Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Se il panorama produttivo del distretto bassanese è vario e ricco di iniziative, indubbiamente dall’inizio del XVIII secolo il paese di Nove, grazie alla manifattura Antonibon, ne diventa la capitale[72]. La famiglia Antonibon è sicuramente presente a Bassano del Grappa fin dal XV secolo, ma il primo a cui viene accostata la professione ceramica è Pasqualin Antonibon che nel 1683 è documentato essere socio in un mulino «per pestar sassi e macinar colori per le pignatte»[73]. Conosciamo un accordo siglato nel 1719 da Gio Batta Antonibon e Gio Maria Moretto, per dodici anni, allo scopo di rinforzare la fabbrica di “cristalline”, già appartenente ai Moretto locata a Rivarotta, a metà strada tra Angarano e Nove, sull’acqua del Sillano. Antonibon compare in qualità di finanziatore[74]. Nove anni dopo, nel 1728, il Governo della Serenissima, promulgherà un decreto promettendo agevolazioni per incoraggiare la produzione «Terraglie fine, Porcellane ad uso di Levante e Ponente» o «miglioramenti alle maioliche»[75]. Probabilmente è cogliendo questo invito che quell'anno Giovanni Battista Antonibon si mette in gioco, lasciando il Moretto, per fondare una sua manifattura di “maioliche fini” nel centro del paese di Nove. Un documento dello stesso anno[76] parla di un lodigiano: «Domenico Maitelli, figlio di Bernardo proveniente dalla città di Lodi … lavorante nella Fabbrica di majolica di Gio Batta Antonibon»[77]. Indubbiamente l’influsso lodigiano sulla produzione novese è fortissimo. Se è infatti indubbio che, nel primo periodo, Giovanni Battista riprende forme note di solide manifatture italiane, la qualità materica della sua nuova “maiolica fina” si dimostra immediatamente ottima. A Bassano da almeno un secolo si produceva maiolica, ma certamente non di quella qualità. Alcuni lavoranti fini potevano provenire dalla manifattura di porcellane Vezzi di Venezia, chiusa nel 1727. Certamente furono assoldati anche diversi stranieri, non solo degli altri stati italiani, ma anche oltralpini, padroni di uno specifico sapere tecnico o formale: nelle carte si incontrano i nomi di un pittore tedesco Erols[78] e, come vedremo meglio, nel 1737 di un tal «Nicola Netturnò». Lo scambio era ormai osmotico: diversi artisti savonesi e lodigiani dopo aver lavorato nelle manifatture francesi tornavano in Italia. Straordinario esempio di questa cultura ceramica di nuova ampiezza è la zuppiera firmata «No:ve/G:B:A:B» del Victoria and Albert Museum, uno dei primi pezzi novesi indicati dagli studiosi e sempre citata per la sua bellezza e per la sua marca. E’ uno straordinario “pezzo unico” tradizionalmente considerato quello presentato da Gio Batta Antonibon al Senato veneziano nel 1729[79]. Si deve osservare che non incontreremo più le sue forme né a Nove né in nessun’altra manifattura italiana del XVIII secolo. Il suo ornato a festoni, mascheroni è piuttosto coerente con i modelli franco-olandesi “alla Marot”. Insomma si tratta di un pezzo sicuramente novese, ma di cultura assolutamente oltralpina[80]. Il lavoro di Antonibon avrà subito un notevole successo: già nel 1732 egli dichiara di aver portato i suoi prodotti a «finezza e vaghezza», ma ne lamenta gli alti costi necessari, chiede così esenzioni, agevolazioni e che sia vietato agli operai che abbandonano la sua manifattura di lavorare presso concorrenti per cinque anni. Infine domanda di poter aprire un negozio a Venezia. Dai Cinque Savi viene concessa l’immunità daziaria ventennale assolvendo a tutte le sue richieste. Il privilegio daziario viene protratto dal 1735 per altri 10 anni, così come verrà accordata la licenza per poter aprire un secondo negozio Venezia nel 1741[81]. Una fortissima radice lodigiana, “alla Coppellotti”, è leggibile nelle forme e nei decori della produzione di Gio Batta Antonibon[82]. E’ visibile nei piatti dalla tesa mistilinea bacellata (detti “a coste”), nelle zuppiere[83](fig.5)

5ManifatturaAntonibon

5. Manifattura Gio Batta Antonibon. Zuppiera detto “a coste” (monocromo blu). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica Giuseppe Roi. La prima produzione di Gio Batta Antonibon rivela una fortissima radice lodigiana, “alla Cappellotti”, con una nuova elasticità nel modellato, leggibile nelle forme e nei decori nei piatti e nelle zuppiere dalla tesa mistilinea bacellata (detti “a coste”).

e nelle tazze da brodo[84], ma a Nove conquista subito una nuova elasticità nel modellato. Questa felice interpretazione è ben visibile anche nei decori. I primi ornati a gran fuoco sono probabilmente quelli floreali stilizzati in monocromia blu di formula semplice[85], formule che poi si riflettono nei prodotti di altri centri coevi. Da Antonibon questi ornati acquistano un notevole respiro[86]. Un motivo decorativo degli anni trenta è quello chiamato “alla rosa” o “al cardo”[87]. La sua introduzione probabilmente è assegnabile al francese Nicolas Letournau che giunse a Nove nel gennaio 1737 restandoci brevemente[88]. Curiosamente a Nove non verrà invece messo in catalogo il motivo “alla Berain” fortunatissimo in quest’epoca, forse per la sua eccessiva complessità[89]. Invece, in questa prima fase, è sicuramente già protagonista il decoro floreale stilizzato chiamato familiarmente “tacchiolo“, e che Stringa ha ipotizzato essere il motivo “a blanser” citato nei documenti[90](fig.6).

6ManifatturaAntonibon

6. Manifattura Gio Batta Antonibon. Piatto e Zuppiera con decoro “a blanser”. Bassano del Grappa, Museo della Ceramica Giuseppe Roi. In questa prima fase, è protagonista il decoro floreale stilizzato chiamato familiarmente “tacchiolo”, e che Stringa ha ipotizzato essere il motivo “a blanser” citato nei documenti.

Alla fine del 1737 Gio Batta Antonibon muore a 53 anni senza lasciare testamento. Pasquale, il figlio, prende le redini dell’impresa restando fedele alla filosofia aziendale dimostratasi vincente: Pasquale manterrà a lungo in repertorio le formule plastiche e pittoriche del padre divenute loro tipicità, alleggerendole e accrescendone il catalogo. Pasquale dirigerà l’azienda fino al 1769. Accanto alla produzione seriale sforna bellissimi pezzi “fuori catalogo.” Nel 1861 Baseggio descrive i pezzi ancora conservati in casa Antonibon molto simili a quelli che noi consideriamo capolavori, come la lastra sottofinestra di mattonelle dipinte in monocromia blu con un paesaggio con rovine e una figura datata 1751[91](fig.7),

7ManifatturaPasqualeAntonibon

7. Manifattura Pasquale Antonibon. Lastra sottofinestra (siglata e datata 1751). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica Giuseppe Roi. Pasquale dal 1737 dirigerà l’azienda fino al 1769. Accanto alla produzione seriale sforna bellissimi pezzi “fuori catalogo”, come la lastra sottofinestra di mattonelle dipinte in monocromia blu con un paesaggio con rovine e una figura datata 1751.

o l’altra pubblicata nel 1969 da Pica.[92] A queste possiamo associare le targhe ovali decorate con vedute: la più nota è quella conservata a Ca’ Rezzonico[93] che raffigura un “Capriccio” lagunare firmata «NOVE. FRAB/ica d/el sig Gianb/attista/A:BON». Un’altra piastra incorniciata simile raffigurante la Chiesa e l’Ospedale dei Mendicanti andò all’asta nel 1982[94] e un terzo pezzo con la veduta della Piazzetta di San Marco è conservato al Musées Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles[95](tav.20). Questi tre quadri ceramici sono dipinti nella tricromia tipica della produzione Antonibon basata sul blu di cobalto, verde oliva e giallo limone[96]. Nel 1743 l’alta qualità della maiolica novese porta la Serenissima a emettere un proclama proibendo il trafugamento di disegni, stampi, modelli e materiali dalla manifattura novese. Questo proclama evidentemente non verrà rispettato se, l’anno successivo, troviamo Pasquale inviare una supplica ai Cinque Savi veneziani «per lamentare l’insana concorrenza dei fabbricatori vicini», lamentando i «dispendi gravosissimi» per «attraher dalla Città di Lodi li Dissegni, li Operarj e la Manifattura». E aggiunge: «Fu mio studio, senza risparmio di fatiche e spese, di ampliarla e migliorarla con nuove invenzioni di manifatture fatte a stampo, e ridurle a quella perfezione che allettasse le estere commissioni ed appagasse li vostri sudditi. ... Di due qualità sono le manifatture: una fatta al Torno, e questa appresa dagl’ Esteri Fabbricatori, l’altra a stampo che possono attribuire alla sola mia industriosa applicazione, e di mia sola invenzione, e forse la più desiderata dagli esteri committenti». Per questa seconda tipologia produttiva chiede una privativa decennale almeno[97]. Di quali forme sta parlando? I modelli plastici tipici di Pasquale sono le caffettiere o le zuppiere dette “alla persiana”, distaccate dal modello lodigiano, su alto piede, dalla parete fortemente baccellata con anse mistilinee, il coperchio che sale a guglia. Accanto a questi troviamo vassoi, alzate centrotavola, vasche rinfrescabottiglie o rinfrescabicchieri o piatti “a creste” dalla potenza plastico-decorativa molto accentuata. Forse comprendevano già anche i “trompe-l’oeil”, anche se normalmente vengono considerati prodotti successivi agli anni Sessanta[98]. Pasquale Antonibon lamenterà anche i furti di stampi «fatti dagli oltramonti qui capitati»[99]. Sono rari i pezzi datati, oltre al citato sottofinestra. Un grande centrotavola, che porta al centro l’iscrizione «Dalla Fabrica di Gio Batta Antonibon/ Nelle nove di Vicenza/ Anno 1755»[100], oggi è conservato al Museo Civico della Ceramica di Nove[101](fig.8).

8ManifatturaGioBattaAntonibon

8. Manifattura Gio Batta Antonibon. Centrotavola (siglato e datato 1755). Nove, Museo della Ceramica “Giuseppe Fabris”. Un grande centrotavola, con l’iscrizione «Dalla Fabrica di Gio Batta Antonibon/ Nelle nove di Vicenza/ Anno 1755» è di tale qualità, materica, artistica e documentaria da far pensare si possa trattare di un pezzo ‘da mostra’.

La sua qualità materica, artistica e documentaria fanno pensare si trattasse di un pezzo ‘da mostra.’ Vi troviamo, infatti, diversi decori: il motivo “alla frutta barocca” con la rocaille blu, i fiori recisi “alla tedesca” e le tipiche orlature con catenelle di virgole fogliate. Tipica la tavolozza a gran fuoco arricchita dal rosso “di terra di Romano”, un rosso ruggine dalla consistenza pastosa che verrà chiamato “rosso Antonibon”. Tra questi il motivo più amato è la “frutta barocca”[102] per la conchiglia rocaille su cui poggia il gruppo naturalistico di diversa ampiezza. Talvolta vi appaiono anche strumenti musicali, carte, piccoli animali o figurette[103]. I decoratori dell’Antonibon inventeranno nuovi motivi nella particolare tricromia diventata il suo timbro formale (blu, verde oliva e giallo): il più celebre e sapientemente sfruttato è un motivo all'orientale, oggi chiamato “ponticello”[104]. Un altro decoro novese di grande successo è quello a fiori naturalistici in policromia eseguita con pennellate più fini e tavolozza curata con protagoniste rose eseguite in “rosso Antonibon”[105]. I fiori animano moltissimi pezzi novesi[106] creando anche motivi di rara eleganza[107]. L’Antonibon produce anche una versione più corsiva, ad esempio nelle serie di vasi da farmacia, con un grosso boccio di rosa[108]. Bisogna sottolineare che “rose Antonibon” sono presenti sui pezzi marcati Fabris e Angarano di cui abbiamo già parlato. La manifattura Antonibon si dimostra essere certamente la scuola a cui si educano stilisticamente gli artefici attivi nelle altre manifatture venete. I modelli novesi trovavano presto facile eco in moltissime altre fabbriche in tutta l’Italia settentrionale e adriatica. La rete delle influenze tra le diverse manifatture è inestricabile: si spostano ceramisti, segreti, modelli, stampi, ricette, “cartocci” di pigmento e spolveri. Nel 1755 i Deputati alle Fabbriche veneziani invitano i fabbricanti a produrre «anche alla foggia di Marsiglia». Questa denominazione è stata sempre considerata la tavolozza a piccolo fuoco. Solo nel 1748, per la prima volta in Europa, questa era stata adottata sulla maiolica della manifattura Hannong di Strasburgo[109]. A Marsiglia, nella manifattura della Veuve Perrin si pensa che questa tecnica sia stata utilizzata dal 1750 in poi[110]. Fino ad oggi, dai documenti, pare che la prima manifattura italiana ad aver adottato la nuova tavolozza sia la Clerici di Milano nel 1756[111]. Come vedremo la nuova tecnica pittorica sulla maiolica Antonibon non avrà grande spazio. La ricerca innovativa a Nove è dedicata ad un traguardo ben più importante, come vedremo, la produzione della porcellana. Pasquale Antonibon per mantenere solida la sua azienda oltre a curare il suo prodotto, controlla severamente concorrenza e mercato. Le carte d’archivio testimoniano dei suoi continui scontri legali con i vicini per denunciare abusi o difendersi dei tentativi di corruzione dei suoi migliori artisti. Nei commenti dei giudici veneziani nel 1756 si fa riferimento all’alta reputazione che la maiolica Antonibon si è conquistata non solo nello stato veneto ma anche all’estero, specialmente ad Oriente. Ormai Nove è uno dei grandi punti di riferimento produttivi della ceramica di qualità. Il culto della porcellana doveva essere presente nell’azienda novese fin dalla fondazione[112] e alla fine degli anni quaranta Pasquale ne aveva attivato la sperimentazione. Nel novembre 1752 infatti si scrive che «da diverso tempo vedesi diversi lavoratori forestieri ... a travagliare a questa Fabrica di Maioliche del signor Pasquale Antonibon per far prove di nuove manifatture di porcellane anzi di presente è stata fabbricata una nuova fornace per quell’uso travagliando a quell’effetto nella di lui casa di Bassano de’ Sassoni e de’ Francesi per lo stabilimento d’esse nuove manifatture»[113]. In un altro foglio si dice che però le successive prove di cotture non ebbero successo e quindi i «Forestieri ... se ne partirono»[114]. Il 12 Gennaio 1753 è documentato a Nove Giovanni Sigismondo Fischer di Dresda «allievo di quella Real fabbrica» lavorare con l’aiuto di Iseppo de’ Bernardi figlio di Damiano, alla costruzione di una nuova fornace «all’uso di quelle di Sassonia». Fischer dichiara anche di aver scritto ad «amici di Dresda e di Vienna» invitandoli a raggiungerlo[115]. Nel 1753 si parla anche di un «francese che non aveva la necessaria pratica per quello cui era destinato»: alcuni pensano che possa trattarsi di Pietro Varion documentato venti anni dopo. Infatti nel 1778 (nell’incartamento riguardante la richiesta di esenzioni della Marinoni) si scrive che «Si esercitava in detta fabrica [Antonibon] per lavorante di Porcellane certo Pietro Varion», quale volontario si abdicò da essa dopo aver carpiti i segreti fatti apprendere dall’Antonibon con gravosi di lui dispendi presso la fabbrica del re di Francia, a certo Lorenzo Levantin[116]. Baseggio scriverà invece che il merito della riuscita nella produzione della porcellana sarà di un cadorino, Pietro Lorenzi, sfruttando le terre caoliniche delle cave di Tretto già sperimentate da Vezzi.[117] Nel 7 aprile 1762 Antonibon invia una supplica ai Cinque Savi chiedendo l’estensione del privilegio per la fabbricazione delle porcellana che aveva Hewelcke a Venezia. Presenta alcuni campioni di porcellana decorata che si ipotizza possano essere i tre pezzi oggi conservati al Musée National de Ceramique de Sèvres[118]. Si valutò l’azienda di ottima salute per il settore della maiolica[119] a cui vennero rinnovate le esenzioni, ma la produzione della porcellana venne considerata ancora troppo incerta[120]. In ogni modo per aiutare Antonibon a sostenere gli alti costi della ricerca, viene deciso di tassare le maioliche forestiere che «si introducono nella Dominante» in modo da indebolire la concorrenza[121]. Ma nel 1763 Pasquale Antonibon si ammala gravemente e la manifattura entra in crisi. Il 10 Dicembre 1765 scriverà una supplica ai Cinque Savi: «lunga e fatalissima malattia da quasi due anni pose in sconcerto la propria fabbrica di Majoliche, ed in totale arenamento quella delle Porcellane dopo importantissimi dispendi sofferti anco per il trattenimento di que’ Operari, che si era procurato per l’avanzamento della medesima». Accusa i concorrenti e soprattutto Brunello di Este e Cozzi di Venezia di aver attratto i migliori artefici. Ne nasce un processo di cui fortunatamente conosciamo i verbali degli interrogatori e diverse carte allegate[122]. Primo teste è lo stesso Pasquale Antonibon[123]. Anche diversi 'artisti' sono chiamati a testimoniare. Le accuse sono ampiamente provate e, indubbiamente, queste carte mostrano chiaramente l’altissima considerazione raggiunta dalla manifattura novese in tutta Italia[124]. Ne esce però anche un quadro severo del lavoro in manifattura: si parla di bambini di dieci anni al lavoro, questo iniziare all’alba e, da ottobre a marzo, continuare «sino alle ore tre di notte». Un suo avversario in questa causa, Giuseppe Brunello, ricorda come Antonibon sia già stato condannato «per le violenze che anche ai suoi tempi praticava con tutti i suoi lavoranti, per le inquietudini ch’apportava a tutte le nuove crescenti fabbriche unicamente coll’ingiusta mira di vedersi solo in tutto lo Stato»[125]. Nell’Aprile dello stesso anno, il 1765, sul «Giornale d’Italia» del veneziano Antonio Griselini, si parla invece in termini molto positivi della «Fabbrica di terraglie e maioliche di Pasquale Antonibon, [...] per la proprietà dei suoi lavori, per la vaghezza delle invenzioni, e per le pitture, onde sono adornati[…] vi sono anche bellissime figure in porcellana e parecchie altre manifatture di questa materia, fra cui abbiamo vedute superbe Cocome da Té con lavori di bassorilievo maestrevolmente eseguiti»[126]. Ma l’ispettore veneziano dei Cinque Savi Gabriele Marcello che visita Nove l’estate successiva non è del tutto d’accordo. Descrive molto positivamente la manifattura di Majolica di Pasquale Antonibon con le sue tre grandi fornaci, con i “furnasotti” e con più di 120 persone impiegate, ma lamenta l’eccessivo spreco economico in due progetti falliti: le tele cerate e la porcellana e dubita fortemente che Pasquale sarà mai capace di raggiungere nella porcellana una qualità paragonabile alla sua majolica[127]. Ma gli concedono il permesso di produrla. Pasquale nel 1769 chiederà delle sovvenzioni per gli alti costi incontrati per produr porcellane «perfette ed applaudite com’è noto a Vostre Eccellenze»[128]. Finalmente «i gravosi dispendi» lo hanno portato a produrre porcellana di qualità costante. I Cinque Savi accordarono diversi benefici, non coerenti però con quelli di cui già beneficiava il Cozzi[129]. La porcellana dell’Antonibon, in questa prima fase, sia per materia (ambedue usano il caolino di Tretto) che per qualità formale sarà molto simile a quella di Cozzi: la materia novese ha un tono leggermente più caldo rispetto a quella veneziana. Accanto a pezzi completamente bianchi, qualcuno increspato dall’accento rococò (fig.9),

9ManifatturaPasqualeAntonibon

9. Manifattura Pasquale Antonibon. Teiera (ante 1765). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica Giuseppe Roi. Nell’Aprile del 1765, sul Giornale d’Italia del veneziano Antonio Griselini, si parla di “bellissime figure in porcellana e […] Cocome da Tè con lavori di bassorilievo maestrevolmente eseguiti”.

vengono soprattutto prodotte piccole tazzine a coppetta decorate con motivi vegetali stilizzati all’orientale in stile Imari (in tricromia blu, rosso e oro) “all’uso di Olanda” o policrome d’ispirazione europea “all’uso di Vienna e di Dresda”. Abbastanza frequente è la presenza di scenette figurate con cinesi e coppie galanti (fig.10).

10ManifatturaPasqualeAntonibon

10. Manifattura Pasquale Antonibon. Vaso senza coperchio con figure cinesi. Torino, MuseiCivici, Palazzo Madama, inv.2611/C. Dal 1770 venivano prodotti vasi di forma neoclassica con motivi floreali o scene figurate orientali.

Ma sono soprattutto i motivi a squamette, le catene di rocailles, i giochi floreali e gli stemmi ad abitare le porcellane. La produzione di questa prima fase vede anche teiere e zuccheriere e qualche tazza da brodo[130]. Antonibon marca la sua porcellana (la maiolica non è quasi mai marcata) con un piccolo asterisco blu o rosso o, talvolta, oro[131](fig.11).

11ManifatturaPasqualeAntonibon
 

A Nove si produce presto anche piccola scultura modellata con l’aiuto di stampi. La semplice eleganza dei giovani contadinelli caratterizza i prodotti novesi: li troviamo su zolle sassose raffigurare le quattro stagioni, suonare strumenti musicali o corteggiarsi. Ragazzine dai cappelli raccolti, giocano con caprette mentre chiacchierano con giovani dal cappello a larghe falde. Sono forse queste le “figurine uso varion” ancora notate in produzione nel 1797[132]. Vengono prodotte anche scene sacre, allegoriche, mitologiche. I modellatori citati nei documenti sono diversi, come abbiamo visto, accanto al Varion, ricordiamo il fiorentino Pietro Girari, con Bastian Lazzari (che lavorerà anche da Cozzi) e Battistin Bertazzi (fig.12).

12ManifatturaAntonibonParolin

12. Manifattura Antonibon Parolin, Bassano del Grappa. Museo della Ceramica Giuseppe Roi. A Nove si produce presto anche piccola scultura modellata con l’aiuto di stampi: giovani contadinelli su zolle sassose che raffigurano le quattro stagioni, che suonano strumenti musicali o si corteggiano.

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)