Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Esiste un episodio dirompente nella storia della ceramica nel Bassanese e questo è l’arrivo, nel 1942, alla Direzione dell’Istituto d’arte di Nove “G. De Fabris” di Andrea Parini (Caltagirone 1906-Nove 1970). Andrea Parini aveva iniziato la sua attività all’inizio degli anni ‘30 nella città natale, Caltagirone, dopo la formazione presso l’Accademia alle Belle Arti di Palermo. Il mezzo espressivo, la terracotta modellata a stecca o con le dita, coperta da uno smalto denso, intensamente e variamente colorato, fu il tramite per rappresentare l’immediatezza espressiva d’oggetti e paesaggi quotidiani, un “sermo rusticus” appreso dalla pratica xilografica giovanile. Nella sua produzione la tradizione onirica, il gusto per il decorativo sovrabbondante che coniuga un amore particolare per la narrazione spezzata, un picaresco che si nutre anche della lingua barocca mai esaurita dell’arte siciliana, l’arcaico repertorio caltagironese «si mescola con le immagini remondiniane in un composito miscuglio che finge l’inganno e rasenta, senza toccarla, la dissacrazione»[1]. Esempio ne è Il grande vaso del re, del Museo della Ceramica “Giuseppe Roi” di Bassano, eseguito nel 1959 (fig.1)

1AndreaParini

1. Andrea Parini, Il grande vaso del re (1959). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica “Giuseppe Roi”. Il grande vaso, replica con varianti - il decoro del colletto, gli alamari sulla spalla, la chiusura della fascia sulla spalla, i fiori sui capelli, le decorazioni sul viso - dell’esemplare presentato da Andrea Parini alla XXVIII Biennale veneziana nel 1954,  è dedicato allo stampatore Antonio Zilio, estimatore e studioso dell’incisione bassanese.

e dedicato ad Antonio Zilio, stampatore, che costituisce una replica con leggere varianti (il decoro del colletto, gli alamari sulla spalla, la chiusura della fascia sulla spalla, i fiori sui capelli, le decorazioni sul viso) dell’esemplare presentato da Andrea Parini alla XXVIII Biennale veneziana nel 1954. Andrea Parini introduce nell’ambiente bassanese e novese, inteso nella sua unitarietà di territorio vocato alla produzione ceramica quasi interamente dominato da rifacimenti in stile, la consapevolezza che la ceramica è un medium artistico di pari dignità rispetto ad altri e che essa può farsi portatore di ricerche artistiche che appartengono all’universo dei nuovi linguaggi a partire dalle Avanguardie di primo Novecento. Nell’acquisizione di tale consapevolezza un ruolo importante svolse l’Istituto d’arte dei Carmini a Venezia, diretto allora da Venter Marini, dove si formava Giovanni Petucco[2], che lavorò poi a Nove al fianco di Parini. In lui le innovazioni stilistiche passano attraverso un’acquisita consapevolezza di un libero uso delle tecniche: «L’immenso tradizionalismo nostro, di ceramiche popolari e raffinate: terracotte, terraglie, maioliche ecc. non dovrebbe, a mio avviso, sbarrare la strada all’uso del grès, in quanto sono del parere che i giovani ceramisti devono acquisire ogni tecnica, conoscere ogni impasto ceramico, saper cuocere a qualsiasi caloria». Le sperimentazioni tecniche procedono nella sua opera di pari passo con una personale interpretazione delle correnti artistiche del momento, in particolare in una personale interpretazione, neo-gotica degli spunti formali di Arturo Martini, esemplificati in una serie di sculture aventi come soggetto cavalli, quale il Cavallino, sempre del Museo di Bassano (fig.2).

2GiovanniPetucco

2. Giovanni Petucco, Il Cavallino. Piatto.  Bassano del Grappa, Museo della Ceramica “Giuseppe Roi”. Presso l’Istituto d’arte dei Carmini a Venezia si formava Giovanni Petucco, che lavorò poi a Nove al fianco di Parini, in modi che rivelano una personale interpretazione, neo-gotica degli spunti formali di Arturo Martini.

La sua partecipazione alla collettiva milanese della Galleria Bosisio Arte di Milano del 1959 insieme a Bertagnin, Cipolla, Fantoni, Fontana, Gambone, Melotti e Zauli attestano il superamento da parte degli artisti dell’Alto Vicentino di una concezione della ceramica esclusivamente demandata all’arredo per un’acquisita consapevolezza di un ruolo moderno del linguaggio della ceramica. Con questa consapevolezza Parini formerà l’intera generazione di artisti che in modo autonomo svilupperà nel secondo dopoguerra le potenzialità tecnologiche della materia forgiandola ad esprimere concetti che appartengono più all’universo della ricerca artistica tout court che a quello della tradizione[3]. Esempio di questo traghettamento della ceramica artistica sono Pianezzola e Tasca. Pompeo Pianezzola[4], nato a Nove nel 1925, frequenta la locale Scuola d’Arte ed al termine dei tre anni di corso, entra come apprendista decoratore nella fabbrica Barettoni, dove si misura, sulla scia degli insegnamenti di Silvio Righetto, e dei colleghi Angelo e Giovanni Comacchio, Giovanni e Luigi Poloniato, “pittori” ceramisti, con la decorazione tradizionale dei manufatti e con le copie dai maestri veneziani del Settecento. Dopo la guerra, nel 1945, riprende l’attività da Barettoni e Giovanni Petucco gli prospetta un impegno didattico presso la Scuola d’Arte, che continuerà fino al 1977. Riprende gli studi e frequenta tra il 1946 ed il 1950 l’Accademia di Belle Arti di Venezia, nella sezione “Decorazione” tenuta da Bruno Saetti. Già a questi anni risale l’interesse per l’incisione e l’esecuzione di un ciclo di acqueforti. Nell’estate del 1947 è l’organizzatore con Antonio Cecchetto e Andrea Parini della prima esposizione di ceramica moderna all’interno della Barettoni e negli spazi all’aperto di Nove, dove espongono anche Cesare Sartori e Alessio Tasca. Del 1954 è il manifesto del “Gruppo 9”, sottoscritto con Nicolò Sebellin e Alessio Tasca, che s’impegnano per un rinnovamento della ceramica locale. Sono gli anni nei quali la scultura in maiolica si nutre di suggerimenti neocubisti, nella “gabbia” o nelle “finestre”, realizzati nello sforzo di raggiungere nella scultura una leggerezza estranea al medium e di coniugare pittura e scultura. Lavora sull’unità definita del quadrato, negli alveari con gli uccelli e, prima, nella piastrella giovanile a figurazione religiosa e poi nelle piastrelle decorate con quadrati inscritti modulati nella luce o nelle unità cubiche e nelle fluttuazioni nelle quali la luce scompone la rigidità della forma geometrica, creando profondità di colori. Il passaggio dalla figurazione all’astrazione segna l’inizio della piena maturità; ed è intorno al 1960 che Pianezzola matura la sua adesione a codici non figurativi con una virata tanto più significativa per un artista realizzato e dotato sia in pittura sia nella ceramica. Anche il medium si modifica: la terra refrattaria viene tendenzialmente ricoperta con smalti opachi, neri o scuri e ripresa con altre terre o smalti che ne esaltano la base nuda e ruvida. Il rapporto formale tra le dimensioni dell’oggetto e la forma del decoro diviene fondamentale nell’armonia dell’opera. Con cinque grandi piatti, “scudi” intitolati collettivamente L’infinito, prende parte nel 1963 al Concorso Internazionale della Ceramica d’Arte Contemporanea di Faenza e riceve, insieme a Fulvio Ravaioli, il “Premio Faenza”. Tra il 1963 ed il 1968 è preside della Scuola d’Arte ed introduce significativi aggiornamenti didattici nell’insegnamento della ceramica. Fino all’inizio degli anni ’70 si misura con il design contemporaneo e, dal punto di vista linguistico, con le ricerche del gruppo N di Padova e del gruppo T di Milano. Sono gli anni dell’abbandono della ceramica per il plexiglas, i laminati, le serigrafie. Disegna piastrelle da pavimento per la manifattura Zanolli e Sebellin, e nel 1962 cede a loro la sua produzione in serie. E’ più volte premiato per la serie delle “millerighe” per la Fabbrica Appiani di Treviso. Intorno al 1970 riprende a “pensare in ceramica” e lo fa partendo dalla lastra in terra stesa sul tavolo sulla quale traccia una “scrittura asemantica” fatta di aste, linee, segni verticali, orizzontali, pause cromatiche, segni stimolati da incontri e vicinanze intellettuali con la Cina e il Giappone. Le lastre nelle quali egli sintetizza il rapporto tra pittura e scultura assumono anche grandi dimensioni e si dispongono talora come “strappi” murali, “totem ammonitori”, dove l’assimilazione al foglio si evidenzia palesemente nella piegatura, nei tagli, nelle orecchie. Nel 2003, il foglio, in terraglia, rivestito di uno smalto bianchissimo omaggia Canova, ma ripropone prima di tutto la materia alla quale si ispira, la carta. Dalla carta è ripartito con la mostra Ombre sospese nella chiesetta dell’Angelo nel 2009 per riprendere l’antico amore per il segno dipinto, la costante della sua invenzione, per portare a compimento una ricerca che ha caratterizzato la sua lunga carriera artistica, ricomponendo il presente e il passato, «basso continuo dell’attività riscontrata nella vibrazione cromatica e luminosa del paesaggio e dell’architettura veneti»[5]. Le ricerche formali degli anni ’70 ma soprattutto un lungo percorso interiore supportato dal pensiero orientale ripropone in questo medium la serialità del segno, anch’esso patrimonio inventato, perseguito, trasformato, qui tradotto in pura liricità (fig.3; tav.10).

3PompeoPianezzola

4. Alessio Tasca (Nove 1929-), San Bassiano (1999). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica “Giuseppe Roi”. Dal 1991, con una nuova trafila, realizza grandi “tabelloni” figurati in gres a monocottura a 1300° parzialmente smaltati. Nascono così le Mura Antonibon, il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento (1995) e, tra gli altri, il San Bassiano del 1999.

Alessio Tasca nasce a Nove nel 1929[6]. Inizia a disegnare nello studio del pittore e ceramista Giovanni Petucco e frequenta la locale Scuola d’arte “G. Fabris”. Nel 1945 e nel 1948 frequenta l’Istituto d’Arte di Venezia e collabora con Giuseppe Romanelli, lo scultore veneziano sensibile alla lezione figurativa di Arturo Martini. Della sezione Ceramica è titolare Gazar Gazigian, che sarà maestro anche di Federico Bonaldi e Cesare Sartori. Contemporaneamente, espone a Nove dal 1947 nelle Mostre della Ceramica organizzate da Guglielmo Barettoni e Pompeo Pianezzola in spazi all’aperto e nelle sale della Scuola d’Arte. La sua iniziale attività, nell’ambito della modellazione e decorazione della ceramica tradizionale, inizia nella “Artigiani Ceramisti”, dove nascono i primi piatti decorati “a graffito” con differenti tematiche, su fondo verde o bruno, con i quali nel 1951 partecipa alla Triennale di Milano su invito di Gio Ponti. Nel 1953 partecipa con questa produzione ad una mostra itinerante in Germania dedicata alla ceramica italiana contemporanea, insieme a Fontana, Melotti, Pianezzola, Guido Gambone, Agenore Fabbri e Roberto Bertagnin. Contemporanea è la modellazione nei modi della plastica martiniana di piccoli gruppi scultorei per i quali ottiene segnalazioni e premi. Del 1954 è il manifesto del “Gruppo 9”, sottoscritto con altri ceramisti, che si impegnano per un rinnovamento della ceramica locale. All’inizio degli anni ’60 esegue grandi bassorilievi per edifici religiosi e civili, per la Parrocchiale di Mussolente, per le scuole di Schio e di Noventa Vicentina, avvicinandosi pur nel comune linguaggio martiniano alla scultura di Danilo Andreose. La sperimentazione di pezzi in grandi dimensioni, in refrattario con la tecnica a lucignolo, continua all’inizio di quel decennio. Nel 1962 succede a Giovanni Petucco nella cattedra di plastica all’Istituto d’Arte di Nove dove rimarrà fino al 1978. Sempre negli anni ’60 avvia, nel proprio atelier di via Roberti progettato da Gaspare Paolin, la produzione di piccola serie al tornio, nota come “rosso aragosta” dal colore dello smalto Romer distribuito in Veneto da Dialma Clavello, produzione che otterrà per l’innovazione coloristica ed il controllo delle forme il Premio Palladio nel 1964. Alla prima edizione di Eurodomus di Gio Ponti nel 1966 partecipa alla costituzione con Gigi Sabadin, Nino Caruso, Franco Bucci, Renata Bonfanti, Sandra Marconato e Federico Fabbrini del Centro Italiano Produzione d’Arte, presente in numerose esposizioni italiane. Nel 1967 termina la sua fase artigianale ed inizia la produzione meccanica con l’uso di una trafila a sezione rettangolare, le ceramiche estruse, finite a smalto bianco opaco punteggiato con manganese, che esaltano l’essenzialità e la purezza della forma. L’anno successivo espone queste nuove forme, appese su fili passanti, allo “Studio d’Arte Arturo Martini” di Romano Abate a Treviso e espone alla XIV Triennale di Milano il Cornovaso, la più rappresentativa delle forme di questa serie, che sarà nel 1972 acquistato, in occasione dell’esposizione “International Ceramics ‘72”, dal Victoria and Albert Museum di Londra. Con una trafila di maggiori dimensioni estrude nel 1974 le prime sculture di grandi dimensioni, il ciclo delle “Sfere” e, negli anni ’80, con una trafila verticale, grandi sculture estruse, che si differenziano dalle precedenti per la quasi totale assenza di smalti colorati, la scelta dei toni del bruno, forme aperte, rotte e non concluse, giocate sulla valenza espressiva della “rovina” e della deriva. Nel 1991, realizza grazie ad una nuova trafila, grandi “tabelloni” figurati in gres a monocottura a 1300° parzialmente smaltati, con la storia del paese, le Mura Antonibon. Dagli anni ’90 questo nuovo modo di produzione vedrà rappresentato il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento (1995) ora esposta al Castello del Buonconsiglio, la pianta quattrocentesca di Vicenza di Peronio, ora alla Biblioteca Bertoliana, le vicende storiche della fabbrica Galvani a Pordenone (1996), una tarsia per lo spettacolo de' L’Orto di Marco Paolini presso il Teatro Olimpico a Vicenza (1998), la via di Tebe Scamozzi rivisto (1998), gli Scrovegni per la Biennale del Bronzetto di Padova, il San Bassiano del 1999, un grande pannello di tavelle con Venezia e l’Oriente per la mostra di Santa Maria dell’Orto a Venezia (2004). E’ stato insignito, per i meriti artistici, del Premio Cultura Città di Bassano del Grappa nel 2002 (fig.4).

4AlessioTasca

4. Alessio Tasca (Nove 1929-), San Bassiano (1999). Bassano del Grappa, Museo della Ceramica “Giuseppe Roi”. Dal 1991, con una nuova trafila, realizza grandi “tabelloni” figurati in gres a monocottura a 1300° parzialmente smaltati. Nascono così le Mura Antonibon, il ciclo dei Mesi di Torre Aquila a Trento (1995) e, tra gli altri, il San Bassiano del 1999.

Accanto a loro, in un panorama di assoluto aggiornamento sulle novità italiane, crescono altri protagonisti, più giovani, le cui ricerche prendono strade diverse, non meno significative. Cesare Sartori nasce a Nove nel 1930. Frequenta l’Istituto d’Arte di Nove, si diploma all’Istituto d’Arte di Venezia, della cui sezione Ceramica è titolare Gazar Gazigian, che è maestro anche di Federico Bonaldi e Alessio Tasca[7]. Prosegue gli studi all’Accademia di Venezia. Ha insegnato disegno industriale all’Istituto d’Arte di Nove. Come gli altri artisti della sua generazione, gli stimoli formali di matrice martiniana dell’insegnamento di Giovanni Petucco, e le fantasie barocche di Parini condizioneranno il percorso iniziale, con la realizzazione di una piccola scultura simile, negli esiti, alle opere di Tasca e Pianezzola, a metà strada tra l’anedottico e il caricaturale. Partecipa sin dagli anni della formazione al movimento novese che si ripromette un rinnovamento del linguaggio della ceramica locale, accrescendo il proprio bagaglio culturale con un occhio attento ed aggiornato alle novità delle avanguardie e dei movimenti artistici italiani del dopoguerra. Dagli anni ’50 espone a Nove, in Italia ed all’estero. Partecipa, nel 1952 e nel 1958, alla Biennale Internazionale di Venezia. Dagli anni ’60 collabora con la S.I.C.A.R.T., una delle poche aziende novesi a struttura industriale che produce ceramiche in serie: la ricerca sul linguaggio artistico della ceramica si accompagna in lui alle realizzazioni di oggetti ceramici ad uso quotidiano, servizi da tavola, soprammobili, nei quali prevale lo studio della linearità (fig.5; tav.10).

5CesareSartori

5. Cesare Sartori (Nove 1930-), Senza titolo, 2004. Bassano del Grappa, Galleria Ragazzi del ’99. Si ripromette un rinnovamento del linguaggio della ceramica locale, con un occhio attento ed aggiornato alle novità delle avanguardie e dei movimenti artistici italiani del dopoguerra.

Federico Bonaldi nasce a Bassano del Grappa nel 1933. Frequenta la Scuola d’Arte “G. Fabris”di Nove e l’Istituto d’Arte di Venezia, dove si diploma con Gazar Gazigian, titolare del corso di ceramica e maestro anche di Alessio Tasca e di Cesare Sartori. Dalla scuola di Andrea Parini, Federico Bonaldi eredita il gusto per il racconto, per l’iperbole, per l’assurdo e il sovrabbondante, anche se, sin dall’inizio, la sua poetica complessa coinvolge il medium espressivo oltre che il linguaggio. Di tale poetica è parte integrante la ricerca delle terre, lo studio accurato delle cotture, la progettazione fisica dei manufatti e la loro decorazione. La ricerca espressiva attinge ad una molteplicità di codici linguistici che fanno riferimento a culture diverse ma tutte esaltanti l’elemento popolare, la cultura ebrea, quella atzeca, inca, slava…; si traduce in segni elementari e sintetici animati da una verve dissacratoria alla quale non è estranea la lezione del Surrealismo e della Pop Art. La categoria del “pittoresco” e del “picaresco” anima le sue invenzioni che Bonaldi esalta nella matericità della ceramica e nei contrasti coloristici. Questa ispira le “dispense”, le “casette dell’amore”, “sorte di teatrini inzuppati di leccornie pendule, di carabattole in pittoresco disordine, di pani rituali presentati in pittoresco disordine, di pani rituali presentati come ostensori incrostati da una barbarica fantasia barocca, le scatole delle uova pasquali come elitre di insetti esotici, e gli altri strani marchingegni, non sai se forni da pane, stufe o steli funerarie dei popoli delle steppe”. (Passamani 1980)[8]. Là dove egli applica il suo linguaggio alla scultura di grandi dimensioni, l’esperienza metafisica ispira la forma con esiti di grande sinteticità che sottolineano l’aspetto dissacratorio, come ne' L’artigiano o ne' Il potere e l’impotenza, qui fortemente suggestionato dal surrealismo di Duschamp, tradotto in maniera onirica, recuperando il candore infantile delle ocarine e dei cucchi. E’ stato scritto (Fagone 1990) che la sua produzione è «una sorta di mediterranea ‘metafisica fisica’ per usare un’espressione suggestiva di Alberto Savinio» (fig.6; tav.10).

6FedericoBonaldi

6. Federico Bonaldi  (Bassano del Grappa 1933 – 2012), Villaggio globale (2007). Bassano del Grappa, Galleria Ragazzi del ’99.La categoria del “pittoresco” e del “picaresco” anima le  invenzioni di Bonaldi, che egli esalta nella matericità della ceramica e nei contrasti coloristici.

Come Sartori, il più giovane Giuseppe Lucietti – è nato a Nove nel 1936[9] - alterna l’attività di ricerca sui linguaggi della ceramica con la progettazione di oggetti di design. Nel 1961 si diploma all’Istituto Statale d’Arte per la Ceramica, già Scuola d’Arte e in seguito frequenta l’Accademia di Belle Arti di Venezia. Risale a quel momento il suo incontro con Andrea Parini, al tempo direttore della Scuola d’Arte, dal quale apprende i primi insegnamenti sull’arte della ceramica. E’ lui ad invitarlo a partecipare, nel 1954, al Concorso Nazionale per la Ceramica di Faenza nella sezione riservata agli allievi delle scuole d’arte, dove si aggiudica il terzo posto. Presentato ancora da Parini, espone, nel 1956, al Pick Bar di Bassano del Grappa, la sua prima personale. Nello stesso anno è invitato alla XXVIII Biennale d’Arte Internazionale di Venezia, alla quale partecipa anche nel 1962 e 1964. Come designer lavora tra il 1957 ed il 1960 presso le ceramiche “La Brenta” di Zaffiro Zarpellon e, con le sue realizzazioni, partecipa nel 1966 ad Eurodomos, organizzata a Genova da Gio Ponti, nel 1968 alla XIV Triennale di Milano, nel 1972 al I Simposio della Ceramica a Nove. Al concorso faentino del 1966, Lucietti partecipa con pannelli bianchi e neri percorsi di solchi e rilievi che si increspano. Il campo dell’opera non colorato, bianco o nero, viene azzerato; da tale resto l’artista procede alla ricostruzione dello spazio, articolando suggestioni date dalla natura ridotta a segni che creano la tridimensionalità della lastra come nel pannello “Dune” (fig.7; tav.10),

7GiuseppeLucietti

7. Giuseppe Lucietti, Dune, 2004; Fossili del Duemila, 2000. Bassano del Grappa, Galleria Ragazzi del ’99. Dal 1988, l’artista non interpreta la natura ma se appropria e la trasforma, in una porcellana trasparente, che trasmette la sua tenera essenza, trasferendo su chi guarda l’intimità stessa del paesaggio veneto e dei profondi rosati dei tramonti.

eseguito in materiale refrattario ingobbiato in bianco con bassa percentuale di vetrina piombica e graffito con due grandi onde che attraversano la parte destra, costituisce una delle maggiori espressioni del periodo “spazialista” dell’artista novese. E’ stato evidenziato dalla critica come tali ricerche presentino punti di contatto con le opere del gruppo N di Padova. Lucietti nell’Intervista spiega tali esperienze richiamando la coerenza delle sue scelte: «Ho sempre preferito la superficie, a volte con qualche leggera ondulazione, questo soprattutto per dare movimento e vibrazioni di luce, il segno è sempre stato controllato, la tridimensionalità scaturisce dalla serialità del segno, dal suo movimento ottico»[10]. Il passaggio dal segno decorativo degli inizi alla sua matericità aprirà la strada alle successive ricerche “neomanieriste” sulla porcellana. Dal 1974 lavora in porcellana ed inizia la collaborazione con le “Porcellane San Marco”di Nove, dove esegue, su tirature limitate, le linee “Cartoccio” e “Cartone Ondulato”. Dal 1975 al 1983 nascono anche ceramiche artistiche ispirate ad elementi naturali, “Stracci”, “Ragnatele”, “Giornali”, “Matasse”, “Vegetali” e “Tappeti”. Nel 1984 vince il premio Faenza e l’anno successivo espone a Roma, al Palazzo delle Esposizioni, “Detriti”. Nel 1988 il Comune di Nove gli dedica una personale, dove espone altri cicli ispirati alla natura, “Sabbie”, “Sassi”, “Dune”, opere nelle quali Lucetti introduce il colore, in particolare il verde celadon ed il rosso-rosato. Da questo momento, l’artista non interpreta e costruisce lo spazio della natura ma se ne appropria e lo trasforma. La natura si fa trasparente e trasmette la sua tenera essenza, trasferendo su chi guarda l’intimità stessa del paesaggio veneto e dei profondi rosati dei tramonti ma, proprio per la tenerezza che il colore emana, dell’animo stesso dell’artista. Unitamente ai premi Faenza un momento di grande approfondimento dei linguaggi artistici legati alla ceramica fu costituito dalle Mostre della Fiera di Vicenza e dai Simposi della Ceramica contemporanea. Nel 1948 la mostra novese della Ceramica fu trasferita all’interno della Fiera di Vicenza divenendo il Premio Esportazione, accanto al Premio Nove, che continuerà fino al 1957, divenendo poi il Premio Palladio. A partire dal 1949 e fino al 1975, nomi prestigiosi composero le giurie dei concorsi banditi dalla Fiera, a conferma del ruolo da loro svolto nella progettazione del nuovo linguaggio artistico, da Gio Ponti, a Giuseppe De Logu, Tullio Mazzotti, Licisco Magagnato, Agenore Fabbri, Bruno Munari e Carlo Scarpa. Il prezioso patrimonio di opere costituito negli anni, fu consegnato nel 1983 dalla Fiera di Vicenza in deposito permanente al Museo della Ceramica di Nove e al Museo Civico di Bassano del Grappa[11]. La sezione contemporanea del Museo della Ceramica di Bassano del Grappa ospita anche all’interno del deposito dell’Ente Fiera di Vicenza un importante nucleo costituito dalle edizioni del Premio Palladio tenutosi tra il 1950 ed il 1957 ed un altro nucleo rappresentato dalle opere prodotte dagli artisti nel corso dei tre Simposi internazionali della Ceramica, organizzati a Bassano in Palazzo Agostinelli negli anni 1972, 1974 e 1978. Il primo di questi nuclei sintetizza la fine del figurativo, con la significativa presenza di opere di Giovanni Petucco con il Cavallino, di Salvatore Cipolla con Il cavallo e il cavaliere, ancora memore delle realizzazioni martiniane, di Arrigo Visiani con Il Grande vaso in maiolica, che introduce già alla stagione dell’informale con alcuni capolavori di Carlo Zauli, Vaso asimmetrico, Umberto Zanoni, Vaso a fiasca ed Emilio Scanavino, legato al razionalismo architettonico nella forma ed all’informale nei decori. Più organiche e unitarie le ricerche internazionali degli artisti presenti ai Simposi in anni importanti per il definirsi dei linguaggi dell’informale, non solo nella ceramica e per le diverse soluzioni tecniche e figurative nell’ambito dell’esaltazione dei valori materici della terracotta. Il I Simposio, voluto nel 1972 dalle amministrazioni comunali di Bassano del Grappa e Nove, in un momento particolarmente felice della vita artistica e nella produzione della ceramica, ebbe luogo tra il 26 agosto ed il 26 settembre e coinvolse le istituzioni, l’imprenditoria vicentina, quella bassanese e novese e le forze più vive della produzione artistica di quegli anni. Bruno Passamani, indimenticato direttore del Museo di Bassano sintetizza il significato di quel simposio nel «ricercare sul piano del confronto, o anche dell’impatto improvviso, culturale e formale, nuovi stimoli e proposte, e innestarle sulle strutture esistenti»[12]. L’esperienza fu ripetuta nel 1974 e 1978 con il coinvolgimento emozionale, organizzativo ed economico di enti e istituzioni locali e nazionali, con esiti nella creazione artistica di grande significato, anche internazionale, per quegli anni. La partecipazione ai Simposi di artisti europei accentua il carattere internazionale di quei momenti di lavoro comune e l’apertura delle esperienze artistiche sulla ceramica di quegli anni. L’esaltazione dei valori materici costituisce una costante per il 1972 nelle opere della francese Anne Barrés, dell’americana Ruth Duckworth, dell’inglese Tony Fanks del polacco Rofin Kominek, dell’ungherese Imre Schrammel, mentre ricerche nell’ambito dello spazialismo introducono il turco Nasip Jem, la rumena Patriciu Mateescu, ricerche che mantengono taluni aspetti dada nell’olandese Robert Stultiens, nel bassanese Federico Bonaldi. La finlandese Piipa Tanderfeld introduce soluzioni ispirate al costruttivismo nel suo Vaso quadrangolare, e ricerche informali che non escludono la materia portano avanti il giapponese Tomakazu Irai nel suo Omaggio all’Italia, il novese Giuseppe Lucietti nel Pannello murale e gli austriaci Kurt e Gerda Spurey. Nel 1974, le ricerche sui materiali costitutivi divengono preponderanti e l’uso della porcellana accomuna la statunitense Carolljeanne Abraham, lo svedese Asshof, il bassanese Federico Bonaldi, il novese Giuseppe Lucietti, il giapponese Mizutani, ancora gli Spury e l’ungherese Szekerez. Il novese Pompeo Pianezzola inaugura la stagione dei suoi “libri”, giocando tra informale e raffinato studio materico. Nel 1978, i linguaggi della ceramica contemporanea sono assestati tra l’essenziale costruttivismo dei tedeschi Lee Babel e Fritz Vehring, il neofigurativo di Emanuele Astengo, la ricerca materica di Giuseppe Lucietti che diviene sofisticata tensione verso una natura astratta.

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