Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La situazione fotografata alla metà degli anni Ottanta dalla ricerca su Bassano più volte citata e coordinata dai sociologi Arnaldo Bagnasco e Carlo Trigilia era dunque il risultato delle vicende sin qui ricostruite: come lì si afferma, nel dar vita a quello che viene identificato come un “modello” «hanno giocato condizioni storiche eccezionali, e veramente straordinaria appare l’architettura complessiva di elementi congruenti che si è formata»[77]. È un merito degli autori aver segnalato la novità di quanto stava avvenendo, non solo a Bassano, ma in molti altri luoghi del Veneto, dell’Emilia-Romagna, della Toscana: quell’indagine e la ricerca “gemella” su Poggibonsi erano infatti parte di uno studio comparativo inteso a verificare l’ipotesi che lo sviluppo che si veniva verificando nelle regioni “bianche” e nelle regioni “rosse” della “Terza Italia” fosse caratterizzato da forti somiglianze. Simili erano infatti le «forme spontanee di auto-organizzazione dell’economia e della società civile», che finivano per trascinare anche la politica locale lungo percorsi fondamentalmente analoghi, a dispetto delle impostazioni ideologiche divergenti e a fronte dell’assenza di una efficace politica economica coordinata a livello nazionale[78]. Le centinaia di interviste a operai (380) e imprenditori (100), ma anche a contadini, lavoratori autonomi, impiegati pubblici e privati (200) effettuate tra 1982 e 1983 rivelavano due aspetti peculiari di quel “modello di sviluppo”, che ebbero ampia risonanza a livello giornalistico negli anni successivi. Il primo era la forte mobilità sociale, esemplificata dal «passaggio nel volgere di una generazione dalla classe degli operai o artigiani specializzati a quella di piccoli imprenditori». Il secondo era la provenienza contadina di molti dei nuovi imprenditori: «si afferma senza mezzi termini come la piccola proprietà terriera si sia traslata nella piccola proprietà industriale o artigianale»[79]. La storia che si è venuta ricostruendo nei paragrafi precedenti consente di specificare meglio i limiti e le caratteristiche di questi fenomeni. Il passaggio da operai a imprenditori riguardava in primo luogo quei lavoratori specializzati che tra gli anni Cinquanta e Settanta seppero utilizzare le competenze accumulate all’interno della grande impresa (la Smv ma anche le aziende che l’avevano affiancata nel dopoguerra) per rispondere a una domanda in espansione che questa non sapeva più soddisfare, per fornire ai settori tradizionali i macchinari e le tecnologie di cui avevano bisogno per riposizionarsi sul mercato, per dare un lavoro più o meno “informale” ad altri operai espulsi dalle grandi fabbriche, ai loro famigliari, ai giovani che lì non trovavano più quello che prima era uno sbocco naturale per una formazione che appariva inadeguata. E ancora, la trasformazione della piccola proprietà terriera in piccola proprietà industriale e artigianale divenne possibile in un contesto in cui la mancata pianificazione urbanistica consentì fino a tutti gli anni Sessanta una inedita “accumulazione di capitale”, derivante dalla trasformazione di terreni agricoli poveri in terreni fabbricabili che garantivano un valore catastale tale da farne le migliori garanzie reali possibili per ottenere i finanziamenti indispensabili per l’avvio di un’attività imprenditoriale. Negli anni Settanta e Ottanta le fabbrichette e i laboratori artigianali poterono poi essere trasferiti in aree attrezzate a spese del Comune oppure nei terreni ancora liberi dei comuni limitrofi grazie a una politica di esplicito incentivo alla piccola impresa. Il ruolo che la politica locale ebbe nel sostenere quella che gli autori della ricerca pubblicata nel 1984 definiscono «mobilitazione di mercato» si modifica quindi in maniera significativa nei decenni del dopoguerra, accompagnando lo sviluppo del distretto industriale in maniera di volta in volta diversa, più o meno consapevole, più o meno «coordinata»[80]. Si passa così dagli interventi “estemporanei” degli anni Cinquanta alla scelta politica di non vincolare un uso a volte spregiudicato delle risorse e del territorio, quindi si afferma la necessità di una “programmazione” che dal sostegno politico all’occupazione e alla grande impresa degli anni Sessanta transita rapidamente negli anni Settanta a una visione dello sviluppo tutta affidata al mercato e all’imprenditorialità diffusa, cui la politica deve limitarsi a fornire servizi e infrastrutture di supporto. I risultati di questo atteggiamento “flessibile” della politica appaiono a prima vista estremamente positivi, in particolare per quel che riguarda la formazione e il consolidamento di un tessuto produttivo sano, capace di competere sui mercati internazionali e di assorbire nel giro di pochi anni gli effetti occupazionali di una crisi come quella determinata dalla chiusura del più grande stabilimento industriale presente in città. Eppure quel modello di sviluppo presenta dei costi nascosti, che mettono in evidenza un fondamentale anacronismo nell’interpretazione proposta da Bagnasco e Trigilia, che negli anni Ottanta indicavano a ragione l’urgenza di un intervento di indirizzo più attivo da parte degli enti locali, di un “governo” dello sviluppo, senza il quale le “esternalità negative” prodotte dal laissez faire avrebbero preso il sopravvento. Il percorso storico sin qui delineato mette chiaramente in evidenza che già allora era troppo tardi. Era troppo tardi non solo per salvaguardare le risorse naturalistiche di un territorio invaso da un amalgama di residenza e insediamenti produttivi, ma anche e soprattutto per dare fiato ai progetti strategici che puntavano a fare di Bassano uno snodo di livello superiore, capace di valorizzare appieno quella posizione geografica fortunata che caratterizza la città. La vicenda della costruzione della superstrada negli anni Settanta appare emblematica. Concepita inizialmente come un’opera di valenza regionale, nuova grande strada di collegamento da Padova e da Venezia, via Bassano, verso Trento e la Germania, finì per configurarsi come più modesto allacciamento tra i centri pedemontani dell’Alto Vicentino e la Valsugana, imperniato sulla circonvallazione di Bassano. Il ridimensionamento di quelle ambizioni infrastrutturali trova origine nell’impossibilità concreta di proseguire verso sud, verso Padova da un lato e verso Venezia dall’altro, i lavori di costruzione di una infrastruttura viaria che per sua natura richiedeva spazio e terreni liberi. Già all’inizio degli anni Settanta lo spazio a sud della città risultava tutto occupato da attività a vario titolo remunerative, dietro le quali stavano interessi capaci di mobilitarsi a propria difesa rendendo di fatto impossibile individuare una soluzione condivisa. Se non vi fosse stata l’opposizione all’esproprio da parte dei coltivatori di asparagi tra Bassano e Rosà, la costruzione della superstrada avrebbe incontrato ostacoli da parte dei proprietari di case e di capannoni già costruiti o in corso di costruzione, nel mosaico dei diversi tempi di attuazione della pianificazione urbanistica da parte dei singoli Comuni. La crescita a macchia d’olio dell’insediamento aveva ormai da qualche tempo cominciato a rompere ogni distinzione fra città e campagna, innervando il territorio di una rete di strade provinciali, comunali e vicinali che attraversavano i centri storici, si interrompevano in corrispondenza dei passaggi a livello della ferrovia, si incrociavano fra loro con precedenze e semafori rallentando un traffico automobilistico che già allora appariva insostenibile. La responsabilità di tutto questo non era certo dell’amministrazione comunale bassanese, ma di una mancata capacità di coordinare l’uso del territorio a livello sovracomunale, propria di tutta l’area padana e veneta ed emersa in maniera evidente nel Bassanese sin dagli anni Sessanta, quando il tentativo di costruire un piano regolatore intercomunale mostrò tutte le difficoltà e le diffidenze che si opponevano a una soluzione che a prima vista poteva apparire non solo la più logica ma anche la più opportuna. D’altro canto, proprio il timore di favorire un esodo dell’attività edilizia e industriale verso i comuni limitrofi costituì la ragione principale della mancata approvazione del piano regolatore da parte del Comune di Bassano con dieci anni di anticipo rispetto a quando questa divenne possibile. Sta forse qui, nel ritardo con cui la città e la sua amministrazione si posero soltanto alla vigilia degli anni Settanta l’obiettivo esplicito di svolgere una funzione di coordinamento per altri Comuni, nei quali lo sviluppo della residenza e dell’industria avrebbe potuto trovare spazio per articolarsi in maniera razionale, l’occasione perduta da Bassano per diventare davvero il centro non solo funzionale ma anche organizzativo e in prospettiva amministrativo di un’area più ampia, per diventare insomma davvero una «città». Il tema del rapporto tra Bassano e i comuni limitrofi è rimasto sullo sfondo in questo saggio, che ha privilegiato le vicende dell’economia urbana rispetto al contesto locale. Eppure le considerazioni sin qui proposte indicano proprio nello studio delle dinamiche intercomunali una prospettiva di ricerca capace di offrire risposte meno provvisorie agli interrogativi che riguardano il percorso di sviluppo di un’area che sempre meno, nel corso del secondo Novecento, coincide con il comune di Bassano.

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