Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nel corso del Cinquecento e per buona parte del Seicento il filato di seta di qualità più elevata, il miglior orsoglio da impiegare come ordito nella tessitura di drappi di pregio, era quello prodotto nei torcitoi idraulici di Bologna[77]. Qui la trattura della seta dai bozzoli veniva eseguita da maestranze urbane ben addestrate, che lavoravano con particolare cura per ottenere un filo greggio dallo spessore eccezionalmente sottile e omogeneo. Grazie a queste caratteristiche del semilavorato, gli artigiani addetti ai torcitoi bolognesi potevano sottoporre i loro orsogli ad un grado di torsione superiore a quello raggiungibile negli impianti esistenti in Veneto. Ottenevano così un orsoglio al tempo stesso sottile, leggero e robusto, conosciuto ed apprezzato in tutta Europa per le sue qualità, e che anche a Venezia veniva utilizzato come ordito per i drappi di maggior valore. Nel settembre del 1634 i Cinque Savi alla mercanzia denunciavano che migliaia di chilogrammi di seta greggia della migliore qualità prodotta nel Veneto uscivano ogni anno dalla Repubblica per essere condotti a Bologna, dove venivano ritorti per essere quindi rivenduti come orsoglio alla bolognese. Almeno una parte di essi veniva riacquistata da mercanti veneziani per essere impiegata nella fabbricazione di tessuti di lusso nella città lagunare[78]. L’economia veneziana, sostenevano i Savi, subiva così un danno duplice, da un lato perdeva i guadagni che si potevano realizzare con la torcitura, dall’altro i tessitori della capitale risultavano svantaggiati rispetto ai concorrenti emiliani, perchè dovevano utilizzare un filato che aveva già pagato i dazi due volte, in uscita e in entrata dallo Stato. Di fronte a questa situazione i Savi si posero l’obiettivo di svincolare il setificio della capitale dalla dipendenza nei confronti coll’estero ed avviarono una politica di interventi pubblici volti a migliorare il livello qualitativo della torcitura nella Repubblica. In una prima fase accolsero le proposte di Ottavio Malpigli, che si offriva di costruire un torcitoio alla bolognese nei dintorni di Padova ed in seguito ne realizzò un secondo a Feltre[79]. L’iniziativa del Malpigli però, dopo iniziali successi, non corrispose alle attese dei magistrati e ben presto apparve chiaro che non avrebbe comunque potuto soddisfare completamente la domanda veneziana di orsoglio alla bolognese. Per giungere alla formulazione di una politica più organica e di maggior respiro in favore della torcitura della seta in Terraferma si dovette attendere il 1634. Nel settembre di quell’anno il Senato approvò una delibera che accordava ai costruttori di torcitoi alla bolognese il permesso di utilizzare tronchi di quercia, normalmente riservati all’Arsenale, la concessione gratuita delle acque necessarie per muovere il mulino e l’esenzione dalle imposte, limitata però alle tasse che gravavano sugli immobili, mentre restavano invariate le tariffe daziarie. In seguito a questa decisione si aprì una seconda fase di crescita della torcitura serica nel bassanese, dopo quella che negli anni settanta del Cinquecento aveva visto sorgere i mulini di Polo Priuli e di Antonio da Ca’ Tagliapietra. Come allora, i protagonisti furono soprattutto patrizi e cittadini veneziani che si fecero promotori della costruzione dei nuovi torcitoi idraulici. I Morosini di Cartigliano negli anni cinquanta del Seicento, prima di estinguersi lasciando eredi del loro patrimonio un ramo dei Capello, aggiunsero un torcitoio alla bolognese agli impianti già esistenti presso la loro villa lungo il Brenta[80]. Oltre alle agevolazioni destinate ai proprietari dei torcitoi alla bolognese la legge del 1634 conteneva anche il divieto di vendere all’estero il filato lavorato nei nuovi impianti. Si trattava di una norma concepita per favorire il setificio della capitale, ma che finì per disincentivare i mercanti vicentini, veronesi e bassanesi, abituati a smerciare nelle città tedesche, francesi e dei Paesi Bassi la maggior parte della loro produzione di filati, dall’adottare la nuova tecnologia. Anche se gli appaltatori dei dazi non avevano alcun interesse a far rispettare un divieto che poteva solo far diminuire le loro entrate, bisogna tener conto che la domanda veneziana di orsogli alla bolognese era decine di volte inferiore alla produzione serica della Terraferma ed era difficile che un mercante si lanciasse in costosi investimenti col rischio di non trovare compratori per i prodotti del suo impianto. Si può quindi ritenere che l’imposizione del divieto di esportare orsogli alla bolognese, pur a fronte di controlli quasi inesistenti, abbia ridotto notevolmente gli effetti delle concessioni del 1634. La crescita del setificio bassanese nel corso della prima metà del Seicento è comunque documentata dalle liste per la ripartizione della tassa dei galeotti, che nel 1646 registrano la presenza nel centro urbano di 51 tra mercanti e torcitori, che gestivano un totale di 97 piante di torcitoio[81]. La maggior parte di loro non disponeva che di uno o due piante e date le modeste dimensioni di queste macchine, si può ritenere che la maggior parte fosse azionata a mano e non da ruote idrauliche. La fonte non restituisce comunque che un quadro parziale della manifattura serica per l’area bassanese, in quanto con ogni probabilità non prende in considerazione gli impianti che si trovavano sulla sponda destra del Brenta, nel territorio vicentino. La torcitura della seta con i mulini alla bolognese entrò in una fase di rapida espansione nel corso degli anni settanta del Seicento per effetto di una nuova serie di provvedimenti adottati dalle autorità centrali e periferiche della Repubblica. Nel 1670 il Senato aboliva il divieto di esportare gli orsogli alla bolognese, ma ancora più importante per le ricadute su produzione e commercio fu la decisione presa tre anni dopo di accordare a questi prodotti l’esenzione da uno dei due dazi che si pagavano sulla seta, quello sul commercio dei filati. Si trattava di un completo rovesciamento della politica condotta sino ad allora dalle autorità veneziane: anzichè trattenere all’interno dello stato la seta lavorata alla bolognese per garantire l’approvvigionamento della manifattura della capitale, le nuove norme incentivavano la vendita all’estero degli orsogli. Diversamente da quanto era accaduto nel 1634, i mercanti ed i torcitori di Terraferma avevano un forte incentivo ad avviare la costruzione di nuovi mulini alla bolognese o a modificare gli impianti esistenti per poter godere dell’esenzione. Dopo il 1673 i torcitoi alla bolognese attivi a Bassano e nel suo territorio si moltiplicarono, in parte grazie a nuove costruzioni, ma pure in seguito ad abusi che le magistrature veneziane ed i rettori non seppero - o più probabilmente non vollero - sanzionare, dimostrandosi poco scrupolose nella verifica dei requisiti necessari per ottenere l’esenzione fiscale. Vennero infatti accolte domande di esenzione anche per mulini che, per esplicita ammissione del proprietario, erano mossi da menadori, quindi dalla forza dell’uomo, quando un impianto alla bolognese doveva necessariamente essere azionato da una ruota idraulica. La decisione di esentare dal dazio sull’esportazione gli orsogli alla bolognese costituiva una risposta allo stato di crisi in cui era caduta la manifattura serica della Terraferma in seguito allo scoppio della guerra tra la Francia del re Sole e le Province Unite nel 1672. Due anni dopo il governatore del dazio di Treviso, Pietro Cernaglia, notava che in quel periodo erano rimasti inoperosi «delle quattro parti le tre», dei molini alla bolognese ed oltre 10.000 libbre di seta raccolta in provincia erano rimaste invendute[82]. La concessione non fu un provvedimento indolore per le casse pubbliche, nel solo 1673 l’esenzione dal dazio delle 18.000 libbre di orsogli alla bolognese lavorate a Bassano causò mancati introiti fiscali per 45.692 lire, somma destinata ad aumentare rapidamente nel corso degli anni successivi con l’entrata in produzione di nuovi mulini. Di fronte a questo crollo del gettito appaltatori e governatori dei dazi, sostenuti dai rettori veneziani di Treviso, avanzarono a più riprese la richiesta di introdurre rigidi controlli sulla lavorazione e sul commercio dei filati, in modo da poter distinguere con maggior sicurezza gli orsogli alla bolognese, esenti da ogni prelievo, da quelli ordinari, detti anche alla rasera, dalle trame e dagli altri prodotti in seta, che restavano soggetti al pagamento del dazio. Ma nessuna di queste proposte trovò ascolto nella capitale, come non ebbero seguito le reiterate istanze per sottoporre anche gli orsogli alla bolognese ad una, seppur minima, contribuzione. Nonostante funzionari ed appaltatori trevigiani denunziassero che i bassanesi inviavano all’estero filati di ogni tipo facendoli passare tutti come merce privilegiata, le autorità veneziane rifiutarono sempre di tornare sui loro passi per revocare o attenuare l’esenzione concessa agli orsogli alla bolognese. 

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