Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Fortunata situazione, quella degli antichi cantieri bassanesi: le pietre vive necessarie alle strutture, alle finiture, all’ornamento vi sarebbero infatti giunte senza nemmeno attraversare il Brenta, trasportate in città sui carri trainati dalle boarìe, dalle operose ville poco lontane di Pove, Romano e Solagna. Le piccole cave in cui si estraevano le diverse pietre calcaree stratificate, le priàre disseminate tra i 600 e gli 850 metri di altitudine sullo sperone sud-occidentale del massiccio del Grappa, si potevano addirittura scorgere - quasi ad occhio nudo - dalla città e dalla campagna circostante[1]. Quali materiali vi si ottenevano? Ascoltiamo una guida di eccezione: «Gli ultimi e superiori strati, i quali affettano una posizione quasi orizzontale, constano di una calcarea di vario impianto e colorito, cioè Berettino, Rosso cupo, Biancon, e Incarnato, detto da’ nostri bravi scalpellini Varegno. Il primo serve mirabilmente pe’ lavori esterni delle Fabbriche, resistendo molto bene alle intemperie dell’aria, e di queste qualità di pietra si valse il nostro valente Architetto [...] Giovanni Miazzi pei lavori della nostra Chiesa di S. Giovanni. Il Rosso e l’Incarnato s’impiegano in diversi usi, ma particolarmente nei lastricati, come si vede nelle rinnovate strade e piazza di cotesta Città. Il Biancon poi [...] viene adoprato pegli Altari, e per altri interni lavori, non essendo atto per la di lui porosità a sopportare le ingiurie delle stagioni; è acconcio eziandio per la scoltura, e di questo il bravo vecchio Marinali fece alcune statue e lavori nell’Altare della B.V. del Rosario in Duomo.[2]». Prima cresciuto nel mestiere famigliare di tagliapietra, poi divenuto architetto e cultore di singolari interessi naturalistici e geologici, Antonio Gaidon così descriveva nel 1793 le pietre vive impiegate nelle fabbriche bassanesi, fornendoci tuttora, oltre ai loro nomi abituali, anche la chiave per il loro riconoscimento negli edifici sei-settecenteschi[3]. Delle nostre pietre da costruzione le antiche fonti trattatistiche descrissero sempre, assieme alle caratteristiche fisiche, anche le peculiarità cromatiche, filtrate spesso nel lessico tradizionale di mestiere, oggi quasi perduto[4]; sono questi i caratteri distintivi ancora evidenti nei materiali usati all’interno degli edifici, ma che negli elementi a lungo esposti alle intemperie riconosceremo più a fatica, attenuati o nascosti dal velo dovuto per lo più a fenomeni di rideposizione superficiale di calcite sciolta da acque di dilavamento. Ma torniamo alla magistrale descrizione di Gaidon. La denominazione di «Rosso cupo» si riferisce al noto calcare nodulare ed ammonitico, di color rosso-bruno più o meno intenso e variegato, così frequente negli edifici antichi della nostra area (specie del ‘500 e ‘600) ai cui diversi elementi garantiva durevolezza e solidità strutturale; ma che permetteva anche - per la varietà di aspetto e colorazione nei vari córsi - esiti eminentemente decorativi, surrogando con minor dispendio il ricorso a “mischi” ornamentali di lontana origine[5]. Proprio nei casi di maggior evidenza dei suoi contrasti cromatici, questa pietra sarebbe stata denominata anche - nella nostra zona e solo dagli ultimi decenni dell’Ottocento in poi - Macchia, Macchia rossa o Macchione (mación)[6]. Al contrario il termine dialettale Varégno (anche guarégno, alla fine dell’Ottocento) nasconde tuttora ostinatamente l’etimologia e il suo originario significato. Solo la sua connessione al colore “incarnato” della pietra così denominata ci permette infatti di apprenderne l’inequivocabile riferimento cromatico; dalle numerose citazioni del guarégno nelle fonti tardo-ottocentesche, si ricava però l’impressione che così si denominassero le pietre di colorazione non solo meno pronunciata ma anche più uniforme di quella del rosso ammonitico appena descritto. Nel «Biancon» è facile riconoscere l’omonimo calcare sedimentario a grana fine, compatta ed omogenea, caratterizzato dalla frattura concoide (lo spauracchio dei nostri scalpellini e scultori d’un tempo, come avvertiva Vincenzo Scamozzi[7]) e dall’uniforme colorazione chiarissima, compresa tra il bianco latteo e quello dell’osso o dell’avorio; evidenziandone l’intrinseca incapacità di resistere alle intemperie, certo attestata da una consolidata empirìa, il nostro Gaidon è perentorio nell’escluderne l’utilizzo all’esterno delle costruzioni (tav.16). Eppure moltissimi elementi lapidei esterni degli antichi edifici bassanesi ci appaiono genericamente bianchi o biancastri, anche se da vicino rivelano tenui tonalità grigiastre o di color “incarnato”, o addirittura brune: con quale materiale erano dunque eseguiti? Forti della testimonianza di Gaidon (fig.2)

2Poggiolo

2. Poggiolo, ottavo decennio del XVII secolo. Bassano del Grappa, palazzo Antonibon. Esempio di pregio dell’uso del noto calcare nodulare ed ammonitico, di color rosso-bruno.

(come del suo prezioso riferimento all’intervento del Miazzi nella chiesa di S. Giovanni), dobbiamo individuare per queste parti, di solito tuttora ben conservate, l’originario utilizzo del «Berettino»: una pietra che prende anch’essa il nome dal termine - ormai del tutto desueto - che ne identificava il colore. Questo litotipo (descritto anche nel 1778 come di color «cinerizio») era usato ancora alla fine dell’Ottocento, quando il materiale di migliore qualità e resistenza (stratificato tra il rosso ammonitico ed i córsi soprastanti del biancón) si estraeva soprattutto nelle cave dei Noselàri (soprastanti, a nord est, l’abitato di Solagna); ma già alla fine del ‘600 la «pietra viva baretìna» è citata da fonti documentarie bassanesi (fig.3).

3AndreaNardello

3. Andrea Nardello, Zamaria Raffin, Base di parasta,  1688-1689. Bassano del Grappa, chiesa parrocchiale di Santa Maria in Colle. Questo litotipo, «pietra viva baretina», descritto anche nel 1778 come di color «cinerizio»,  era usato dal Cinquecento ed  ancora alla fine dell’Ottocento.

Se il «Berettino» settecentesco, usato all’esterno, ci appare oggi - come si è detto - sempre di colore tendente al bianco, non è facile invece descrivere il colore degli elementi interni in «pietra viva baretìna» più antica, variabile in una gamma che si estende da un tono “brunastro” o rosato al bianco sporco ed alle sfumature calde del grigio[8](fig.1).

1BernardoTabacco

1. Bernardo Tabacco, Chiesa della Madonna del Patrocinio, portale (part.), 1722. Bassano del Grappa, via Matteotti. Già alla fine del ‘600 la «pietra viva baretina» è citata da fonti documentarie bassanesi.

A questo proposito, è davvero curioso il parallelismo tra il variare, nell’arco di due secoli, dell’ambito cromatico di materiali omonimi e l’evoluzione del significato verbale della loro denominazione; se a metà ‘800 il termine veneto beretìn o baretìn veniva infatti tradotto in «bigio, colore simile al cenerognolo», alle soglie del ‘400 la stessa parola sembrava identificare invece un ben diverso «colore brunastro ottenuto da mescolanze di nero, bianco e ocra»[9]. Esaurita, per quanto sommariamente, la descrizione delle “nostre” pietre vive, è necessario accennare ora a quelle che, pur provenendo da luoghi di estrazione più lontani, erano per lo più trasportate in piccole quantità, rendendo quindi economicamente sostenibile il loro uso, anche se solo ornamentale. Apriremo così uno spiraglio sul mondo dell’altaristica bassanese nel passaggio tra Seicento e Settecento, quando la sontuosità e la ricchezza cromatica delle opere - anche se con una gamma relativamente ristretta di materiali lapidei - si fondavano sul connubio tra curiosità degli effetti e padronanza degli accostamenti di colore; ne esamineremo qui soltanto un aspetto, quello dei cosiddetti rimessi, veri e propri intarsi marmorei. Nella loro esecuzione si potevano fortunatamente utilizzare i frammenti, anche di piccola dimensione, di pietre policrome di pregio, segandoli faticosamente a mano in lastre di piccolo spessore. Con queste si componevano i rimessi che, sagomati e incassati nelle sedi scavate ad intaglio nelle parti strutturali in pietra e poi accuratamente stuccati e lucidati, formavano i pannelli policromi (le macchie) di predelle, piedistalli ed antipendi, ma avrebbero talora rivestito anche le complesse superfici curve di colonne, fregi e modanature. Tra la fine del ‘600 e la metà del ‘700, alcuni materiali forèsti erano di frequente utilizzati nelle macchie dei nostri altari: erano il giallo di Verona (Torri del Benaco) o di Trento (Castione di Brentonico o Mori), il rosso di Francia (Languedoc), il cosiddetto “africano” (in realtà proveniente da Seravezza e Stazzema), il bardiglio apuano di diverse tonalità e - molto di rado - l’ambitissimo e celebrato «Mischio di Valcaregna», estratto nelle cave trentine del Baldo e del Giovo tra Mori, Castione e Brentonico[10]. Ma non mancavano le pietre multicolori di più vicina provenienza: due contratti del primo ‘700 indicano infatti espressamente il ricorso - da parte di artefici d’ambito bassanese - anche a materiali estratti nelle cave di S. Giacomo di Lusiana, da usare nelle macchie ornamentali per due manufatti poco lontani da Bassano. I documenti riguardano l’altare del Nome di Gesù della chiesa di Rosà, eseguito nel 1711 dal bassanese Guglielmo Montin, e l’altare maggiore della chiesa di Cassola, alla cui esecuzione si impegnava nel 1723 il tagliapietra Zuanne Furegon, veneziano ma abitante a Bassano; le pietre cui si riferiscono sono nominate «rosso e zallo di Lusiana» e «Rosson di Lusiana»[11]. Fortuna vuole che il primo litotipo sia direttamente riconoscibile nel manufatto ancora conservato in loco[12]; del secondo può invece ipotizzarsi l’individuazione (per macroscopica evidenza cromatica) negli elementi lapidei di color rosso-violaceo cupo, assolutamente uniforme, di alcuni altari antichi delle chiese di Santa Caterina e di San Giacomo di Lusiana, vicinissime alla sua origine geologica (tav.17). In proposito ci vengono in aiuto altre testimonianze, forniteci sia da una pubblicazione tardo-ottocentesca, sia da una raccolta vicentina di campioni di pietre colorate, anch’essa risalente alla seconda metà dell’Ottocento[13]. La prima attesta infatti l’estrazione (ancora nel 1884) a S. Giacomo di Lusiana, oltre che del citato «Giallo-rosso», anche del «Giallo di San Giacomo», descritto come un «marmo bellissimo con qualche macchia rossa»[14]; nella seconda, tra i campioni lapidei che compongono una sorta di panoramica della produzione delle cave di S. Giacomo di Lusiana nel sesto o settimo decennio dell’Ottocento, si riconoscono alcuni litotipi riconducibili senza alcun dubbio alle tre denominazioni appena citate (cioè rosso e zallo, rossón, giallo). Ma l’incrocio di queste informazioni con l’osservazione delle pietre decorative di alcuni nostri altari sembrerebbe oggi indicarci l’uso anche a Bassano - già alla fine del Seicento - delle vivaci pietre ornamentali di Lusiana, specie nell’abituale esecuzione a commesso delle macchie multicolori, composte anche ad abile simulazione di altri litotipi; in particolare Bernardo Tabacco (già vent’anni prima dell’altare eseguito a Rosà dal suo allievo Montin) ricorre talvolta nelle sue opere a commessi eseguiti probabilmente con frammenti di «rosso e zallo di Lusiana» e di «Rosson di Lusiana»[15]. Un’ultima ipotesi: anche altri esempi bassanesi di litotipi storici soprattutto decorativi (ma anche, più di rado, strutturali), estranei all’ambito delle nostre cave e non riconducibili ad altri coevi repertori ornamentali già noti, potrebbero a questo punto ascriversi alla singolare produzione delle cave antiche di S. Giacomo di Lusiana, davvero sorprendente per la varietà e la “vaghezza” cromatica dei materiali ma finora del tutto trascurata - se non addirittura ignorata - dagli studiosi del campo.

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)