Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

A Pompeo Pianezzola      

Bassano del Grappa, Angarano e Nove sono nomi ben noti a chiunque si interessi alla ceramica italiana. Sono i tre nuclei produttivi dello stesso comprensorio cittadino. Il nucleo abitativo vero e proprio è Bassano del Grappa, il borgo di Angarano si trova oltre il ponte sul Brenta e Nove che è un paese confinante, a pochi chilometri dal centro della città di Bassano. Certamente la loro fama attuale non è dovuta alle “cristalline” bassanesi: una produzione forse cominciata solo nel Seicento di una qualità“corriva”[1], che non mostra alcun particolare carattere formale, anzi impoverita rispetto a quella padovana, suo modello, considerata tra le più pregiate dell‘Italia Settentrionale. Tra i frammenti ceramici graffiti rinascimentali rinvenuti in sterri urbani, ed ora esposti nelle vetrine del Museo Civico di Bassano, è facile notare la coerenza con le altre produzioni venete. I motivi decorativi incisi a punta nell’ingobbio steso su una terracotta rossastra vedono, nel XV secolo, elementi vegetali fortemente stilizzati disposti secondo un solido schema geometrico, che dalla fine del secolo si animano di figure e animali di gusto tardo gotico. Qualche pennellata di verde ramina e di giallo ferraccia ravviva la superficie; la vetrina ha talvolta un tono giallastro. Nel XVI secolo si incontra spesso anche la lavorazione “a stecca”[2] coerente con la produzione lagunare anche se stilisticamente più corsiva[3]. Alcuni cocci, rinvenuti nel 1982 nel centro cittadino, sono decorati a punta e a stecca con motivi radiali sulla fascia esterna e iscrizioni di nomi di cibi sul fondo, altri sono di ceramica “lionata” [4], con iscrizioni conventuali come il trigramma bernardiniano, la croce francescana o iniziali dei religiosi coerenti con la produzione veneziana. Sono rarissimi gli esemplari più colti figurati o con simboli d‘amore.[5] Questa produzione che verrà chiamata delle mezze maioliche o cristalline, diventata ceramiche d’uso corrente, rimarrà attiva nel comprensorio bassanese fino all’Ottocento. Ad esempio a Rivarotta, al confine tra Nove e Bassano, nel 1989, si è ritrovata un’antica struttura produttiva con fornaci in una costruzione che portava fino a poco fa l’insegna di ”Antica Fabbrica Cristallina”[6]. I cocci lì trovati sono prevalentemente di terracotta molto rossastra ingobbiata ed invetriata: prodotti veramente economici. Infatti, se non per certi aspetti materici minori, quella produzione non si distacca dalle altre ceramiche popolari dell’Italia settentrionale: qualche rapido tocco pittorico che forma un semplice motivo geometrico (stelle, girandole); floreale, frutti o un animale stilizzato. I documenti[7] ci parlano per la prima volta di una fabbrica fondata in quel luogo nel 1694 da Andrea Moretto[8]. Sarà la produzione della maiolica a far crescere l’importanza di Bassano del Grappa nel panorama ceramico italiano. Alla metà dell’Ottocento Lazari parla di un tal Simone (o Simeone) Marinoni che nel XIV secolo avrebbe fondato una bottega di maioliche sul versante meridionale dei colli bassanesi, citandone «una piastra del 1555 co’ Santi Francesco, Antonio e Bonaventura rozzamente dipinta, i cui colori e la cui vernice non riescirono bene; ed un tondo segnato dell’anno 1595 e delle sigle «S.M.» iniziali del sopraccennato maiolicaro»[9]. Opere ormai considerate disperse. Nel 1861, Baseggio scrive che Simeon Marinoni, nel desiderio di perfezionare la sua produzione, si era recato a Pesaro per studiare la tecnica della maiolica di pregio[10]. Questa notizia è riportata da tutti gli studiosi successivi[11], ma ad oggi nessun documento è stato ritrovato per confermarla. Sarà un colto collezionista inglese William Drake che, nel 1868, scrivendo la prima storia documentaria della ceramica veneziana, Notes on venetian ceramics, riserva dello spazio anche a Bassano[12]. Poco dopo, 1876, Giuseppe Marino Urbani de Gheltof, pubblica Intorno ad alcune fabbriche di maioliche e porcellane di Bassano e in Angarano[13]. Qui per la prima volta si fa cenno all’esistenza a Bassano alla metà del Seicento di una fabbrica di “latesini” [14] di proprietà di una certa famiglia Manardi e vengono citati diversi importanti documenti. Egli crede di individuare i prodotti della manifattura Manardi in eleganti maioliche che oggi sappiamo pavesi[15]. Nasce qui un errore - rafforzato da Baroni nel 1933 - in cui cadranno tutti gli storici della ceramica per più di cinquant’anni. Un altro errore sarà dovuto agli studiosi francesi dell’ultimo quarto dell’Ottocento[16] che riportano l’esistenza al Musée de Ceramique di Sèvres di due pezzi marcati «Bart. Terchi Bassano» e di un altro marcato «Antonio Terchi in Bassano» al Louvre, dichiarandoli coerenti[17]. Così[18] i Terchi vengono considerati parte della storia ceramica di Bassano del Grappa. Nel 1889, infine, Urbani de Gheltof, pubblica una lettera del 1708 indirizzata a «Rosa Mannardi di Bassan» dalla sorella Francesca Mannardi Bortoloni con cui «si accompagna a Bassano» Bartolomeo e Antonio Terchi assunti al proprio servizio di cui decanta le capacità: «tra li romani pittori di maioliche li più riputati e sufficienti per il nostro negozio»[19]. L’accostamento del nome Manardi a quello dei Terchi aveva fatto credere a Urbani de Gheltof di aver trovato la prova definitiva dell’attività dei fratelli Terchi nella bottega dei Manardi a Bassano del Grappa. Nel 1982 Elena Pelizzoni e Giovanna Zanchi dimostreranno solidamente, invece, che i Terchi non erano mai venuti in Veneto, ma avevano lavorato in un’omonima cittadina laziale: Bassano Romano[20]. Nel 1933 Costantino Baroni, colto ceramologo, dopo aver dedicato, come vedremo, un ampio saggio alla produzione novese[21], studiando l’importante nucleo dei cosiddetti «latesini dei Manardi» delle collezioni civiche di milanesi, di cui è conservatore, ne spostava in modo ben più “intuitivo” la produzione ad Angarano, il borgo bassanese oltre il ponte sul Brenta che la tradizione locale voleva fosse sede della manifattura Manardi. Baroni interpreterà la sigla «AF», che compare nella marca di molti di questi pezzi, come «Fabbriche Angarano»[22]. Questa sua (fragile) attribuzione avrà però un grandissimo successo per decenni. Oggi è ormai provato che quei pezzi sono prodotti pavesi[23]. Si deve, invece, ai recenti studi di Nadir Stringa negli archivi veneti il ritrovamento di un patrimonio documentario sulla vera storia dei Manardi, pubblicati in La famiglia Manardi e la ceramica di Bassano nel ’600 e ’700 del 1987. Stringa si era forse già accorto, che nei documenti locali non si trovava traccia delle due produzioni ceramiche di maggiore qualità da decenni fieramente considerate locali: nè i «Manardi di Angarano», nè quelli della famiglia Terchi a Bassano[24]. Come abbiamo detto, arrivarono gli studi di Elena Pelizzoni, (1982 e 1997) a dimostrare che queste erano state erroneamente credute prodotti della nostra città. Ma la considerazione storico-critica della produzione bassanese e novese ne soffrì meno di quello che si poteva temere: Bassano e Nove restano comunque tra le capitali della maiolica italiana. La prima fabbrica ceramica bassanese di cui i documenti fin qui ritrovati ci parlano in modo chiaro è quella dei Manardi nella seconda metà del XVII secolo. La tradizione li collocava ad Angarano, ma durante lavori di scavo di via Campo Marzio nel centro di Bassano (1982) sono stati rinvenuti numerosi reperti “di butto”. Le ricerche d’archivio di Stringa mirate su quel luogo ne hanno provato il legame con i Manardi. Infatti è qui che Francesco Manardi compera nel 1645 una “boccaleria” già avviata. E’ in una posizione felice: entro la cinta muraria, con mulini oltre il ponte sul Brenta per macinare terre, vernici vetrose e colori[25]. Nel 1691 la fabbrica produceva tanto «da grosso che latesini»[26]. I diversi cocci di scarto lì ritrovati, oltre alla «roba da cristallina» erano di maiolica[27]. Alcuni sono decorati con il motivo ad imitazione della ceramica di Isnik (allora chiamato “alla turchesca”) e, altri con quello di chiara ispirazione ligure “alla genovese”[28]. Questi frammenti sono ora esposti nelle vetrine del Museo della Ceramica di Bassano del Grappa. Due pezzi inediti conservati nei depositi del Musée de Céramique di Sèvres ci offrono delle informazioni straordinarie. Il primo[29] è un piatto, decorato con un leprotto in corsa tra fiori stilizzati “alla genovese,” marcato sul retro «Bassano 1620»(fig.1);

1ManifatturaviaCampoMarzio

1.Manifattura di via Campo Marzio, Bassano, Piatto (marcato e datato 1620). Sévres, Musée de la Céramique, inv. 19. Il piatto, ritrovato nei depositi del Museo, porta sul retro le tipiche pennellate a "serpentine e roncigli" visibili sui cocci di butto di via Campo Marzio, dove Francesco Manardi compera nel 1645 una “boccaleria” già avviata.

il secondo è un’alzata frammentata[30] ornata “alla turchesca” con teste alate di cherubini: un’autentica novità decorativa (fig.2).

2ManifatturaviaCampoMarzio

2. Manifattura di via Campo Marzio, Bassano. Crespina con angioletti sulla tesa, prima metà del XVII secolo. Sévres, Musée de la Céramique. I due manufatti rinvenuti nel museo francese attestano la produzione della fornace bassanese prima dei Manardi e costituiscono una produzione di pezzi alla “genovese”, alla "turchesca" e alla "faenzina", finora inedita.

Ambedue i pezzi portano sul retro le tipiche pennellate a "serpentine e roncigli" visibili sui cocci di butto di via Campo Marzio[31]. Questi pezzi testimoniano che la bottega di maioliche in quel luogo era certamente attiva già dal secondo decennio del Seicento e che produceva pezzi “alla genovese”, alla “turchesca“ e alla “faenzina”, carattere ben riconoscibile nello stampo dell‘alzata (anche se di esecuzione ordinaria)[32]. Così il documento del 1669 in cui i Manardi chiedono il privilegio per la produzione della maiolica non è contemporaneo alla fondazione della bottega di maiolica in quel luogo. In quell’anno, infatti, i tre figli di Francesco Manardi, Ottaviano, Zorzi e Sforza, titolari dell’impresa, chiedono alla Serenissima il diritto di produrre maiolica in esclusiva in tutta la Repubblica per 25 anni «per aver sfornato pezzi consimili a quelli di Faenza e Lodi così come per leggerezza come per candidezza della materia». Dichiarano di essere in grado di risollevarne la qualità tecnico-formale. In questo documento si legge, infatti, che i Manardi sono andati a «vedere da altri il lavoro, et imparata col nostro mezzo la forma di fabricar, et perfettionar il medemo, dissegnino essi ancora applicarsi alla facitura di simili materiali...»[33]. Affermano che aggiornare la produzione sia dal punto di vista materico che formale è molto costoso, perché, tra l’altro, è necessario «far venir ancora molto numero di persone da Stati esteri pratici di fabriche simili»[34]. E’ documentato che da loro lavorano molti forestieri: un Gio Batta Salmazzo[35] da Padova «dipinge alla Genovese, Faenzina, Lodesana, Turchesca», e molte «vaserie de Spicieri» a Venezia sono di sua mano, al tornio ci sono un faentino (Giacomo Poletti) e due lodigiani, Carlo Trivante ed un esperto nella composizione degli smalti. Delle quattro formule stilistiche citate quella che è più difficile riconoscere è quella “lodesana”. La ceramica del Seicento lodigiano, sembra derivare fortemente dai prototipi faentini ma non risulta ancora possibile distinguere il suo carattere formale specifico[36]. Sulla produzione Manardi abbiamo delle certezze. Al Museo Civico di Bassano a Palazzo Sturm sono esposti dei vasi da farmacia, orcioli e albarelli, decorati con festoni in monocromia di cobalto: uno di quelli dalla stesura pittorica più grossolana porta la scritta «Bassano 1671»(fig.3)[37].

3ManifatturaManardi

3. Manifattura Manardi, Bassano. Orciolo (1671). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica Giuseppe Roi. Gli scarti di fornace confermano la produzione Manardi con decori e festoni in monocromia di cobalto che si ritrovano anche su orcioli e albarelli: uno porta la scritta “Bassano 1671”.

Sono stati trovati negli scavi di via Campo Marzio frammenti di cotto abbastanza coerenti. Diversi vasi apotecari coerenti ai citati, ma in policromia, sono assegnabili agli stessi produttori (fig.3).
Purtroppo la produzione Manardi é in buona parte ancora non riconosciuta. Comunque non si possono considerare bassanesi tutti gli albarelli decorati in monocromia di cobalto a ovuli che una volta erano attribuiti genericamente alla Liguria, come si tende[38]. Inoltre dal 1676 alla fine del secolo i Manardi affittano la loro impresa a terzi, diversi nomi si susseguono a pochi anni d’intervallo: Ghirardi, Silvetti e Vergottini, Spinelli e Compostella[39]. Numerose sono le diatribe tra proprietari ed affittuari riguardanti la qualità della «robba» prodotta perchè questi ultimi non manterrebbero fede agli impegni presi fabbricando solo «robba fatta di Christallina» cioè terracotta invetriata[40]. Al giro del XVIII secolo a rappresentare i Manardi sono il reverendo don Giorgio (Zorzi) Manardi, con la zia Camilla e, in qualità di tutore delle cugine (Chiara e Francesca), il cognato Iseppo Sale. Questi tentano di risollevare la qualità della produzione, ma la manifattura è entrata in una crisi che non supererà più[41]. Nel 1704 gli eredi Manardi chiedono inutilmente proroga dei privilegi: lamentano l’estrema povertà e il mancato lucro a causa disagi della guerra in Lombardia, loro area di smercio. Nel 1710 lasciano tentare a Filippo Costa, con due soci, la rinascita dell’azienda: la fabbrica gli è affidata senza neppure redigere un inventario. Questi, nel 1731, allo scadere del contratto, lascerà, accusato dai Manardi di non aver rispettato i patti economici esigono un rimborso. Un giudice farà firmare una convenzione ai contendenti il 26 marzo 1736[42]. L’ultimo affittuario dei Manardi sarà un loro cugino, il mercante Giovanni Antonio Caffo, che entrerà nel 1731 nella fabbrica «di lettesini e grosso», in disordine e senza inventario, per lasciarla cinque anni dopo[43]. Nel 1733 le «sorelle Manardi» figlie di Odoardo, pur dichiarando l’azienda decaduta, richiedevano al Senato una proroga dall’esenzione dei dazi «che è stato già da due anni privilegio di un certo Antonibon fabricatore di simili manifature a Le Nove … e con l’utilissimo ogetto di non spedire e profondere tanto dinaro nella Romagna, nello Stato di Milano, e nell’altro di Genova, ma bensì di tratenerlo, non meno di dare impiego al popolo»[44]. Ma non troveranno ascolto. Nel 1736 il Caffo, lasciati i Manardi si mette in proprio, in fabbricati in borgo Lion, rivolgendosi anch’esso al Doge per chiedere agevolazioni daziarie per una sua fabbrica «di Maiolica non solo all’uso di Lodi, Faenza ma di Genova ancora» fondata nei borghi meridionali di Bassano, a Villaraspa[45]. Il 3 ottobre gli viene concessa l’esenzione daziaria ed apre una bottega a San Moisè a Venezia[46]. Nel 1737 tra i «fabbricatori di maioliche o siano lattesini» che usano terra estratta dal monte Ramon è citato Giovanni Antonio Caffo con fabbrica a Bassano[47]. (Nello stesso anno è registrato il passaggio di un pittore francese, Letourneau, da Caffo)[48]. Ma anche questa impresa non resisterà alla concorrenza degli Antonibon di Nove, fondata nel 1738. Nel 1752 la fabbrica Caffo risulta svanita[49]. Quell’anno, 1752, prende avvio un altro progetto ceramico nella città di Bassano: Gio Maria Salmazzo, figlio di Gio Battista, già direttore dei Manardi, chiede al Governo veneziano di poter rifondare la manifattura di maiolica a Bassano[50]. Salmazzo sfida la manifattura Antonibon. Afferma però che i pezzi novesi sono troppo fragili e non resistono al calore, ma ammette che sono più bianchi dei suoi[51]. I Cinque Savi della Mercanzia, favorevoli alla libera concorrenza, concedono l'esenzione e l’apertura di una bottega a Venezia «sull’esempio di quanto fu accordato all’Antonibon»[52]. La lotta tra Salmazzo e Antonibon è presto molto accesa: nel 1756 il bassanese lamenta che il «genio feroce» di Antonibon tenta di sottrargli maestranze; dai Cinque Savi della Mercanzia verrà deciso che gli operai di Salmazzo non potranno lavorare per altre fabbriche e viene steso un regolamento della fabbrica[53]

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