Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il Bembo, che per primo governò Bassano per conto di Venezia, era un valoroso generale che aveva combattuto contro le truppe milanesi, e fu assegnato a tale incarico amministrativo solo per un breve periodo; le sue competenze, evidentemente, erano in quel momento più utili altrove; egli fu poi, per esempio, podestà a Padova nel 1411 e nel 1427. Agli inizi del 1405 entrò quindi in carica Andrea Zane, che fu il primo ad assumere il titolo di podestà e capitano. Queste cariche nelle iscrizioni sono indicate con le parole "Praetor ac Praefectus", ossia con due titoli da funzionari romani che indicavano, la prima il magistrato dotato di giurisdizione civile e la seconda un ufficiale con poteri militari (anche se in realtà spesso le due cose si sovrapponevano). Venezia era effettivamente ribelle all'Impero, ma a quello germanico, non alla sua idea, che continuava a vivere a Costantinopoli! La durata del mandato assegnato ai magistrati veneziani inizialmente era di un anno circa, ma dal 1450 fino alla fine della Repubblica diventò anche di 16 mesi; il Rettore in carica doveva però attendere che arrivasse il suo successore e non poteva comunque allontanarsi prima di sei giorni dalla fine del mandato, per permettere che una commissione esaminasse il suo operato e valutasse eventuali lagnanze. Gli incarichi di podestà e capitano erano assegnati dal Doge solo a membri del patriziato, ossia a uomini nati da casate che erano state riconosciute nobili, sulla base della partecipazione dei loro antenati al Maggior Consiglio dello Stato entro la fine del XIII secolo ed erano registrati nell'albo d'oro della nobiltà veneziana. In ogni città esistevano poi famiglie che vantavano titoli nobiliari, di origine spesso feudale, ma restarono escluse dall'accesso al patriziato veneziano e soltanto alcune vi poterono entrare in cambio di particolari servizi forniti allo Stato.[22] Nel vasto dominio che, a partire dagli inizi del Quattrocento, Venezia andò componendo e dovette imparare a organizzare, c'erano città maggiori, come Verona, Padova, Vicenza, a cui erano assegnati tanto un podestà (il Praetor), per l'amministrazione civile, che un capitano (il Praefectus), per la gestione delle truppe e delle fortificazioni, il camerlengo, che si occupava dell'erario, e in certi luoghi il castellano, preposto a sovrintendere fortificazioni importanti. In varie località, soprattutto nelle città dalmate, i magistrati avevano nomi diversi: c’erano provveditori, luogotententi, conti, baili …; ma a Bassano, città di secondaria importanza, l'incarico di podestà e di capitano erano assegnati ad un solo rappresentante, che doveva avere requisiti sufficienti per assolvere tutti i compiti e, ma solo dalla fine del Seicento, doveva essere all'altezza di far parte della Quarantia, l'organismo che sovrintendeva alla giustizia.[23] La nomina a rettore di Bassano non era tuttavia un incarico per magistrati anziani, ma per chi si trovava nella fase intermedia della carriera oppure all'inizio del cursus honorum. Di solito i nobili molto ricchi non aspiravano a incombenze di questo genere; essi puntavano direttamente a diventare procuratori di S. Marco, senatori, ambasciatori, cioè a quelle magistrature superiori, che consentivano di coltivare l'aspirazione di essere in futuro eletto doge. Mentre gli incarichi più elevati non erano remunerati, lo erano gli uffici minori, come quello di podestà locale; ciò consentiva alla Repubblica di assegnare un impiego a molti nobili di modeste condizioni economiche e soprattutto a quelli squattrinati e scontenti, come i barnaboti, detti così perché abitavano nel quartiere di San Barnaba, oltre il Canal Grande, dove gli affitti erano meno cari.[24] Appartenere al patriziato, a Venezia, non significava essere ricchi, ma provenire da quelle famiglie che dopo la riforma del Maggior Consiglio voluta dal doge Pietro Gradenigo nel 1297 avevano costituito l'unica classe ammessa al governo. Essa era composta da un primo gruppo di antichissime casate: dette i "Longhi" o le case vecchie, tra cui 12 famiglie erano dette Apostoliche, ed erano quelle che avevano partecipato all'elezione del primo Doge, il leggendario Paoluccio Anafesto, e altre quattro erano dette Evangeliche, perché avevano fondato nel 725 il monastero di S. Giorgio Maggiore. Un secondo gruppo era detto dei "Curti", o case nove, coloro che avevano fatto parte del Maggior Consiglio prima della Serrata del 1297 e che dalla conseguente riforma erano stati confermati. C'erano poi altri tre gruppi: le case novissime, che erano state cooptate nel patriziato per i loro meriti durante la Guerra di Chioggia, la Guerra di Candia e sul finire della Repubblica (1775). In totale erano circa 300 le casate nobiliari veneziane. I podestà bassanesi erano dunque personaggi che appartenevano a nobili famiglie veneziane, ma ne erano generalmente i membri cadetti o quelli provenienti da rami secondari. I più svolgevano questo compito come un lavoro, un impiego che derivava dal fatto stesso di essere un patrizio.[25] Ciò dava loro prestigio e qualche soddisfazione, soprattutto se i sudditi decidevano di render loro onore con iscrizioni celebrative, dedicazione di quadri e orazioni elogiative; ma sembra che non tutti apprezzassero il peso di dover restare sedici mesi lontano dalla vita brillante della capitale. Il Brentari ci ricorda lo sfogo di Bernardo Marcello, podestà e capitano di Bassano a 28 anni, tra la fine del 1583 e gli inizi del 1585, il quale nelle lettere all'amico Francesco Priuli così si lamentava: "Parmi di vivere in una rimotissima solitudine lontano dall'aspetto et da vestigii di uomini… O quanto è meglio signor Compatre la nostra vita queta et ritirata di costì, lo frequentar le piazze, attender tranquillamente a' suoi studi, ricrear l'animo con gli amici, che vestirsi la veste pubblica per spogliarsi la propria libertà, comandar ad altri per non poter servire a se stesso, star tutto il giorno su'l decider cause, terminar litigi, dichiarar articoli, regolar contratti; et quando fanno pausa gli Avvocati da una banda, senti dall'altra intuonar i Zaffi, strepitar catene, scioglier, annodar funi, serrar, disserrar carceri, con mille altre diavolerie, che taccio per non consumar l'ampolle d'inchiostro e i quinterni di carta, senza toccar la meta della conclusione; che concludo, che non sia al mondo vita più stentata di questa; et che i Reggimenti propriamente sian la Galea di noi altri Nobili, una catena a' piedi di sedici mesi…". In un'altra missiva fece dapprima le lodi del clima di Bassano, per ribadire poi: "Qui mi bisogna stare ristretto su'l mio banco, mangiare in pugno una castignola di biscotto,… I narcisi, le viole e i jacinti sono vaccari, montanari e pegorari, che puzzano mille miglia di lontano chi di castrone, chi di becco e chi di asino…; di maniera che… considerate se a ragione mi dolgo della libertà perduta, della lontananza della patria e della absentia da tanti comodi e piaceri che emergono dallo stanziarvi…".[26] Sono espressioni che, a dire il vero, sembrano ispirate soprattutto da letture petrarchesche e dall'amore per l'otium che tanto attraeva i nobili spiriti tra Rinascimento e Barocco; ma come poteva un giovanotto non augurarsi che quella naja (la tenaja, com'era chiamata la leva militare), finisse presto? Dalle parole del Marcello emerge però anche quale dovesse essere l'attività principale del podestà: risolvere le numerose liti che insorgevano tra la gente di quel tempo, rissosa e violenta molto più di adesso. Eppure il nostro Bernardo si comportò bene in qualità di rettore, tanto che sull'architrave della porta del Monte di Pietà, in Piazzotto Montevecchio, un'iscrizione ricorda che vi fece aprire un negozio pubblico di sale, in buona sostanza una rivendita per contrastare le speculazioni dei commercianti privati.  

Iscrizione del Marcello sulla porta del Palazzo Montevecchio

xxx

Un altro suo merito fu quello di far chiudere gli ambienti dove si giocava d'azzardo per evitare che i cittadini perdessero il proprio denaro. Anche allora, infatti, c'erano gli appassionati del gioco, come oggi ci sono i ludodipendenti di slot-machine e videopoker. Per commemorare questo provvedimento fu posta una targa nella loggia comunale, tolta dopo l'incendio del 1682.[27] L'incarico di capitano prevedeva inoltre l'assegnazione dell'autorità militare su un contingente di soldati, stradiotti e cappelletti , mercenari provenienti dalle terre di Dalmazia, Grecia e Albania, a cui dagli inizi del XVII secolo si aggiunsero i Bombardieri, una milizia civica composta da borghesi che imparavano a sparare con le armi da fuoco e davono vita ad ambiziose confraternite paramilitari. A Bassano il presidio militare era però molto ridotto, perché a Venezia si stimava che non potesseso giungere da quest'area eccessivi pericoli. Una sottovalutazione degli assetti geopolitici che fu duramente smentita ai tempi della guerra della Lega di Cambrai. L'orgoglio dei Bassanesi di avere un podestà con funzioni di capitano, mentre altri centri più piccoli avevano soltanto il podestà, è posto in evidenza dal fatto che nel 1604 il Maggior Consiglio inviò a Venezia una opposizione alla richiesta, avanzata dagli abitanti di Asolo, affinché il loro rettore fosse insignito pure dell'incarico di capitano.[28] Questa concessione – si affermava - avrebbe tolto al podestà bassanese il controllo sulle milizie asolane, e non era soltanto una questione di titoli; il capitano aveva infatti il comando sulle cernide, istituite a partire dal 1593, ossia le milizie composte dai campagnoli arruolati entro un territorio che travalicava i confini delle singole podesterie. Sembra però che tra i rettori bassanesi non ci siano stati personaggi di rilievo nel contesto della vita politica veneziana. Il loro compito, d'altronde, era più quello di un controllore e di un giudice che di un amministratore nel senso moderno; non era loro consuetudine prendere iniziative, e anche quando il Maggior Consiglio sollecitava qualche provvedimento, di regola agivano con cautela e lentezza. Per un magistrato che restava in carica soltanto un anno o poco più, era infatti assai facile far slittare le decisioni fino allo scadere del mandato. Al giorno d'oggi la nostra sensibilità è colpita dal fatto che il governo delle città sottoposte fosse affidato ad un ceto privilegiato per nascita, il patriziato veneziano, ma con questo sistema Venezia controllava le popolazioni di Terraferma equilibrando accentramento e decentramento, abbassando il potere delle pericolose aristocrazie locali e favorendo il rapporto diretto con la popolazione. Gli aspiranti magistrati erano tuttavia persone che venivano selezionate sul campo e dovevano prepararsi adeguatamente ai loro futuri impegni. Se la nobiltà di origine feudale privilegiava per i giovani l'educazione militare o ecclesiastica, a Venezia invece sempre più fu apprezzata la competenza giuridica e politica. Era importante conoscere varie materie, dalla grammatica alla geometria, dalla storia alla filosofia - scrisse l'anonimo autore di un Saggio sopra l'educazione della Nobiltà, pubblicato a Venezia nel 1753 -, ma soprattutto era necessario padroneggiare la retorica; occorreva, cioè, saper parlare con eloquenza e stile. Non si poteva insomma diventare doge se non si era anche un raffinato oratore, come dimostra la vicenda di Paolo Zuliani, candidato a doge nel 1413, e scartato perché non era esperto nel parlare in pubblico.[29] Inizialmente però i rettori delle città di terraferma non avevano tutti questi requisiti culturali, per cui erano coadiuvati da un vicario, ossia un esperto in giurisprudenza non necessariamente nobile né veneziano, in grado di risolvere quei casi che gli Statuti locali non contemplavano, ricorrendo al diritto romano. Per il loro servizio i podestà che venivano a Bassano dovevano essere accompagnati anche da un cancelliere, un miles (un cavaliere di professione che avrebbe comandato le sentinelle e le guardie locali) e da alcuni uomini d'arme: tre cavalieri e quattro sbirri.Tutti insieme essi dovevano adoperarsi affinchè gli Statuti cittadini fossero rispettati, a meno che non fossero in conflitto con la legislazione veneziana, e controllare che i vari ufficiali del Comune svolgessero con cura i loro compiti. Il Comune continuava a funzionare attraverso organismi che avevano lontane origini: il Maggior Consiglio, che era composto agli inizi della dominazione veneziana da 32 membri, e il Minor Consiglio (detto Banca), formato da sindaci, giudici e consoli: i funzionari che contavano maggiormente nella vita dell'ente comunale. Era con costoro che il podestà si trovava a trattare, e ogni volta che ne arrivava uno si può immaginare quali schermaglie potessero nascere tra il gruppo dei maggiorenti locali e la nuova dirigenza; ma questi aspetti raramente traspaiono dai documenti. Quanto poteva incidere il podestà e capitano nella vita cittadina? In un sistema tutto è correlato e ogni singolo elemento è condizionato dagli altri, ma l'impressione che si ricava dalla lettura degli Atti del Consiglio è che il rettore venuto da Venezia potesse, è vero, garantire la corretta applicazione delle normative e talvolta far prevalere quelle veneziane, ma poi erano soprattutto alcuni personaggi appartenenti alle famiglie più ricche e più assiduamente presenti nei consigli cittadini a orientare le scelte dell'ente comunale, spesso ridotto a discutere problemi di importanza assai limitata. Indicative, in tal senso, le delibere prese nei primi Consigli della reggenza del Bembo, il 4 agosto e il 5 settembre del 1404: la concessione a Baldisserra del Maggio della costruzione di un soppalco in legname per unire due case, il permesso a donna India di tagliare un albero piantato sul suolo pubblico che le oscurava l'abitazione, il pagamento a Caterina vedova del precone Rosso del salario che spettava a suo marito.[30] Esaminando i rapporti tra i podestà e l'attività del Comune si nota pure che nei periodi in cui lo Stato era impegnato in gravi conflitti calavano le delibere del Consiglio e soprattutto si riducevano le spese. Il popolo comunque guardava ai detentori del potere con un misto di sentimenti tra cui c'era anche l'aspettativa di una soluzione "miracolosa" in caso di eventi funesti, come pestilenze e carestie, magari attraverso una protezione celeste di cui si credette, un po' ovunque, potessero godere i governanti.  

 

Il Podestà Sante Moro e S. Rocco. Quadro votivo per la peste del 1576  

fff

Qualcuno potrebbe chiedere se i rettori veneziani governarono bene Bassano. La questione non è semplice, anche perché sul concetto di "bene pubblico" i parametri di oggi non sono quelli dei tempi di Machiavelli e Guicciardini. Come si è detto, essi erano soprattutto dei controllori del territorio e le ricerche di Francesco Vianello hanno messo in luce che tendevano a favorire l'aristocrazia locale, alla quale si appoggiavano per garantirsi il consenso del Consiglio comunale.[31] Un altro dato ci viene fornito da Alfredo Viggiano, che ha esaminato le delibere degli Auditori novi, i magistrati che avevano il compito di percorrere la Terraferma e verificare l'operato dei Rettori locali. Essi nel periodo che ci riguarda fecero a Bassano ventidue interventi contro le delibere dei podestà, un numero – egli osserva – superiore a quello fatto di ogni altra località.[32] A questi elementi si possono aggiungere le notizie raccolte dal Brentari su certi libelli e manifesti che a partire dagli anni 1486 in poi furono con maggior frequenza pubblicati contro alcuni podestà, come Andrea Foscarini, Alvise Orio, Gian Battista Morosini, Alvise Salomon e altri.[33] Queste pasquinate erano ovviamente perseguitate dall'autorità, ma i colpevoli non vennero mai trovati: segno, forse, che godevano di una certa protezione? Per molti altri governatori il Comune, o alcuni intellettuali bassanesi, procurarono invece di tessere lodi e innalzare monumenti, soprattutto dopo la seconda metà del Cinquecento; ma erano già tempi più tranquilli per lo Stato veneto e la cultura rinascimentale favoriva il gusto per le celebrazioni. E dunque…? Molto probabilmente svolsero il loro compito con correttezza, ma dobbiamo dire altresì che a sorvegliarli c'era il Consiglio dei Dieci, il severissimo tribunale creato per i nobili dopo la congiura di Baiamonte Tiepolo. Chi veniva sorpreso in fallo era punito immediatamente con estrema severità, e ciò era certamente un deterrente formidabile contro la tentazione di compiere malversazioni. Il nobiluomo a cui veniva affidato un incarico doveva svolgerlo con la più solerte dedizione e, se tentennava o tradiva, perdeva la libertà e spesso la vita. Per il resto ormai è risaputo che quello del "buon governo" della Serenissima è un mito creato dagli storici e intellettuali veneziani, una delle più riuscite operazioni di propaganda, staremmo per dire di marketing politico, i cui effetti durano ancora. Una espressione di questo è anche la decorazione della loggia di piazza di Bassano.

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)