Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nell’estate, la bella stagione e la speranza che la guerra in Italia sarebbe finita entro l’autunno avevano portato molti giovani sulle montagne che contornano la Valsugana. I contingenti delle formazioni partigiane erano aumentati in modo caotico: c’erano i primi organizzatori, alcuni ex prigionieri alleati fuggiti dalla prigionia dopo l’8 settembre, qualche disertore austriaco o tedesco, ma soprattutto erano sempre più numerosi i giovani che volevano sfuggire ai bandi di leva del maresciallo Graziani (sempre più minacciosi anche per le famiglie dei chiamati), ma non sempre avevano volontà di combattere. Mancavano armi per tutti, sempre più complesso diventava l’approvvigionamento, e non si poteva far pesare tutto sui pastori e sui malgari che si trovavano sui monti. La speranza della fine della guerra aveva diminuito anche la prudenza, e i contatti tra i paesi del fondo valle e i partigiani sui monti diventavano più frequenti, e con essi anche la facilità che spie o collaborazionisti venissero a conoscenza delle localizzazioni e del numero delle bande. In città la sensazione più diffusa era la paura, insieme all’ostilità crescente verso i tedeschi che avevano provocato ulteriore impoverimento e continuavano a comportarsi da padroni: la Valsugana era percorribile solo con molte cautele e prudenze, e con sempre più massicci e costosi apparati difensivi, e il territorio circostante era stato definito da Pavolini come «zona infestata dai partigiani», in cui sospendere le licenze ai componenti delle forze della Rsi, soprattutto per la loro sicurezza. Era chiaro che l’avvicinarsi del fronte da Sud avrebbe provocato pesanti azioni di forza nei confronti delle formazioni partigiane, che sul Grappa erano aumentate a dismisura tra luglio e agosto, tanto da convincere diversi comandanti di rimandare ai luoghi di origine, pur consapevoli dei rischi mortali, i giovani che continuavano a presentarsi in montagna. Un primo rastrellamento agli inizi di settembre aveva sconquassato le formazioni dell’altopiano di Asiago: più a est, anche le formazioni del Cansiglio erano state disperse da un’azione di rastrellamento; il Grappa sarebbe stato l’ultima tappa, la definitiva stretta delle forbici nazifasciste sulla Resistenza veneta. Ma qui si giocò quello che il Massiccio significava per i giovani soldati e ufficiali nativi di quei luoghi: sul Grappa e per difendere le case e le proprietà, i loro padri – proprio i loro padri, non si trattava di una figura retorica – avevano combattuto ed erano morti. Il Grappa, il “monte sacro” significava per molti la Patria, era l’altro nome, quello vero, della Patria, che il fascismo aveva usato e stravolto, era per tutti comunque il simbolo del riscatto italiano di fronte al nemico tedesco: il monumento del gen. Giardino, di fronte all’imbocco della Valsugana, stava lì a dimostrarlo. Non si poteva lasciare il Grappa ai tedeschi senza sentirsi frustrati e in qualche modo traditori delle proprie memorie e delle proprie radici (fig.4).

4Processoadunpartigiano

4. Processo ad un partigiano. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Testimonianza di un processo sommario, all’aperto.

Il Massiccio però, oltre ad avere poca vegetazione e pochissima acqua, era facilmente circondabile e percorso da molte strade carrabili. Non era una zona dove si potesse costruire una “libera repubblica”, e appariva difficilmente difendibile senza il controllo del circondario. Per questo diversi comandanti delle formazioni partigiane che vi si trovavano – la “Matteotti” di Angelo Pasini e Livio Morello a nord-est, tra Fontanasecca e la stretta di Quero, l’“Italia libera dell’Archeson” del maggiore Edoardo Pierotti tra il Monfenera e Carpen, l’ “Italia libera di Campo Croce” di Emilio Crestani e Ludovico Todesco a sud-ovest intorno a Campo Croce a al Col Serai di Borso del Grappa, il battaglione “Garibaldi Montegrappa” di Ernelio Faoro e “Leonessa” a ovest sopra Cismon - si erano detti contrari a una difesa rigida del massiccio[21], strategia in evidente contrasto con quella della guerriglia, che colpisce e non si fa trovare. Ma le insistenze degli ufficiali alleati, da poco paracadutati sul Grappa con diverse missioni (alcune delle quali destinate ad altre zone e a collegare altre formazioni), e la speranza di avere copiosi rifornimenti di armi anche pesanti, di esplosivo e munizioni senza limite, promesse anche da un’altra missione, l’italiana “Margot Hollis” diretta da Pietro Ferraro[22], portarono alla tragica decisione di affrontare il nemico ed eventualmente di arroccarsi sulla Cima Grappa. Gli ufficiali alleati – soprattutto il capitano Paul Newton Brietsche della missione guidata da Harold W. Tilman – in una riunione con tutti i comandanti avevano giudicato con molta severità l’inefficienza e lo scarso spirito combattivo delle formazioni, deriso il persistente timore di un rastrellamento, chiesto prove di combattività e audacia per comunicarle ai comandi alleati e favorire così l’invio di aiuti[23]. Pare che Brietsche avesse detto che bisognava “fare del Grappa una seconda Verdun”: certo il tempo del combattimento fu minore, ma l’asprezza degli scontri e la strage dei partigiani non ebbero niente da invidiare alla “prima” Verdun. Le formazioni, di diversa coloritura politica – socialiste, popolari, azioniste, comuniste – comprendevano in tutto circa un migliaio di uomini armati (poco e male)[24]. Fino a quel momento, agendo ognuna nel proprio settore nei versanti del Piave e del Brenta non avevano avuto necessità di un comando unico, che si rivelava indispensabile nel momento in cui l’azione di arroccamento sulla cima e la conseguente difesa della zona dovevano essere coordinate tra tutte le formazioni: si fatica comunque a comprendere come avrebbe potuto agire, in quelle condizioni, un comando unico per formazioni così lontane e non facilmente raggiungibili; al comando unico comunque si arrivò, poco dopo la metà di settembre. Non potendo (o volendo) designare uno dei comandanti presenti, venne nominato Paride Brunetti, che comandava allora la brigata “Gramsci” sulle Vette Feltrine. Brunetti non fece in tempo ad arrivare sul Grappa, e così nel momento critico il comando venne esercitato da Brietsche e Pasini[25]. Dunque i tedeschi dovevano completare i successi ottenuti contro i partigiani sull’altopiano di Asiago e sul Cansiglio con la ripulitura del Massiccio del Grappa dalle bande: così non solo la Valsugana, ma anche la strada da Quero e Feltre per il nord, più scomoda ma altrettanto indispensabile, sarebbe stata liberata. Gli apprestamenti tedeschi, dopo le esperienze recenti, non dovevano essere difficili; l’azione di spionaggio, contro il quale non era stata fatta abbastanza attenzione da parte delle formazioni partigiane - che si sentivano forse troppo sicure, tanto da concedersi molti contatti con il fondovalle - aveva permesso ai tedeschi di conoscere con una certa precisione la dislocazione delle forze in campo e il loro numero. Lo scontro sul Massiccio sarebbe stato certo vincente per i nazifascisti, l’unico problema era semmai impedire che qualche partigiano uscisse vivo dall’accerchiamento. Le voci che continuavano ad arrivare, senza che ne seguisse niente, su un rastrellamento, avevano col passare dei giorni provocato un allentamento della vigilanza. Verso il 18, si notò un aumento delle forze fasciste in alcuni paesi e, segnale più preoccupante, si seppe che era stato dato l’ordine ai fornai di produrre una grande quantità di pane. All’operazione di rastrellamento, denominata “Piave”, parteciparono i tedeschi del II battaglione “SS-Polizei Bozen”, al comando del col. Alois Menschik; alcune unità del reggimento “SS-Polizei Alpenvorland”; l’Ost-Bataillon 263, composto anche di gruppi di disertori russi e ucraini, costituiti nelle zone occupate dai tedeschi nell’Europa Orientale, specializzati nella repressione delle forze partigiane, comandato dal cap. Fritz Burschmeyer; alcune centinaia di uomini del Luftwaffen-Sicherungs-Regiment “Italien” (l’unità dell’aviazione che per l’occasione era stata completata anche da soldati detenuti in carcere mandati a “riabilitarsi” combattendo contro i partigiani: fu questa formazione, secondo i documenti tedeschi, quella che spezzò la resistenza sul Massiccio); gruppi di Alarmeinheiten del comando della Marina tedesca (cioè della Wermacht, specialmente adibiti a repressione per situazioni che si presentassero all’improvviso); il Kommando Andorfer, della Sipo di Verona, comandato dall’SS-Obersturmführer Herbert Andorfer, che si era addestrato alla repressione in Serbia e si era fatto notare anche in rastrellamenti in Liguria: in tutto, dovrebbe trattarsi di circa 5.000 uomini[26]. A queste forze naziste, preponderanti per numero e armamento, vanno aggiunti i 600 uomini del 63° Battaglione “M” della divisione “Tagliamento” del col. Merico Zuccari; qualche centinaio di fascisti della 22ª Brigata nera di Vicenza “Faggion” di Innocenzo Passuello (la cui azione fu lodata da Alois Menschik): diverse centinaia di uomini di varie formazioni della Gnr, di altre Brigate nere, di collaboratori italiani delle forze antiaeree della Flak, la “squadra azzurra” comandata da Mario Lulli, dell’Aeronautica militare italiana di stanza a Bassano: complessivamente, la cifra degli italiani doveva aggirarsi intorno a 2.500-3.000 uomini[27]. Tutti i rastrellatori dipendevano da Karl Brunner, SS-und Polizeiführer di Bolzano; i comandi dei vari settori erano tenuti da Menschik, Andorfer, Buschmeyer e dal col. Otto Zimmermann. Il rastrellamento iniziò il 20 settembre da nord est, da Seren del Grappa, Le Selve, Fener, sul Monfenera, cioè dalla valle del Piave, il 21 da Cavaso del Tomba, Possagno, Semonzo, Crespano, Solagna, San Nazario, Cismon, il settore del Brenta. Tutte le strade di accesso al Massiccio furono bloccate e presidiate da fascisti delle Brigate nere; nessuno poteva più uscirne, neppure i malgari o i contadini che vi si trovavano per i loro lavori. Il lungo cannoneggiamento iniziale, che ebbe carattere soprattutto terroristico, diede la misura delle armi in campo, non solo della potenza numerica del nemico: cannoni, mitragliatrici pesanti, lanciafiamme, munizioni senza limite, carri armati e autoblindo contro qualche mitragliatrice, fucili e bombe a mano, e munizioni ridottissime. Che il Grappa fosse diventato una trappola fu presto chiaro; ma anche i comandanti – come Todesco e Pasini – che si erano dichiarati contrari alla difesa rigida combatterono coi loro reparti quanto fu possibile, ad armi del tutto impari. I sei giorni indicati come durata del rastrellamento furono impiegati per la maggior parte nella spietata repressione di ogni forma di vita esistente sul Massiccio: famiglie intere di innocenti pastori trovarono la morte nelle abitazioni distrutte dal fuoco o furono uccisi come sospetti partigiani. Quando Pasini lanciò l’ordine del “si salvi chi può”, che in quelle condizioni di combattimento non poteva certo essere tacciato di viltà, le formazioni erano ormai scompaginate[28]. La situazione peggiore era quella dei gruppi che, in obbedienza agli ordini, avevano cercato di raggiungere il comando sulla Cima Grappa, tenuto dai molti carabinieri reali che erano passati nelle file partigiane. Diverse decine di essi, infatti - per fedeltà al giuramento fatto al re e per crescente ostilità all’inquadramento dell’Arma, deciso da Mussolini, nella Guardia nazionale repubblicana, talvolta come scelta dopo la cattura da parte dei partigiani[29] - a partire dalla primavera e in modo crescente durante l’estate, si erano fatti disarmare, non si erano opposti agli attacchi dei partigiani, molti infine avevano disertato, passando ai partigiani, come il gruppo comandato dal ten. Luigi Giarnieri, accasermato presso la villa Volpi di Maser, salito sul Massiccio in agosto: sul Grappa, facevano parte della compagnia comando dislocata sulla Cima[30]; ancora un simbolo, tenere il rifugio su cui era stata innalzata la bandiera della libertà. Solo qualche decina di uomini riuscì, dopo giorni di sete e fame e terrore, a filtrare nelle valli circostanti. Difficile appare ancora definire correttamente il numero dei caduti, spesso sepolti insieme, a volte sconosciuti: circa 200 caddero in combattimento o negli scontri o furono uccisi subito dopo la cattura, e si trattò talvolta anche di civili inermi; circa 400 uomini furono catturati disarmati e deportati in Germania. Ma a questa conta vanno aggiunte le decine di uomini che furono brutalmente uccisi nei giorni seguenti la fine dell’azione “Piave”. Iniziò infatti, alla fine dei combattimenti, una spietata caccia all’uomo in tutti i paesi del fondo valle, e iniziarono le rappresaglie. Borso del Grappa venne data alle fiamme, in ogni paese ci furono vittime: sette giovani vennero fucilati a Cason di Meda, sette (quattro erano carabinieri) alla Gherla; due comandanti dell’“Italia libera dell’Archeson”, Leo Menegazzo e Gino Ceccato vennero impiccati alla presenza dei loro genitori, davanti alle loro case date alle fiamme, a Possagno e Onè di Fonte; sedici furono fucilati a Carpanè (tra essi il ten. Valle e sua moglie, incinta, che lo aveva raggiunto da poco in montagna); a Crespano venne impiccato, dopo essere stato torturato, il ten. Giarnieri. L’alta valle del Piave a est, la Valsugana a sudovest furono dunque percosse da una serie di uccisioni e di rappresaglie in funzione soprattutto terroristica. A Bassano si consumò l’atto finale, che doveva essere di simbolo e di ammonimento per il futuro: tra il 23 e il 24 settembre alla caserma “Reatto” furono fucilati da un plotone tedesco e da una formazione di giovani repubblichini 16 giovani, che furono buttati in una fossa comune; la sera del 26 settembre 31 giovani, alcuni stranieri, venivano impiccati sul viale da cui, lungo le mura, si vede il Grappa: uccisione densa di valenze simboliche, morte infamante, di fronte alla montagna “sacra alla patria”, di patrioti ritenuti e trattati da “banditi”, effettuata, sì, su ordine del comandante tedesco Antdorfer, ma eseguita da italiani che si erano schierati con Mussolini “per salvare l’onore e la patria”[31]. Un macabro e terribile gioco di rimandi, di appropriazioni che voleva nascondere la realtà di un asservimento crescente dei fascisti repubblicani all’alleato-nemico che più che mai dimostrava la propria forza (fig.5). 

5impiccagioni26settembre1944

5. Le impiccagioni del 26 settembre 1944 nel viale XX settembre. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Un’ immagine drammatica. Una cicatrice che rimarrà nella storia della nostra città.

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