Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’approvazione definitiva del Piano Regolatore suscitò le proteste di numerosi piccoli proprietari: la nuova politica di pianificazione degli usi del territorio minacciava gli interessi di quegli stessi ceti, anche non direttamente legati alla grande speculazione edilizia, che nel decennio precedente avevano potuto sfruttare ampiamente le possibilità offerte dall’assenza di un quadro normativo coerente per migliorare le proprie condizioni diventando proprietari di immobili o mettendosi in proprio. Nel corso degli anni Settanta, il problema fu affrontato in termini pragmatici dall’amministrazione, da un lato concedendo numerose licenze in deroga, dall’altro prevedendo la stesura di una variante al piano stesso intesa ad adeguarlo «ad alcune realtà maturate nell’arco di questi ultimi anni» e a consentire una maggiore duttilità nel perseguimento degli obiettivi di sviluppo cittadino nei diversi settori della residenza, degli insediamenti produttivi, delle opere pubbliche e dei servizi. Nel frattempo, nei limiti dell’applicazione del piano, il Comune continuò il programma già avviato «di acquisizioni di aree a prezzi contenuti», da destinare a zona industriale e artigianale, allo scopo di poter offrire alle piccole e medie imprese la possibilità di usufruire di terreni a basso costo, attrezzati e collegati alle principali arterie stradali[64]. Sulla necessità di rivedere il Piano Regolatore onde eliminarne le «rigidità» insisteva nel 1975 il nuovo sindaco Sergio Martinelli, nella consapevolezza di quanto la difficile «congiuntura nazionale ed internazionale» minacciasse la tenuta occupazionale della zona, determinando una situazione preoccupante «alle Smalterie, nel settore della ceramica scricchiolante», mentre «qualche cedimento» veniva «avvertito anche nel settore del legno». Come intervenire? «A livello politico del resto non è che possiamo fare molto, possiamo arrivare al massimo a garantire agevolazioni per mutui o per promuovere altri settori come l’edilizia», ma «per fortuna il tessuto produttivo della zona non è affidato alla grande industria»[65]. In poche battute, il sindaco aveva così esplicitato la propria decisa preferenza per un modello di sviluppo che poneva al centro «la piccola struttura produttiva» locale ad alta intensità di lavoro e rivolta all’esportazione, che nella situazione di forte turbolenza economica e sociale dei primi anni Settanta era riuscita a trarre vantaggio sia dalla svalutazione della lira che dall’esclusione delle piccole imprese con meno di quindici dipendenti dall’applicazione delle norme dello “Statuto dei lavoratori” (legge 300/1970), mantenendo una notevole competitività, basata soprattutto sulla compressione del costo del lavoro orario e su una maggiore flessibilità. Rispetto a pochi anni prima la situazione appariva completamente mutata, ma l’ottimismo del sindaco sarebbe presto apparso fuori luogo. Nei primi anni Settanta, gli effetti dell’instabilità economica internazionale e di un altissimo livello di conflittualità sindacale si intersecano in una successione frenetica di avvenimenti che portarono alla definitiva crisi della Smv. Alla fine del 1973 moriva Karl Hermann Westen, cui subentravano i figli Carlo e Peter. Contemporaneamente, si cominciavano ad avvertire gli effetti del rialzo del prezzo del petrolio deciso dai paesi produttori nel settembre di quello stesso anno: la stretta creditizia decisa dalla Banca d’Italia per fermare l’inflazione danneggiò in particolare l’edilizia e le aziende a essa collegate, bloccando i progetti di ristrutturazione dell’azienda. Di fronte alla difficoltà della situazione in Italia, i fratelli Westen decisero di puntare su una differenziazione degli investimenti, fondando una nuova società finanziaria destinata ad acquisire partecipazioni in altre società. Non condividendo le scelte strategiche della proprietà, buona parte del gruppo dirigente diede le dimissioni nel febbraio del 1974. Il nuovo direttore generale, Paolo Alberto Colombo, dispose immediatamente la sospensione temporanea dal lavoro di cinquecento lavoratori a Bassano, messi in cassa integrazione. A quel punto i sindacati avviarono una serie di scioperi paralizzando la produzione e chiedendo adeguamenti salariali proporzionati all’aumento del costo della vita, ma pesantissimi per l’azienda. Il consiglio di amministrazione del 22 dicembre 1975 ne decideva così la messa in liquidazione e il contemporaneo licenziamento di tutti i dipendenti, rifiutando di ricostituire il capitale sociale, completamente eroso dall’enorme passivo accumulato nel 1975 e attribuito soprattutto all’aumento del costo del lavoro[66](fig.10).

10trattativeSmalterie

10. Le trattative per le Smalterie (gennaio- maggio 1976). L’amministrazione comunale mostrò la capacita di mobilitare tutti i suoi referenti a livello governativo, dal ministro dell’Industria Carlo Donat Cattin al sen. Onorio Cengarle, e al già presidente del consiglio Mariano Rumor, in questa fotografia con il sindaco Sergio Martinelli e il cons. regionale Pietro Fabris.

La decisione dei Westen di mettere in liquidazione l’azienda va collocata nel contesto di quella che appare una fuga generalizzata dei capitali stranieri dal «rischio Italia»: paventando una completa bancarotta del paese, messo in estrema difficoltà dalla crisi petrolifera, molte altre aziende di proprietà estera chiusero i battenti in quegli stessi anni. L’impatto della chiusura dell’azienda sulla realtà bassanese fu, nell’immediato, catastrofico. L’improvviso venir meno della principale fonte di reddito per più di un migliaio di famiglie mandò in frantumi l’economia locale. L’occupazione della fabbrica, i cortei di protesta, i blocchi stradali tenevano la vita della città sospesa all’incerto destino delle “Smalterie”. I Westen furono sin da subito delegittimati come possibili interlocutori: la decisione di liquidare l’azienda fu di fatto interpretata come un tradimento delle aspettative dell’intera comunità locale, cui erano state date in precedenza ampie rassicurazioni. Fin dal gennaio 1976, si delinearono gli scenari possibili e gli attori in gioco. Coerentemente con la strategia “unitaria” perseguita negli ultimi anni, l’amministrazione comunale di fronte all’emergenza mostrò la capacità di mobilitare tutti i suoi referenti a livello governativo, dal ministro dell’Industria Carlo Donat Cattin, della corrente democristiana di sinistra, ad Antonio Bisaglia, all’epoca ministro doroteo delle Partecipazioni Statali. In effetti le cose andarono per le lunghe: la cassa integrazione arrivò solo a maggio, dopo che gli operai, rinunciando alle garanzie che tutelavano le loro liquidazioni, avevano provocato il fallimento dell’azienda per aprire la strada all’intervento pubblico della Gepi. Dopo alcuni tentativi andati a vuoto di individuare possibili acquirenti tra gli imprenditori locali, a dicembre la Zanussi accettava di rilevare lo stabilimento Smv di Bassano, grazie alla mediazione di Bisaglia e a fronte di una completa copertura dei costi di ristrutturazione da parte dello Stato. Dopo un anno di lotte, nel gennaio 1977, la Smv riapriva i cancelli, ma oltre un migliaio di lavoratori rimanevano in cassa integrazione[67]. Nel frattempo, l’amministrazione comunale aveva organizzato una nuova conferenza socio-economica comprensoriale, prevista fin dall’agosto 1975. Lo scopo della conferenza era soprattutto quello di individuare i punti di forza dell’economia locale per favorire un rapido assorbimento dei problemi occupazionali della grande impresa da parte di quei settori leggeri che apparivano in netta espansione grazie allo stimolo dato alle esportazioni dalla continua caduta del valore della lira. Dopo un primo incontro tenutosi in settembre, una seconda conferenza indetta per il 27 novembre 1976 fu interrotta per protesta dagli operai della Smv, in quella fase nuovamente mobilitati contro soluzioni che prevedevano un netto ridimensionamento dell’azienda. Ripresa nel febbraio 1977, la conferenza indicò alcune linee di azione sulle quali i rappresentanti delle amministrazioni locali, delle categorie economiche e dell’associazionismo concordavano. Dal punto di vista economico, veniva esplicitamente riconosciuta la vocazione commerciale di Bassano, favorita dalla progettata costruzione di nuovi collegamenti stradali a livello regionale, che ne avrebbero fatto il principale snodo delle comunicazioni verso l’area tedesca: il rilancio dello sviluppo economico locale sarebbe dovuto passare attraverso un potenziamento dei servizi commerciali di esportazione e di vendita per le imprese e la promozione di consorzi, associazioni e cooperative a sostegno dell’artigianato e dell’agricoltura. La strategia che l’amministrazione doveva adottare per favorire il graduale superamento della difficilissima fase legata alla crisi della Smv ne usciva chiaramente definita in favore di una serie di iniziative volte a promuovere lo sviluppo della piccola imprenditoria in settori diversi da quelli direttamente investiti dalla crisi e dalla necessità di ristrutturazione. La Smv non era in effetti la sola impresa della zona che subiva le conseguenze della generale crisi che investì l’economia italiana in quegli anni. Nel gennaio 1977 la Faacme, operante nello stesso settore dell’azienda dei Westen, chiedeva la cassa integrazione a zero ore per tutti i suoi 230 operai, e nell’aprile 1978 dichiarava il fallimento[68]. Anche in altri comparti emergevano situazioni di gravissima difficoltà: ancora nel gennaio 1977, la camiceria Carlo’s chiudeva infatti improvvisamente l’attività, e il 15 febbraio veniva dichiarata fallita e il titolare veniva posto sotto accusa per bancarotta fraudolenta. Il Comune anticipava una decina di milioni per consentire il pagamento delle liquidazioni agli oltre settanta dipendenti rimasti disoccupati, per la maggior parte donne, che dopo alcuni tentativi di individuare nuovi possibili acquirenti nel giugno 1978 restavano definitivamente senza lavoro. Di fronte alle nuove emergenze occupazionali, il sindaco prendeva una posizione netta, sottolineando che la crisi aveva «da noi avuto una espressione settoriale, colpendo il settore termo-meccanico e il settore tessile ed esigendo adeguate ristrutturazioni e innovazioni», ma insistendo nell’affermare che «il tessuto economico comprensoriale, nel quale questi fatti si inseriscono, è tuttavia buono»: l’amministrazione proponeva quindi di indirizzare tutti gli sforzi a ricostruire «rapidamente altrove i posti di lavoro che è necessario abolire», evitando ulteriori interventi di salvataggio il cui onere andasse a ricadere sull’amministrazione pubblica[69]. Nel frattempo, un qualche segnale di ripresa si notava nel settore ceramico, come emergeva in occasione della conferenza economica del settore, tenutasi nell’aprile 1978. Ma ancora nel 1980 venivano alla ribalta nuove difficoltà nel settore orafo, mentre la ristrutturazione avviata alla Smv con la costruzione di un nuovo stabilimento per la produzione di elettrodomestici andava per le lunghe: la Zanussi mise in atto negli anni successivi una politica di dismissione del patrimonio industriale che andò ben oltre la ristrutturazione inizialmente prevista, e che si concluse con la vendita ad altre aziende, tra 1983 e 1984, sia dei vecchi impianti, riconvertiti alla produzione di caldaie, che del nuovo stabilimento, costruito grazie ai finanziamenti statali[70]. L’uscita dalla situazione di emergenza occupazionale fu faticosa e avvenne per lo più attraverso l’adozione di soluzioni di ripiego a livello individuale. Le denunce da parte degli industriali della diffusa pratica del doppio lavoro tra gli operai posti in cassa integrazione appaiono da questo punto di vista un sintomo di come la situazione stesse mutando: se tre quarti dei dipendenti della Smv terminarono la loro carriera professionale come dipendenti dell’azienda, complici l’età media piuttosto avanzata e le facilitazioni al prepensionamento, ben duecentocinquanta trovarono impiego altrove e quasi un centinaio tentarono, con maggiore o minore successo, di avviare un’attività in proprio[71]

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