Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La costruzione delle cappelle della chiesa di San Francesco continua nella prima metà del Quattrocento, con l’esecuzione nel 1449, da parte di Pietro Anzolino della cappella di San Matteo nel cimitero esterno, dietro l’abside della chiesa. Contemporaneamente i minori osservanti ottenevano di costruire tra il sagrato ed il chiostro della chiesa di San Francesco un nuovo edificio dedicato a San Bernardino, ora non più esistente. La chiesa fu costruita per volontà testamentaria di Alessandro Zaffon, capitano della scala di Primolano, che già nel 1449 disponeva fosse fabbricata una chiesa ed alcune celle per i frati minori dell’Osservanza, dei quali san Bernardino era il terzo Apostolo[150]. In quelle stesse date la fraglia dei Calzolai, che tra il 1390 ed il 1395 avevano costruito accanto ad un ospizio per trovatelli e pellegrini un edificio chiesastico dedicato alla Beata Vergine della Misericordia, commissionavano a Michele Giambono una delle più belle tavole del tardogotico del Veneto, una Madonna con il Bambino (tav.24), che si segnala per lo splendido stato di conservazione e la raffinata sensibilità pittorica e compositiva, esaltata dal restauro del 1999[151].
Come nella coeva Madonna nell’Umiltà di Jacopo Bellini ora al Louvre, Michele Giambono indulge nell’oro sparso sul manto della Vergine, caricandolo nelle parti in luce. L’incarnato diviene pastoso e la resa pittorica gonfia le pieghe del manto. Il Bambino si stringe affettuosamente al collo della madre e si tende per baciarle il volto, secondo il modello bizantino dell’Eleusa. La peculiare tipologia dell’immagine accentua il naturalismo del gruppo mariano, con una turgidità tipica del periodo successivo al soggiorno veronese ed alla decorazione ad olio su muro del Monumento Serego in Sant’Anastasia. L’affettuosa vicinanza dei due volti è ottenuta con un accentuato studio della linea, che tende ad “imbozzolare” la composizione, rivelando i debiti di Giambono nei confronti del maestro Gentile da Fabriano, con un “revival gentiliano” che caratterizza la sua pittura, come tutta la pittura veneziana della seconda metà del quinto decennio del Quattrocento. A qualche decennio prima, probabilmente in relazione all’approvazione da parte del Consiglio della Città, nel 1437, della loro Matricola[152], risalgono due tavolette raffiguranti, La confraternita dei falegnami e gli strumenti di lavoro e La confraternita dei falegnami e l’intaglio di un cassone (fig.57),

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57. Bottega di Jacobello del Fiore, La confraternita dei falegnami e gli strumenti di lavoro, L’intaglio di un cassone, tavole (post 1437). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio.
Nel 1437 il Consiglio della Città approva gli statuti della Fraglia dei falegnami. Le tavolette dovevano costituire, per la presenza di membri ritratti,  parte dell’arredo della Sala delle Adunanze.

pervenuti in museo dal Convento di Ognissanti, testimoniato in verità solo dal XVI secolo, ma forse arrivate lì dalla sede della Confraternita dei Falegnami. Le tavole costituiscono una testimonianza interessante sugli strumenti di lavoro della confraternita e più che una parte di polittico[153], per la peculiare forma, dovevano costituire parti di un cassone o di un frontale ligneo utilizzato nella sala delle adunanze. Particolarmente curata appare in una delle tavolette la ricerca fisionomica dei membri della confraternita, tali da ipotizzare che si possa trattare dei committenti stessi e di puntualizzare la loro esecuzione da parte di un artista che si forma nella bottega di Jacobello del Fiore, e che si aggiorna sul naturalismo di Giambono e di Gentile da Fabriano. Ed ancora, il 15 aprile del 1449, il Consiglio del popolo della città di Bassano deliberava per l’arcipretale di Santa Maria in Colle l’esecuzione di uno dei grandi capolavori dell’oreficeria italiana del Quattrocento, la croce processionale, allo scultore fiorentino Antonio Filarete[154](tav.26), la cui fama, come attesta l’iscrizione, che ci tramanda l’autore e la data di esecuzione[155], è legata all’esecuzione delle porte della Basilica di San Pietro, eseguite per papa Eugenio IV. La grande croce, di forma canonica, con bracci ad andamento mistilineo e cartelle poligonali alle estremità, presenta, sulla lamina di fondo una decorazione graffita e cesellata con racemi vegetali nei campi minori, il cielo stellato e la luna nella cartella centrale anteriore, il teschio di Adamo nel suppedaneo della croce, san Pietro e san Paolo sui bracci orizzontali posteriori, Dio padre e l’angelo, rispettivamente sulla facciata anteriore e posteriore. Al centro campeggia, a figura intera ed a tutto tondo, la Vergine con la melagrana con il Bambino in braccio che regge un cardellino. La triade simbolica degli Evangelisti, scolpiti ad altorilievo nelle cartelle posteriori, il leone di San Marco a sinistra, il toro di San Luca a destra, l’aquila di San Giovanni in basso, si accompagna all’angelo di San Matteo. La faccia principale del manufatto ospita, invece, la figura a tutto tondo del Cristo in croce mentre nelle cartelle laterali, sempre a bassorilievo, sono scolpite la Vergine dolente, San Giovanni Evangelista, la Maddalena, il Pellicano mistico (figg.58.59).

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58.59. Antonio Averlino detto il Filarete (Firenze 1400 ca - 1469), Croce processionale (part.). Bassano del Grappa, Arcipretale di Santa Maria in Colle (in deposito al Museo Biblioteca Archivio).
I particolari della croce evidenziano un’accentuata stilizzazione lineare ed un’espressività debitrici alla lezione di Lorenzo Ghiberti.

Il restauro del 1622, attestato dall’iscrizione, che sostituì il nodo quattrocentesco, documentato nel dipinto di Jacopo Bassano, San Valentino battezza Santa Lucilla del 1578 ca, riposizionando su di esso lo stemma quattrocentesco della città di Bassano, aveva spostato alcune formelle, ripristinate in posizione originale nel corso del restauro del 1990[156]. La tipologia della croce è esemplificata su quella della Basilica di Santa Maria dell’Impruneta eseguita da Ghiberti nel 1420; agli insegnamenti ghibertiani è ispirato anche l’uso della decorazione graffita del fondo della croce, che mescola nei soggetti suggestioni classiche, già utilizzate dal Filarete nella porta vaticana, come i santi Pietro e Paolo ed il Dio Padre, e motivi decorativi della tradizione oltremontana, quali il sole e la luna, simboli del principio femminile e maschile. Tutte le figure scolpite si segnalano per un’accentuata stilizzazione lineare ed una forte espressività dei gesti e dei volti, tipicamente gotici e fortemente influenzati dalla lezione di Lorenzo Ghiberti, il maggiore scultore ed orafo fiorentino di primo Quattrocento, con il quale il Filarete collaborò nella seconda porta del Battistero. L’esperienza romana della porta vaticana e l’impatto con l’antichità classica sembrano estranei alla croce bassanese anche se la Vergine stante e la Maddalena presentano una volumetria più espansa. Pur tuttavia la matrice espressionistica del linguaggio dell’artista emerge con prepotenza, favorita dal soggetto e dalla materia, nel piccolo Cristo in croce (fig.59), dal volto affilato ed invecchiato anzitempo. Tale accentuato espressionismo doveva incontrare un’accoglienza attenta ed entusiasta nei committenti dell’ epoca, abituati alle finezze ed alle linearità taglienti della scultura d’oltralpe, che trovavano un esempio autorevole in area nel venerato Crocifisso di Pove, di probabile esecuzione boema[157]. Non si può escludere che la singolare iconografia del sole e della luna, invertiti nella relazione con San Giovanni e la Vergine, seguendo i generi della scrittura tedesca (der Munde e die Sonne[158]), possa essere stato ispirato dalla tipologia nella croce lignea medievale più sopra descritta, forse già presente in Duomo ma non documentata. L’influenza tedesca che emerge nei soggetti, anche nella Vergine stante, in molti versi antesignana delle soluzioni della grafica di Schongauer, sembrerebbe risolvere in maniera definitiva i dubbi più volte avanzati su un acquisto di una croce già eseguita dal Filarete nel suo soggiorno veneziano, da lui stesso attestato nel 1449[159] dopo la fuga romana del 1447, in favore di una precisa committenza della comunità bassanese, cui rimanda anche il termine “confecionem”, cioè esecuzione del documento di allogazione. Sul fronte della pittura, la fase tardogotica sembra assumere, intorno alla metà del secolo caratteri stilistici fortemente padovani, influenzati dalla lezione di Mantegna. Un affresco con due figure di Mantegna è attestato da Verci[160] sopra l’altare di san Rocco della neo costruita, come si è detto più sopra, chiesa di San Bernardino, «una san Sebastiano legato alla Colonna, e San Bassano l’altra, oppure un S.Vescovo in abito episcopale tutto istoriato, e pieno di picciole figure», annotazione apparentemente di poco interesse, data la consueta vena inventiva dello storico settecentesco, se non fosse confortata dall’avallo di Lanzi[161], che, nel riconoscerne la distanza qualitativa rispetto alla tela di Dario da Treviso, collocata di fronte, quasi certamente sperimentata “de visu”, negli anni ’90 del Settecento nei suoi soggiorni bassanesi[162], ricordava quanto quest’ultima “gli ceda”. L’affresco di Mantegna, successivo al 1451, data di costruzione della chiesa, doveva essere stato eseguito dall’artista padovano negli anni a cavallo tra il lavoro della cappella Ovetari e la pala di san Zeno e poteva evidentemente aver suggerito al nostro artista le novità che si riscontrano nella tela bernardiniana, l’unica a tutt’oggi eseguita da Dario da Treviso e documento autorevole dell’affermarsi nella Marca del linguaggio mantegnesco. La tela, originariamente firmata da Dario da Treviso, raffigurante La Madonna della Misericordia con i santi Francesco e Bernardino[163](tav.27), eseguita a tempera è commissionata dal massaro della confraternita di Santa Maria della Misericordia, dipinto ai piedi della Madonna, per l’altare maggiore della chiesa. Il committente è effigiato in abiti contemporanei, con la corta veste sulle calze solate, inginocchiato davanti a San Bernardino e, secondo la consuetudine, dovrebbe portare il nome del santo. Dallo spoglio dei documenti della confraternita[164] è emersa l’esistenza in vita fino al 1471 di un certo Bernardino “murarius”, il quale dispone per testamento che gli eredi provvedano all’accensione di un lume perpetuo per il Santo Sepolcro. Che il committente possa essere identificato con lui è parzialmente confermato dall’iconografia del dipinto, la cui scelta non fu peraltro immediata e senza modifiche[165]. La scelta di raffigurare sull’altare maggiore della chiesa dedicata a San Bernardino la Madonna della Misericordia è strettamente legata all’iconografia del santo titolare della chiesa[166] e la presenza di un San Bernardino senza simbolo cristologico è da porsi in relazione con la volontà riunire in una sola persona i due santi titolari delle chiese dei minori che si contendevano lo spazio del primitivo chiostro fra loro frapposto. Il dipinto bassanese rivela l’innestarsi della lezione ancora tardogotica di Antonio Vivarini sulla cultura squarcionesca e mantegnesca padovana[167]. Costituisce un’assoluta novità alla metà del XV secolo l’unitarietà dello spazio della pala d’altare, che rappresenta la principale ricerca compositiva degli artisti attivi a Padova in quel momento e trova in un altro artista presente a Padova, Marco Zoppo, e in una Sacra Conversazione, eseguita intorno al 1454-1455, un preciso parallelo iconografico e tematico[168]. Nel nostro dipinto, la collocazione delle figure in uno spazio prospetticamente definito dal pavimento con piastrelle e chiuso lateralmente da due pilastri che costruiscono un limite dal quale i santi laterali entrano nello spazio del quadro ed incedono verso la Madonna deriva da un’idea utilizzata da Mantegna nei riquadri superiori delle Storie di san Giacomo della cappella Ovetari dipinta dopo il 1449, ma accennata anche nella pala Ovetari (1449-1450), e derivata dall’impostazione spaziale e prospettica di Donatello nell’altare del Santo, messo già in opera per il 13 giugno 1448. La chiusura in alto del dipinto con un sottile serto fogliaceo con frutta, ora malamente leggibile, sembra puntualmente derivare, per la costruzione composta, dalla cornice delle vele dei riquadri mantegneschi sopraricordati. Una certa consonanza stilistica con il dipinto firmato da Dario, la Madonna con il Bambino di Asolo, datata 1459 caratterizzata da una pittura arguta, al pari del San Giovanni Battista di Bassano, sembrerebbe portare la tela bassanese addirittura oltre il limite del sesto decennio. La firma sul dipinto bassanese costituiva peraltro una delle poche testimonianze certe dell’opera di Dario di Giovanni, «pictor vagabundus»,[169] nato nella Marca Trevigiana, probabilmente a Pordenone tra il 1420 ed il 1421, allievo, a diciannove anni, a Padova dello Squarcione tra il 1440 ed il 1446, documentato a Padova, Treviso, Conegliano, Serravalle. A fronte delle complesse testimonianze documentarie, la ricostruzione della sua attività è affidata a quattro testi pittorici, il dipinto bassanese, la già citata Madonna con il Bambino del Museo di Asolo, firmata e datata 1459, gli affreschi di casa Troyer a Serravalle di dieci anni dopo, il parato murario di facciata di casa Carpanè ora Montalban a Conegliano, oltre ai serti vegetali della sala del Consiglio di Bassano recentemente riemersi e ricollegabili al documento del 1462[170](fig.60).

palazzopretorio

60. Dario da Treviso (documentato tra il 1420/1421 ed il 1498), Parato murario scaccato con fiori stilizzati (1462?). Bassano del Grappa, Palazzo Pretorio.  
Il pittore trevigiano è più volte documentato a Bassano e nel 1462 in Palazzo Pretorio.

Esistevano tuttavia proprio nel Palazzo Pretorio altri due brani ad affresco, una Madonna con il Bambino e due Angeli ed uno Stemma (figg.61-62),

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61.62. Dario da Treviso (documentato tra il 1420/1421 ed il 1498), Madonna con il Bambino ed angeli. Stemma Erizzo. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio.
Staccato  nel 1867 dalla facciata del palazzo su via Vittorelli, l’affresco sembra potersi riferire alla presenza di Mattio Erizzo come podestà di Bassano tra il 1468 ed il 1469.

staccati dalla facciata sud del muro a destra dell’entrata su via Vittorelli nel 1867 da Giovanni Battista Gottardi, trasportati su telaio dalla restauratrice Corinna Gaggian Galdiolo nel 1910, e conservati nelle raccolte museali, resi più leggibili da un recente restauro, che ha consentito di leggere porzioni annerite di un restauro seicentesco. L’identificazione dello stemma da parte di Giamberto Petoello con quello di Mattio Erizzo, podestà di Bassano tra il 1468 e il 1469, consente di riferire l’opera ad un altro momento della decorazione quattrocentesca del palazzo. L’analisi stilistica avvicina tuttavia il nostro brano ancora all’ambito padovano della scuola di Francesco Squarcione, ai quali partecipa anche Dario da Treviso. Precede cronologicamente questo momento della decorazione del palazzo e ne è affine stilisticamente un episodio narrativo particolarmente gustoso negli spunti di moda e di ritmo, un affresco strappato dalla facciata di casa Lunardon, in un’area di colonizzazione del convento benedettino di San Fortunato, con un’Adorazione dei Magi ed un Santo[171](tav.25) dove l’elemento decorativo diviene prevalente e occulta un fondale a rocce squarcionesco. A questo momento di passaggio tra la pittura tardogotica e l’affermarsi del linguaggio rinascimentale appartiene anche il Cristo posto tra la Vergine e San Giovanni (fig.63)

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della lunetta della parete destra della chiesa di San Francesco, di caricata espressività di matrice squarcionesca padovana, avvicinabile ancora all’opera di Dario da Treviso, in una data non lontana da quel 1462, anno nel quale è ricordato all’opera nella Sala del Consiglio ancora in Palazzo Pretorio[172]. A questo brano si accosta una Madonna con il Bambino, San Bartolomeo e San Giovanni Battista[173](fig.64),

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64. Dario da Treviso (documentato tra il 1420/1421 ed il 1498), La Madonna con il Bambino, San Bartolomeo e San Giovanni Battista, affresco. Bassano del Grappa, palazzo Agostinelli, facciata.
La lunetta devozionale presenta caratteri stilistici non lontani dall’affresco di Palazzo Pretorio ora in Museo.

entro un’edicola di casa Agostinelli in via Barbieri, vicina stilisticamente alla tela di Dario dell’altare maggiore della chiesa di San Bernardino e quindi databile sempre alla fine del sesto decennio del Quattrocento. Ancora intorno a queste date si interviene nella decorazione del capitello di Santa Maria delle Grazie, dove l’immagine della Madonna tardoduecentesca viene inquadrata da un finto marcapiano sui cui bordi erano collocati due vasi in maiolica bianca e azzurra con garofani dallo stelo corto e lungo (fig.65).

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65. Artista veneto, Corteo e cornice decorativa, affresco (1470-1480). Bassano del Grappa, Chiesa di Santa Maria delle Grazie.
La decorazione tardoquattrocentesca della chiesa comprende la fascia marcapiano sulla sommità delle pareti e un corteo di astanti che si dirigono verso l’immagine miracolosa (distrutta) e una finta cornice con un vaso di garofani.

Dalle pesanti manomissioni degli intonaci di quel momento si salvano tre teste di profilo che fanno ipotizzare tre figure di astanti in atto di adorare la sacra immagine della Madonna. Lo stato di conservazione dei brani non consente apparentamenti stilistici, salvo ipotizzare, per un certo irrobustimento formale, una datazione negli anni Settanta, Ottanta del Quattrocento e far sorgere la tentazione di ricollegare quello strano ed inconsueto vaso di garofani, alla sigla, appunto del “cespo di garofano” con il quale il pittore veronese Antonio Badile II segnala la sua presenza in dipinti di impianto tardogotico aggiornati al linguaggio rinascimentale di Mantegna nell’interpretazione meno moderna di Francesco Benaglio[174]. Dopo la metà del secolo un altro importante edificio della città, la chiesa di San Giovanni Battista è oggetto di importanti modifiche. La trasformazione della chiesa trecentesca in forme rinascimentali era iniziata nel 1460 con lo spostamento dell’altare maggiore verso est dove era originariamente collocato l’altare del Corpus Domini e il conseguente allungamento della costruzione all’interno della proprietà di Giovanni Negri[175]. Il 20 gennaio del 1463 il consiglio ratificava una colletta pubblica per proseguire la rifabbrica della chiesa, che in quell’anno arriva al coperto[176]. La forma allungata sul lato sinistro della piazza, attestata dalla pianta dalpontiana della seconda metà del Cinquecento, documenta un edificio con tetto a capanna, piccolo rosone in facciata ed alte finestre lungo la piazza, in modi non dissimili dalle contemporanee chiese benedettine di Campese e di San Fortunato, fuori dalle mura della città, entrambe interessate da un intervento tardoquattrocentesco[177]. Al termine dell’ingrandimento della chiesa (fig.66),

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66. Pianta ideale e schematica di Bassano (part.), penna e inchiostro su carta, 1690-1691. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Mappe, ingr. 107.774.
La chiesa di San Giovanni Battista, ricostruita tra il 1460 ed il 1463,  documentata longitudinalmente alla piazza con archi (o un portico?) e tetto a capanna.

con la dotazione degli altari nell’ottavo decennio, segue l’allungamento verso sud del convento agostiniano a partire dal 22 agosto del 1479, e fino alla metà del decennio successivo, quando il consiglio, in data 22 dicembre 1484, destina un sussidio allo scopo[178]. In una data anteriore al 9 gennaio 1475 il muratore Cristoforo viene pagato 17 libbre per aver fissato le sculture della “pala” di Giovanni da Crema sull’altare[179], parte dell’ altorilievo in terracotta dipinta raffigurante Il Battesimo di Gesù con i profeti Davide ed Isaia ora in Museo Civico (tav.28)[180] eseguite da Giovanni da Crema, più noto come Giovanni de’ Fondulis per l’altare maggiore, il grande dossale, un metro e mezzo per tre, che costituisce oggi, con la pala Ovetari di Nicolò Pizolo e Andrea Mantegna della chiesa degli Eremitani a Padova, un unicum tipologico di altorilievo in terracotta dipinta, nato per essere collocato direttamente sull’altare, tanto da essere identificato anche nei documenti come “pala”, termine solitamente utilizzato per i polittici lignei. Il progetto iconografico vuole prefigurare nel battesimo la salvezza derivante dall’umanità della morte di cristo; i due profeti accentuano tale lettura quali annunzianti nell’antico testamento l’incarnazione del Salvatore. Davide è identificato dal turbante e dal piccolo salterio, con i fori lungo il bordo modanato ed un cartiglio da musica soprastante ove è inciso il suo nome (.A.IDE/.ROF.TA) (fig.67),

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67. Giovanni de’ Fondulis (documentato a Padova tra il 1469 ed il 1485), Battesimo di Cristo con Davide e Isaia (partt.), terracotta dipinta (1474). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio.
Le due figure dei profeti Davide e Isaia costituiscono i laterali del grande dossale per l’altare maggiore della chiesa di San Giovanni e completano il programma iconografico.

Isaia porta una sopraveste corta, riccamente decorata ai bordi con incisioni a caratteri cufici, che dovevano originariamente essere esaltate dalla stesura coloristica e probabilmente dalle rifiniture in oro che le sottolineavano. Sul bordo del polsino destro della sopraveste compare la scritta : «HISAIA» . I documenti che attestano l’esecuzione del gruppo bassanese da parte di Giovanni de Fondulis danno un volto ed uno stile ad un artista che più volte riafferma la sua origine cremasca, figlio dell’orefice Fondulino, fratello di Bartolomeo, anch’egli orefice attivo a Vicenza dal 1471[181], documentato sulla scena padovana dal 1469 al 1485[182], senza che a tutt’oggi a lui si potessero sulla base dei medesimi documenti associare opere realizzate. Gli stretti legami della pala bassanese con la cultura mantegnesca erano stati sottolineati già da von Fabriczy ed appaiono con evidenza nelle figure profetiche, ove il pacato naturalismo rimanda alle Storie di san Giacomo di Mantegna della cappella Ovetari ed alcuni particolari, come la grande barba di Isaia, traducono volumetricamente soluzioni pittoriche peculiari al grande pittore, quali la spumosità chiara delle barbe delle figure anziane. Della medesima temperie culturale partecipa il grande tabernacolo con la Madonna con il Bambino in trono tra Angeli con Dio padre (fig.68),

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68. Francesco Benaglio (Verona, 1432 ca – 1482/1492) (attr.), Madonna con il bambino in trono tra Angeli e Dio padre, affresco. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio.
Strappato da Palazzo Pretorio nel 1867, l’affresco evidenzia particolari mantegneschi dalla Camera degli Sposi di Mantova ed è riferibile ad uno stretto seguace veronese dell’artista padovano.

originariamente affrescato nella Sala del Consiglio in Palazzo Pretorio, strappato nel 1867 e trasportato in Museo. La Madonna, dall’ovale sferico, seduta su un tappeto davanti la balaustra ad oculi aperti conclusa da un architrave con un cordolo a squame e un coronamento a triglifi, regge tra le braccia un Bambino Gesù ritto ed è circondata da angeli in volo. Il gruppo mariano, parafrasi indurita, in controparte, della pala di San Zeno di Mantegna è collocato davanti ad un parato murario trasposto dall’episodio della Corte riunita della parete destra della Camera degli Sposi di Mantova. Le colonne con un decoro a stuoia intrecciata nel plinto con due rocchetti a foglie d’acanto fortemente naturalistiche separate da un nodo rastremato e stretto da una fascia ancora a stuoia intrecciata richiama modelli lombardi, in uso ancora in un ambito veronese. I modelli figurativi utilizzati appaiono estremamente tangenti con quel 1472 nel quale compare un pagamento «per comprar oro per depenzar nostra dona in lo consegio»[183], cioè foglia d’oro per un affresco con una Madonna nella sala del Consiglio. Il modello ispiratore è stato recentemente visto da Agosti anche nell’arazzo con l’Annunciazione dell’Art Institute di Chicago, su disegno di Mantegna e con la tela con San Bernardino da Siena ed angeli, della Pinacoteca di Brera, datata 1469 e riferita a Mantegna e aiuti[184], opere che tuttavia documentano solo la diffusione di un motivo. Nell’affresco bassanese, infatti, la contemporanea presenza dei triglifi sopra la balaustra, assenti nelle altre opere, degli angeli in volo e dei rocchetti a nastri intrecciati – che compare nella corona con tralci del soffitto - rivelano che l’ispirazione viene direttamente dalla Camera degli Sposi. L’esecuzione della “Camera Picta” mantegnesca dei Gonzaga avvenne in anni anteriori al 1474, con una data di inizio che la critica colloca in relazione con il 1465 graffito sullo sguancio di una finestra. L’episodio che ispira la quinta marmorea dello sfondo dell’affresco bassanese era già eseguito nel 1470[185]; la data del 1472 del documento bassanese può riferirsi all’affresco mariano della sala del Consiglio esclusivamente se vediamo all’opera uno stretto collaboratore di Mantegna, che avesse accesso ai suoi disegni. In quest’ottica i nomi di Francesco Benaglio fatto da Ragghianti e di Nicolò da Verona avanzato da Venturi[186]si adatterebbero meglio sia per motivi stilistici che in relazione alle vicende biografiche e lavorative dei due artisti. Ma è con Francesco Benaglio che i riferimenti stilistici si fanno più serrati e le caratteristiche disegnative più stringenti, nell’ovale pierfrancescano del volto, caratteristica delle sue Madonne, negli erculei bimbi tutti di matrice mantegnesca, nel Dio Padre, il cui volto è fratello del San Girolamo della National Gallery di Washington[187], ancora debitore alle durezze tardogotiche di Squarcione, nei fondi blu dei cieli solcati dai caratteristici cirri allungati e paralleli gli uni agli altri, in alcuni particolari esecutivi quale la mano della Vergine che regge le gambe del Bambino, riproposta ancora nel dipinto americano, e, non ultima, nell’impostazione dei suoi soggetti, secondo l’insegnamento mantegnesco, entro cornici dipinte, impostate secondo una corretta e ricercata prospettiva. L’attestazione documentaria sulla sua attività di frescante, recentemente confermata dal riferimento a lui del grande altare Cartolari Nichesola del Duomo di Verona[188], conferma l’ipotesi della presenza del veronese nel cantiere di Palazzo Pretorio.  

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