazio sui panni di Padova di aver organizzato il trasporto di contrabbando di sedici bisacce e due sacchi di lana padovana, per un totale di ben 780 velli, giunti in barca sino a Curtarolo per poi essere caricati su carri diretti a Bassano via Cittadella, dove la mercanzia venne temporaneamente bloccata[52]. Il lanificio bassanese quindi non si limitava alla trasformazione della materia prima locale o di quella fornita dai greggi che muovendosi tra montagna e pianura attraversavano il territorio, ma era integrato nelle estese reti di scambi che assicuravano l’approvvigionamento delle manifatture laniere delle città e dei borghi della Terraferma veneta attraverso acquisti in Italia centrale e meridionale, in Spagna e nell’entroterra balcanico. 

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