Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Se durante il Cinquecento fu costruita in città solamente la chiesa di Ognissanti (1568) con annesso convento dei Cappuccini e agli inizi del Seicento (tra il 1603 e il 1610) il cenobio dei Riformati con la chiesa di San Bonaventura, cospicuo è invece il numero delle opere di artisti bassanesi, soprattutto pale d’altare, che arricchirono il patrimonio decorativo degli edifici sacri già esistenti. Alcuni di essi erano sorti verso la fine del Quattrocento per il rifiorire della vita monastica: a partire dal 1492 erano stati eretti la chiesetta delle Grazie e il vicino convento dei Serviti; nel 1494 era stata innalzata la chiesa di San Girolamo annessa al monastero benedettino femminile; nel 1498 si era aggiunta all’ampliato cenobio dei santi Felice e Fortunato una nuova chiesa la cui decorazione reca la data 1501, opera documentata di Francesco Nasocchi[60]: il manto freschivo ricopre interamente le pareti, dal fregio sommitale alla base; nella ricchezza di invenzioni ornamentali Luciana Crosato vede convergere «ricordi dell’opera di Antonio e Bartolomeo Vivarini e di Giovanni d’Alemagna nella cappella Ovetari, agli Eremitani, nonché il motivo dei pannelli a grottesche, affrescati dal Parentino, nel chiostro di Santa Giustina a Padova, il monastero da cui dipendeva San Fortunato»[61]. Nelle parti figurali si distinguono per qualità i busti dei Padri della Chiesa - affacciati nei pennacchi d’imposta della cupola, entro oculi sorretti da putti - San Girolamo, Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gregorio, chiaramente ripresi da quelli dipinti, nell’ultimo decennio del Quattrocento, da Giovanni Speranza, entro tondi in prospettiva, nelle vele del ciborio della chiesa delle Grazie (fig.30);

30FrancescoNasocchi

30. Francesco Nasocchi, I padri della Chiesa (part.) (1501). Bassano del Grappa, chiesa di San Fortunato. Il ciclo di affreschi della chiesa benedettina di San Fortunato interessa la zona absidale e le navate e costituisce a tutt’oggi la prova più alta del Nasocchi, fortemente influenzata dalla lezione del Montagna.

qui i Nasocchi parteciparono alla decorazione con il fregio marcapiano nella porzione alta delle pareti. Alcuni elementi decorativi dell’importante testo pittorico ritornano nei fregi degli interni cittadini come la stanza a nord est del pianterreno di palazzo Sale Pengo, eseguita nei primi decenni del Cinquecento probabilmente dallo stesso Francesco Nasocchi[62]. A causa delle radicali trasformazioni subite nei secoli successivi, l’arredo cinquecentesco delle chiese, per quanto riguarda l’altaristica, che era prevalentemente lignea, nessun esempio sopravvive. Rimangono solo le pale d’altare, molte delle quali non più in loco e conservate per la maggior parte al Museo Civico, dove sono pervenute per l’impossibilità di adattarle al nuovo assetto degli edifici e specialmente per l’espropriazione dei beni delle chiese e dei conventi negli ultimi anni della Serenissima e durante il napoleonico Regno d’Italia; al Museo sono anche le pale delle chiesette distrutte di San Bernardino e di San Giuseppe. Tutte, fino a Seicento inoltrato, furono prodotte dalle tre generazioni dei pittori Dal Ponte, da Francesco il Vecchio, per il quale la committenza religiosa fu preponderante, a Jacopo e ai figli di lui: Francesco, Leandro, Gerolamo. La famiglia di origine dei pittori Dal Ponte proveniva da Gallio, sull’Altopiano dei Sette Comuni, e si era trasferita a Bassano verso la netà del Quattrocento. Il capostipite Berto faceva il calzolaio, suo figlio Jacopo il “pellizzaro” cioè il conciapelli: quest’ultimo nei documenti è chiamato dapprima “De Gallio”, ma poi, dal 1479, col cognome “Dal Ponte”, attribuitogli perché abitava nella contrà del Ponte. L’appellativo “Bassano”, con cui la famiglia è più nota, comincia a essere usato, nella seconda metà del Cinquecento, in ambiente veneziano, per indicare prima solamente Jacopo, il celebre pittore, poi il padre suo e i suoi figli. Dal “pellizzaro” Jacopo nacque (in un anno tra il 1470 e il 1475) Francesco che si dedicò alla pittura, aprì la bottega e diede origine ad una vera e propria dinastia di artisti che, per oltre un secolo, dal primo Cinquecento al primo Seicento, svolse un ruolo importante nella pittura veneta dando lustro alla città. Sappiamo quali caratteristiche aveva e come funzionava questo laboratorio, situato al pianterreno della casa in contrà del Ponte, grazie alle notizie fornite per il periodo 1511-1550 dal più volte ricordato Libro secondo, l’unico rimasto dei quattro usati dai pittori per annotare le entrate e le uscite della loro azienda famigliare. Francesco ebbe come collaboratori i figli Jacopo e Giambattista - entrambi nati dal primo matrimonio con Lucia Pizzardini - oltre agli allievi e ai garzoni. Il capobottega riceveva gli ordini dei committenti anche se poi non era lui, ma uno dei figli a eseguire l’opera; stendeva e firmava i contratti in cui erano fissati il soggetto del dipinto, le dimensioni, il prezzo, la data di consegna. La bottega dalpontiana operava in tutti i campi previsti dagli statuti veneziani dell’Arte dei “depentori”: vi si produceva, oltre i dipinti, una grande varietà di oggetti d’arte applicata, spesso ordinati da quella nascente borghesia che dopo la guerra contro la Lega di Cambrai, aveva sviluppato traffici e industrie e aspirava a un’esistenza più comoda e più qualificata. Erano, come si è già rilevato, mobili, vestiario, calzature, lampade, ceri pasquali, gonfaloni, gruppi scultorei, armature, stemmi, carte da gioco, banderuole di marzapane, insegne di negozi che i pittori con la decorazione sapevano rendere più belli e preziosi. Questa produzione artigiana, per la quale i Dal Ponte ricorrevano anche all’opera di collaboratori esterni come falegnami, fabbri, calzolai e sarti, costituiva il lavoro usuale, quotidiano. Essa era la più richiesta e superava, per importanza economica, quella più propriamente artistica, che fino al 1538, ebbe un carattere prettamente religioso, poi si andò ampliando e diversificando. I committenti che si rivolgevano a Francesco il Vecchio erano parrocchie, conventi, confraternite di Bassano e dei paesi vicini, che ordinavano, imponendo il soggetto da raffigurare, le pale d’altare, i quadri devozionali, gli stendardi processionali, gli affreschi per le chiese. Nel Libro secondo sono attestate, già all’inizio del secondo decennio, commissioni a Francesco di dipinti oggi perduti, ma la prima pala, non documentata, a lui attribuita dalle fonti, a partire dal Ridolfi (1648), è la Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista e Bartolomeo (ora al Museo Civico) (fig.31)

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31. Francesco Bassano il Vecchio Madonna con il Bambino in trono tra i santi Giovanni Battista e Bartolomeo (1515 ca). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 1. Eseguita dal capostipite della bottega dalpontiana, la pala ornava, fino al 1810 (quando fu distrutto) l’altare di San Bartolomeo della Confraternita dei Pellizzari, in Santa Maria in Colle.

che ornava, fino al 1810 (quando fu distrutto) l’altare di San Bartolomeo della Confraternita dei Pellizzari, in Santa Maria in Colle databile intorno al 1515: è una sacra conversazione che riflette nell’impostazione e, pur in modi acerbi, anche nello stile, l’influsso dell’arte di Bartolomeo Montagna, fondamentale nella pittura di Francesco [63]. Il tema della sacra conversazione ritorna nella Madonna con il Bambino in trono tra i santi Pietro e Paolo (ora al Museo Civico) (fig.32),

32FrancescoBassanoilVecchio

32.  Francesco Bassano il Vecchio ( Bassano 1470/1475 - 1539),  Madonna con il Bambino in trono tra i santi Pietro e Paolo (firmata e datata 1519). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 2. Il tema della sacra conversazione ritorna nella pala commissionata dalla Confraternita di San Paolo che aveva sede nella chiesa di San Giovanni Battista: la lezione di Montagna è accostata a quella del Verla nelle singolari grottesche che decorano il grande altare.

firmata e datata 1519, commissionata dalla Confraternita di San Paolo che aveva sede nella chiesa di San Giovanni Battista: vi vediamo il pittore esprimere in un linguaggio più maturo la sua cultura legata all’ambito vicentino di fine Quattrocento, della cerchia appunto del Montagna; evidenti i richiami da Francesco Verla nelle decorazioni a grottesche delle architetture e dalle incisioni di Gerolamo Mocetto - tratte da opere di Giovanni Bellini e del Montagna - nella balaustra dell’edicola marmorea e nel tappeto anatolico steso sui gradini del trono. Aggiornato al gusto veronese di un Gerolamo dai Libri miniaturista, l’inserto di paesaggio con le rocce e il fogliame[64]. Dopo l’attribuzione del Gerola[65], è confermato dalla critica alla mano di Francesco il Vecchio, il bel San Michele (ora al Museo Civico, proveniente da Santa Maria in Colle, dov’era in deposito, forse ricoverato dall’annessa chiesetta di San Giuseppe, chiusa nel 1859, nella quale c’era un altare dedicato a San Michele) (fig.33)

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33. Francesco Bassano il Vecchio, San Michele (quarto decennio del XVI secolo). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Proviene probabilmente dalla chiesetta di San Giuseppe, chiusa nel 1859, nella quale c’era un altare dedicato a San Michele, la bella tela giudicata dalla critica una delle sue migliori opere.

giudicato dall’Arslan una delle sue migliori opere «per la duttilità dell’esecuzione pittorica, visibile nella corazza, e la monumentale stabilità della posa»[66]. Prossimo per caratteri formali alla ricordata Madonna col Bambino in trono (datata 1523), affrescata in via Matteotti, e quindi databile nei primi anni del terzo decennio, l’Arcangelo, imponente figura isolata sullo sfondo di un paesaggio collinare, chiuso nella sua armatura, con le grandi ali spalancate è rappresentato nella duplice funzione di vincitore contro Lucifero e di pesatore d’anime; per questo brandisce la spada con la mano destra e tiene la bilancia con la sinistra: è l’iconografia che si ritrova nella pala della parrocchiale di Solagna (firmata e datata 1520) e in quella della chiesa di San Donato in Angarano, dove spicca la variante del santo colto con il busto piegato nell’atto di trafiggere il diavolo con una lunga lancia. La Madonna con il Bambino in trono tra i santi Michele e Donato, secondo le notizie del libro di bottega, fu portata nella chiesa di San Donato, dove ancora si trova, il 6 agosto 1529; il 16 aprile dello stesso anno ne era stato specificato il soggetto e il prezzo con fra’ Marco Bassanin, uno dei committenti[67], da ravvisare nella figurina con la veste di francescano in ginocchio ai piedi del trono. La sacra conversazione si svolge in un’ambientazione che ricorda da vicino quella della pala del duomo di Asiago (databile tra il 1523 e il 1525) per la grande apertura sul paesaggio, ispirato a quello reale circostante (qui è una vallata fluviale con i caratteristici edifici che si vedono dietro la figura di San Donato in vesti vescovili) oltre il parapetto e per alcuni particolari come il drappo che scende, appeso a un festone d’alloro, ad arredare il trono. Di Francesco anche il Compianto sul Cristo morto (ora al Museo Civico), documentato anch’esso dal Libro secondo: è il quadro con «Christo morto et la Madona, san Zuane et Nicodemo et santa Maria Madalena» commissionato il 28 ottobre 1521 da «Misier pre’ Lovixe, capelan del Corpo de Christo della jesia de San Zuane de Basan». La realizzazione del dipinto si prolungò nel tempo fino al 1534 (il saldo è del 28 agosto di quell’anno) e, come ritiene il Muraro, esso fu impostato ed eseguito da Francesco fin dal 1521, ma ultimato dal figlio Jacopo nel brano paesistico sulla destra: «Nei tocchi gracili e diradati che danno concretezza alle forme del paesaggio roccioso e alberato si deve cogliere certamente la mano di Jacopo»[68]. La composizione deriva dall’iconografia sul tema diffusa dal materiale incisorio usato nella bottega dalpontiana, ma più direttamente dal capolavoro di analogo soggetto (ora al Museo Civico di Vicenza) di Giovanni Buonconsiglio che il pittore aveva potuto vedere nella chiesa vicentina di San Bartolomeo[69]. Alla morte di Francesco il Vecchio, avvenuta nell’estate 1539, subentrò alla guida della bottega il figlio Jacopo. Nato in una data tra il 1510, indicata dai suoi maggiori biografi Ridolfi (1648) e Verci (1775), e il 1515 ca, secondo le registrazioni del Libro secondo il giovane è presente come collaboratore del padre a partire dal 1528 e fece compiere alla bottega un salto di qualità. Francesco il Vecchio concepiva il mestiere del pittore come un artigiano medioevale, Jacopo invece rivelava una nuova coscienza artistica: pur vivendo in una piccola città di provincia, egli era aggiornato e inserito nella cultura pittorica contemporanea e teneva in più alta considerazione il suo ruolo all’interno della società bassanese. Con lui, accanto alla committenza religiosa, diventò sempre più frequente quella di personalità politiche, di nobili, di ricchi borghesi e di mercanti d’arte. Con questa clientela migliorò il sistema di pagamento: prima, seguendo una consuetudine medioevale, i compensi venivano in buona parte dati in natura con olio, vino, frumento, legname; poi vennero il più delle volte effettuati con più facilità e rapidità in denaro. Per quanto riguarda i prezzi, è interessante sapere che le pale costavano un quinto della spesa totale quando esse venivano fornite con gli «adornamenti», cioè l’incorniciatura con colonne e fregi o addirittura con gli elaborati altari lignei dorati e dipinti, belle opere, tutte perdute, dell’artigianato artistico dalpontiano. Anche se divenne preponderante la produzione di dipinti, non mancano negli anni ’40 e ’50, le commissioni di lavori di abbellimento delle dimore cittadine. Per esempio nel 1547 il commerciante di pelli e di cuoio Bartolomeo Crescini, cognato di Jacopo, ordina che con un’abile contraffazione, vengano «fente de nogara» la cassapanca e la tavola da pranzo in legno di modesta qualità. Interessante anche la decorazione di un «mezà», cioè un ufficio, eseguita nel 1551 per Zuanne da Lugo, commerciante di panni in Bassano, così descritta: «li muri fenti de pano d’oro, el solaro a rose e foiami cum le cornise de legno fente de pria e l’armaro de marmoro cum due istoriete su le portelle»[70]. Oltre agli allievi e ai garzoni Jacopo ebbe come collaboratore il fratello Giambattista (morto nel 1548), i cui interventi specialmente nei cicli freschivi negli anni ’30 sono ormai riconosciuti dagli studiosi. Del tutto diversa la bottega nella seconda metà del Cinquecento quando gli aiutanti furono i suoi quattro figli a mano a mano che crescevano: prima Francesco, poi Giambattista, Leandro e Gerolamo. Negli anni ’70 l’impresa famigliare si organizzò in modo più efficiente e si specializzò nei quadri con soggetto biblico-pastorale e allegorico dei Mesi, delle Stagioni e degli Elementi, sempre più richiesti dai mercanti d’arte e dai collezionisti. Queste invenzioni di Jacopo servivano da prototipi per le innumerevoli repliche della bottega. Quanto al metodo di lavoro, sappiamo dalle fonti, che per le figure delle sue composizioni Jacopo, a differenza di altri - per esempio Tintoretto che usava piccoli modelli in cera e creta - ricorreva a carte o cartoni dipinti o disegnati a chiaroscuro e sagomati a figure intere o solo teste, mani, piedi. Questi modelli, uniti tra loro come in un puzzle secondo schemi dettati di volta in volta da un’esigenza pratica, offrivano al colorista un comodo ordito per le sue raffinatezze cromatiche. Jacopo, come scrive il Ridolfi, il suo primo biografo, soggiornò per un breve periodo a Venezia presso la bottega di Bonifacio de’ Pitati in una data che recentemente Ballarin ha individuato nell’anno 1530: la relazione con i modi bonifaceschi di questo momento si manifesta nella Cacciata dei mercanti dal tempio che lo studioso attribuisce al giovane pittore, ritenendola del 1531-1532 ca[71]. Dopo di allora, come i dati forniti dal Libro secondo e le altre fonti documentarie confermano, Jacopo non restò mai a lungo lontano da Bassano da lui scelta come residenza stabile; nella casa di famiglia presso il celebre ponte di legno trascorse tutta la sua vita anche dopo il matrimonio, nel 1546, con Elisabetta Merzari. A modernizzare il linguaggio del giovane artista in senso cinquecentesco e ad arricchire il suo bagaglio figurativo, quale si manifesta nella produzione del quarto decennio, contribuì anche la lettura diretta di opere di artisti conosciute negli ambienti di città non lontane da Bassano, probabili mete dei suoi viaggi durante i primi anni ’30: Padova, dove meditò sulle opere freschive di Giotto, di Mantegna, di Tiziano alla Scuola del Santo; Trento, dove vide le decorazioni del Romanino nella loggia del castello del Buonconsiglio; e Treviso, dove forse per la prima volta si trovò di fronte a Pordenone nella cappella Malchiostro in duomo. Egli era concretamente integrato nell’ambiente cittadino a cui lo legavano amicizie, parentele, solidarietà, pratiche religiose. Vari documenti ci parlano della sua appartenenza alle più importanti confraternite, o scuole, della città, dove si poteva esprimere anche l’impegno nel sociale. Egli è registrato nel 1548 e nel 1589 tra i confratelli della scuola del SS. Sacramento eretta in San Giovanni Battista, della quale Gerolamo, il fratello sacerdote, divenne cappellano. Nella stessa chiesa aveva sede un’altra scuola, quella di San Paolo, con la quale la bottega dalpontiana intrattenne frequenti rapporti, documentati nel Libro secondo, per la realizzazione di vari lavori: dagli apparati per le feste del santo patrono, alle dorature, alla decorazione di ceri. Jacopo ricoprì varie cariche nella Confraternita di San Giuseppe che aveva sede nella chiesetta omonima (ora non più esistente), vicina alla pieve di Santa Maria in Colle: per essa dipinse nel 1568 la pala dell’altare maggiore con l’Adorazione dei pastori(tav.8), nel 1575 una Fuga in Egitto, affresco (distrutto nell’Ottocento) nella lunetta sopra la porta e nel 1580 un’altra pala con la Madonna con il Bambino in gloria e le sante Agata e Apollonia. Quello che, secondo la tradizione, era stato (nei primi anni del Cinquecento) il fondatore di questa Confraternita, fra’ Antonio Grande, era legato d’amicizia con i Dal Ponte, e gli ideali di spiritualità e il costume di una vita semplice e austera, propria della riforma cattolica, ai quali il frate eremita si ispirava, esercitarono un’influenza sulla religiosità del grande artista, che risulta evidente nelle sue opere. Nel romitorio di fra’ Antonio presso la chiesetta di San Vito, Jacopo forse conobbe Ignazio di Loyola durante il breve soggiorno bassanese nel 1537[72]. In quell’occasione, secondo la testimonianza di un discepolo della Compagnia di Gesù, il pittore aveva dipinto una tela con la liberazione del popolo ebreo dall’Egitto dando il volto di Ignazio a Mosè e dell’eremita Antonio ad Aronne. Le sembianze dell’eremita a noi note da una pala seicentesca di Giulio Martinelli (già in Santa Maria in Colle e già in San Fortunato e ora dispersa), dove egli è raffigurato con san Bassiano ai piedi della Vergine, sono somiglianti a quelle di Aronne nel Miracolo delle quaglie (Firenze, collezione privata) - episodio del viaggio degli ebrei verso la terra promessa - dipinto da Jacopo intorno al 1554. In questa storia biblica, appartenente al momento della ripresa del Manierismo in chiave luministica e ritenuta il pendant dell’Epulone (oggi a Cleveland, Museum of Art), la critica recente[73] tende a riconoscere quella registrata nel libro dei conti quale commissione da parte di Domenico Priuli. Non abbiamo alcuna prova documentaria che Jacopo abbia eseguito nel 1537 il ritratto dell’eremita Antonio e che lo abbia utilizzato molti anni dopo nel quadro fiorentino, ma non si può pensare all’effigie realizzata dal Martinelli senza una precisa fonte di riferimento. Il breve soggiorno veneziano presso la bottega di Bonifacio de’ Pitati, la più organizzata e operosa della città lagunare durante gli anni ’30, fu esperienza determinante per la formazione del giovane Jacopo. Fu per lui l’occasione di scoprire l’arte di Tiziano, la quale divenne inesauribile fonte d’ispirazione lungo tutta la sua carriera, e di aggiornarsi sulla cultura figurativa contemporanea vedendo anche la produzione di artisti provenienti dalla Terraferma dello stato veneziano, come Lotto e il bresciano Savoldo. Le opere eseguite da Jacopo per la città natale, in maggioranza pale d’altare, documentano tutte le fasi creative della sua lunga attività durata fino alla morte nel febbraio 1592, a cominciare dalla Fuga in Egitto (ora al Museo Civico di Bassano) (tav.4), la più antica, secondo le fonti, delle sue autografe tra quelle superstiti, dove la cultura arcaica assorbita dalla lezione paterna si accorda con quella del tirocinio veneziano. Come sappiamo dal Libro secondo, fu commissionata alla bottega dalpontiana nel 1532 da pre’ Evangelista Ricci rettore del convento benedettino di San Girolamo e dovette essere compiuta nel 1534, anno che fino agli inizi dell’Ottocento si poteva leggere accanto al nome, «JACOBUS A PONTE», tuttora visibile sul sasso in basso a sinistra. Con la soppressione di chiesa e convento, nel 1780 passò in Municipio e poi, nel 1840, al Museo Civico. La tela ora rettangolare era originariamente con il bordo superiore a lunetta e ha subìto, forse in un restauro degli inizi del Novecento, una resecazione del bordo sinistro e un accorciamento in quello inferiore[74]. Il dipinto reca chiari i segni di come si siano innestati su un terreno favorevole tutti i nuovi stimoli: accanto alle suggestioni compositive dalla scena dello stesso soggetto della giottesca Cappella degli Scrovegni a Padova, rivela evidenti influssi della maniera bonifacesca nella cadenza narrativa e nel paesaggio a luci fredde e velate che si distende all’orizzonte. Le figure di san Giuseppe e della Vergine sono citazioni di modelli tizianeschi, mentre il nuovo modo di fissare dettagli e situazioni reali nel racconto e l’acuta verità quasi ritrattistica dei volti dei pastori segnalano una sensibilità naturalistica tipica dei pittori di Terraferma, come Savoldo, Romanino e Lotto, con il mondo espressivo dei quali Jacopo era subito entrato in sintonia. Di una precisione botanica la descrizione delle specie arboree, delle erbe e dei fiori in primo piano, che, come scrive Giuliana Ericani[75], la luce dal retro «evidenzia sottolineandone il potere simbolico. La presenza della rosa di Natale, fiore del Paradiso, dell’aquilegia, simbolo dell’innocenza della Madonna e delle pene che dovrà sopportare, la margherita, che fa riferimento all’innocenza del Bambino, dietro alle figure, del ciliegio, che simboleggia il sangue del Redentore, del melo, frutto della salvazione, del querciolo, che nei Vangeli apocrifi è l’albero della Vita rimanda ai consueti significati della Fuga come preludio alle vicende dell’incarnazione di Cristo e al ruolo della Vergine in queste vicende». Come hanno rivelato le indagini radiografiche, la testa del pastore tra la Vergine e san Giuseppe è stata modificata rispetto all’abbozzo originale della figura, prima testimonianza della più volte documentata prassi da parte di Jacopo di effettuare variazioni in corso d’opera per rendere più efficace il racconto visivo[76]. Una decisa emancipazione dalla maniera paterna si manifesta, come abbiamo visto[77], nei tre teleri per il podestà Luca Navagero del 1535-1536 e nel quadro votivo per il podestà Matteo Soranzo del 1536, dove si leggono le prime suggestioni della maniera del Pordenone della quale vediamo la piena adesione negli affreschi della facciata Dal Corno del 1539[78]. Il ritorno del pittore friulano, che era entrato in contatto con Roma e con il mondo michelangiolesco, aveva determinato un’evoluzione della situazione pittorica veneziana verso il Manierismo: di grande propaganda, anche per Jacopo, come si è osservato, fu la decorazione della facciata di palazzo D’Anna sul Canal Grande, del 1535 ca. Riconsiderando la produzione degli anni ’40 - a partire dalla Sant’Anna in trono con Maria Bambina e i santi Francesco e Girolamo (dipinta per i Riformati di Asolo, ora al Museo Civico di Bassano) (fig.34)

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34. Jacopo Bassano, Sant’Anna in trono con Maria Bambina e i santi Francesco e Girolamo (1541).  Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La pala  fu dipinta per i Riformati di Asolo in modi che evolvono verso il linguaggio manieristico in un’interpretazione del tutto originale delle fonti d’ispirazione,  soprattutto attraverso lo studio delle stampe.

del 1541 - vediamo che Jacopo si avvia gradualmente verso il linguaggio manieristico in un’interpretazione del tutto originale delle fonti d’ispirazione. Egli si aggiornava soprattutto attraverso lo studio delle stampe, di cui doveva possedere una ricca collezione e che per lui - naturalmente inclinato a condurre una vita sedentaria nella sua Bassano - furono fin dalla giovinezza il mezzo preferito di accostarsi ai nuovi indirizzi. Contribuì al rinnovamento della sua arte anche la situazione culturale creatasi a Venezia dopo che vi erano arrivati, nel 1539, Francesco Salviati e il suo discepolo Giuseppe Porta e, nel 1541, Giorgio Vasari. La suggestione suscitata dalle loro opere pittoriche e grafiche - nelle quali era evidente quel raffaellismo dovuto alla rilettura che del grande Urbinate avevano offerto Perino del Vaga e Parmigianino - colpisce anche lui insieme con altri maestri come Lamberto Sustris e Andrea Schiavone, che con le sue stampe aveva diffuso in terra veneta il parmigianinismo fin dalla seconda metà degli anni ’30. Esperimenti formali di natura squisitamente manieristica si scorgono in opere bassanesi come il Marco Curzio con il suo manto arcuato al vento, sulla facciata della Porta Dieda, del 1541-1542, ormai scomparso, ma tramandatoci dalla copia di Gaspare Fontana eseguita più di un secolo fa; e nell’affresco, di poco posteriore, raffigurante la Madonna con il Bambino in trono tra i santi Bassiano e Francesco, ora conservato al Museo Civico (fig.35),

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35. Jacopo Bassano, Madonna con il Bambino in trono tra i santi Bassiano e Francesco (1541 ca).  Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 432. L’affresco proviene dal chiostro della chiesa di San Francesco, staccato “a massello” dal pittore Alessandro Müller nella seconda metà dell’Ottocento, operazione che ha provocato la perdita delle finiture a secco e che svela la trama del disegno.

proveniente dal chiostro della chiesa di San Francesco, staccato “a massello” dal pittore Alessandro Müller nella seconda metà dell’Ottocento: è dovuto forse anche a questa operazione, che ha provocato la perdita delle finiture a secco, il suo cattivo stato di conservazione che svela la trama del disegno e la tecnica degli sfumati ottenuti a tratti paralleli, con metodologia simile a quella del disegno e dell’incisione, come osserva il Bettini[79]. Nel santo vescovo, identificato sempre come sant’Antonio abate fin dalle fonti antiche, il Magagnato[80] ha riconosciuto l’immagine di san Bassiano, protettore della città, il culto del quale a Bassano dovette risalire alla dominazione viscontea di fine Trecento, ma la cui festività è attestata dall’edizione degli Statuti di primo Cinquecento. Questa è dunque la prima raffigurazione del santo. L’affresco nel dibattito critico recente[81] ha ricevuto una definitiva collocazione cronologica al 1542-1543 per la vicinanza formale e stilistica, oltre che compositiva, alla pala di Rasai, ora all’Alte Pinakothek di Monaco, documentata nel Libro secondo proprio in quegli anni. È un omaggio a Tiziano il san Francesco in intimo colloquio con la Madonna, desunto, come ricordano le fonti antiche - Ridolfi e Verci -, dall’omonimo santo della pala in San Nicolò dei Frari e ora alla Pinacoteca Vaticana. Costituisce una tappa importante del lungo confronto di Jacopo con la Maniera il Martirio di santa Caterina d’Alessandria per la chiesa di San Girolamo (ora al Museo Civico) (fig.36)

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36. Jacopo Bassano, Martirio di santa Caterina d’Alessandria (1544). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 436. La tela rappresenta una tappa importante del lungo confronto di Jacopo con la Maniera e fu eseguita per la chiesa di San Girolamo nell’estate del 1544 tra il 9 giugno, data della commissione da parte di pre’ Vangelista Ricci, e l’11 agosto, giorno in cui il conto finale fu saldato al pittore.

che, come risulta dalla registrazione del Libro secondo, fu eseguito in tempi brevissimi nell’estate del 1544 tra il 9 giugno, data della commissione da parte di pre’ Vangelista Ricci, e l’11 agosto, giorno in cui il conto finale fu saldato al pittore. Il Verci, che la cita nella chiesa di San Girolamo insieme con la giovanile Fuga in Egitto, ne fa un’efficace descrizione: «Stassi la Santa in mezzo ad uno stuolo di manigoldi scompigliati e confusi dopo che per miracolo si infranse la ruota e si ruppero gli ordigni preparati per martirizzarla. Ammirabili si rendono le positure di essi, li scorci e i tratti»[82]. È, come scrive Giuliana Ericani, «il manifesto dell’approccio incondizionato di Jacopo al linguaggio del Manierismo centroitaliano»[83]. L’ispirazione più diretta per il dipinto è una delle xilografie disegnate da Francesco Salviati per illustrare la Vita di santa Caterina di Pietro Aretino, pubblicata a Venezia nel 1540-1541, ma del tutto originale e sorprendente è il modo di interpretarla in pittura. È un’opera in cui ogni naturalismo e manifestazione dei sentimenti sono eliminati e l’artificio formale e coloristico si esprime nell’abile manipolazione della figura umana e nel sapiente incastro dei corpi disegnati nettamente entro la superficie bidimensionale della tela, rivestiti di una sottile pellicola di colore. Dopo l’apice toccato da questa prova, negli anni immediatamente successivi Jacopo, pur continuando il confronto con la Maniera - questa volta di marcata influenza parmense - ritorna sui suoi passi in una ripresa di naturalismo che convive con una forma e un colore preziosi come si può vedere già nella Pesca miracolosa (ora alla National Gallery di Washington) di diretta derivazione raffaellesca, documentata nel Libro secondo al 1545, commissionata dal podestà di Bassano, Piero Pizzamano[84]. Il dipinto di una spazialità del tutto nuova, presenta per la prima volta la veduta di Bassano con il Grappa a destra, nel paesaggio che dilaga all’infinito. L’esigenza di introdurre una cornice paesistica studiata sul vero si fa strada nelle opere successive come nel Riposo nella fuga in Egitto (1546 ca) della Pinacoteca Ambrosiana e soprattutto nella Santissima Trinità ancora in loco nella chiesa omonima di Angarano, dove ritorna il “ritratto” di Bassano della Pesca miracolosa in una dimensione del tutto aderente al vero: la vita e la natura nel suo aspetto fenomenico si svelano nella visione della campagna e della città affacciata sul Brenta con le concerie in primo piano. Come osserva Ballarin, l’opera «segna nell’ambito della pala d’altare un primo preciso superamento del momento più acuto di confronto con la Maniera»[85]. Il contratto della pala destinata all’altar maggiore della chiesa (dipendente allora dalla matrice di Sant’Eusebio e diventata più tardi la parrocchiale di Angarano), secondo le registrazioni del Libro secondo, risale al 16 novembre 1533, stipulato con Francesco il Vecchio; vi è precisato il soggetto: «con la Ternità et colone due quare et due tonde indorate et le tonde de biaca bronita». Essa fu messa in opera tredici anni dopo, non prima della fine del dicembre del 1546, da Jacopo e fu consegnata il 6 marzo 1547[86]. Quando nel Settecento la chiesa fu riedificata su progetto dell’architetto Giovanni Miazzi (1740-1761), essa conservò la collocazione originaria sopra l’altar maggiore dove la vide il Verci[87]. Venne spostata dove ora si trova, sulla parete di fondo del coro, dopo che questo fu prolungato nel 1870. Lo schema compositivo del quadro con il Padre Eterno che sorregge il Crocifisso ricorda quello della Trinità (1535) del Pordenone, ubicata nel duomo di San Daniele del Friuli e, secondo Rearick[88], più direttamente si avvicina al rilievo marmoreo dell’omonimo soggetto del 1533 di Giovanni Battista Krone della chiesa di Santa Corona a Vicenza. Lo Zottman[89] vede derivare lo schema da un’incisione di Sebald Beham oltre a cogliervi assonanze con la Trinità rappresentata da Albrecht Dürer nell’Altare Landauer (1507-1510) ora al Kunsthistorisches Museum di Vienna. La tela, in origine rettangolare, assunse la forma centinata probabilmente per essere adattata all’altare della chiesa nella riedificazione settecentesca. Le indagini radiografiche e riflettografiche eseguite dopo il recente restauro (2006) hanno documentato altre due diverse parziali redazioni dell’iconografica trinitaria le quali furono coperte dall’esecuzione dell’opera attuale che Jacopo concluse entro il febbraio 1547[90]. Nel gruppo divino che appare come in una visione su uno sfondo di luce abbacinante, s’impone la monumentale figura del Padre accorso dall’alto a sorreggere il Figlio con ambedue le mani: l’una che tiene l’estremità del braccio orizzontale della croce a tau, l’altra che nella stretta lambisce il polso insanguinato del Figlio. L’idea della discesa appena compiuta è suggerita dall’iperbolico manto svolazzante e dalla fluente candida barba ancora piegata del vegliardo dal volto umanissimo. La colomba, simbolo dello Spirito Santo, è resa con vivo realismo: le ali spiegate e palpitanti, l’occhio penetrante, il capo fiero coronato dalle simboliche tre fiammelle, si è posata sulla croce tra il Padre e il Figlio per indicarci che lo Spirito Santo - la terza Persona della Trinità - procede dall’amore tra la prima e la seconda. Il gruppo trinitario spicca circondato da nubi plumbee e minacciose che due putti dal basso cercano di allontanare, mentre altri due fanciulli, ai lati, uno con in mano un flauto e una corona di fiori, l’altro con un tamburello celebrano la Redenzione e la Regalità divina. Tra la visione celeste della Trinità e quella del mondo terreno, rappresentato in basso, viene stabilito un concreto rapporto con la croce, saldamente conficcata nel suolo accanto al teschio di Adamo e all’albero della vita spezzato a indicare come il Sacrificio di Cristo sia l’evento centrale nella storia della Salvezza. Al centro del dipinto il Brenta si dilata come un golfo di mare percorso da velieri dove è ambientato l’episodio tratto dalla Legenda Aurea di Jacopo da Varagine, che serve come chiave di lettura di tutta la pala: quasi in miniatura è raffigurato l’incontro, avvenuto lungo la riva del mare, di sant’Agostino con un fanciullo apparso all’improvviso che voleva travasare in una piccola buca tutta l’acqua del mare. Secondo il racconto, al santo che gli faceva notare come ciò fosse impossibile, il fanciullo ribattè che allo stesso modo era per lui impossibile penetrare l’immenso mistero della Trinità. Il significato religioso è esplicito in questo episodio ma altri sono nascosti in dettagli in apparenza decorativi. Nella lettura di Bernard Aikema[91] il particolare della coppia di contadini, l’uomo che sostiene un bastone sulle spalle, la donna, anch’essa con le mani occupate a reggere merci da portare al mercato - due personaggi che compaiono nei dipinti di Jacopo a partire dalla Fuga in Egitto del 1542, ora al museo di Toledo nell’Ohio - che si allontana stoltamente dal gruppo della Trinità, è la vivente rappresentazione della tepiditas, l’indifferenza e l’incredulità di molti che contrasta con la fede e l’intima partecipazione dei veri credenti. Significati negativi sono associati sia al personaggio che esce correndo dalla capanna diroccata in cui arde il fuoco e sembra sbattere addosso al muro, personificazione della cecità; sia a quello a lato dell’edificio, raggomitolato in se stesso in una posizione di inattività e introversione, personificazione dell’accidia. Le loro immagini sono nella parte sinistra del quadro in un ambiente desolato e insicuro con capanne e case in rovina, a raffigurare l’immanenza del limite umano e del peccato. Sulla destra, invece, si coglie una rappresentazione serena e ordinata del mondo, dove si svolgono episodi di operosità e di concreta adesione al piano divino di Salvezza. Non abbiamo in città esempi del periodo tra il 1550 e il 1555, caratterizzato dal più prezioso stile manieristico, come sono la Pentecoste della parrocchiale di San Giacomo di Lusiana (1551), l’Adorazione dei Pastori (1552 ca. Roma, Galleria Borghese), il Ricco Epulone (1554 ca. Cleveland, The Cleveland Museum of Art), l’Adorazione dei Magi (1550 ca, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemälgegalerie), nei quali Jacopo raggiunge vertici di astrazione formale e di estrosità cromatica. Dopo il 1555 il confronto con la Maniera si va progressivamente allentando e a documentare questo processo è il San Giovanni Battista nel deserto dall’origine posto sull’altare intitolato al santo nella cappella a destra della maggiore della chiesa di San Francesco: fu trasportato in Municipio nel 1796 in seguito alla soppressione della chiesa e del convento, e nel 1876, dopo varie vicende, è pervenuto al Museo Civico[92](fig.5 p.140).

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5. Jacopo Bassano, San Giovanni Battista nel deserto, olio su tela, 1558. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 19. Bartolomeo Testa è ricordato in un documento del notaio Gosetti mentre dota l’altare della cappella di San Giovanni Battista della chiesa di San Francesco di Bassano, che già aveva fatto restaurare e arricchito dell’ omonima pala, di una messa quotidiana.

La piccola pala ha avuto una collocazione cronologica sicura al 1558 grazie alla scoperta documentaria del Sartori[93]: il 27 dicembre 1558 Jacopo è presente come testimone alla stesura di un atto notarile, in cui il sacerdote Bartolomeo Testa[94] dota la cappella di San Giovanni Battista nella chiesa di San Francesco di Bassano, dopo averla fatta restaurare e averla ornata di una nuova pala. Si tratta, a evidenza, della nostra paletta con San Giovanni Battista nel deserto. Riportata all’interno delle esperienze manieristiche che si concluderanno con la Crocifissione (ora al Museo Civico di Treviso) del 1562-1563, l’opera rivela un riavvicinamento di Jacopo al mondo lagunare con la scoperta del valore espressivo della luce di Paolo Veronese quale si manifesta nell’impresa decorativa della Libreria Marciana, soprattutto nei tondi allegorici del 1556-1557; ma, come scrive Vittoria Romani[95], «presenta al tempo stesso un disegno più “sforzato”, da leggersi in relazione con la ripresa di salviatismo che circolava in quello e in altri complessi soprattutto a opera del Porta e dello Schiavone». Il santo, la testa riversa all’indietro, il torace proiettato in avanti, si profila entro un paesaggio naturale - cosi veronesiano nel suo impianto coloristico - il quale diventa partecipe del soggetto, tanta è l’importanza che gli viene conferita. È un’interpretazione molto originale del tema tratto da un passo del Vangelo di Luca (3, 2 «la parola di Dio fu rivolta a Giovanni, figlio di Zaccaria nel deserto»), dove «esplicito è il rapporto con l’invenzione delle prime pastorali che è di questo stesso momento, come garantisce anche la comune matrice salviatesca e veronesiana». Per quanto riguarda la singolare iconografia della paletta è interessante la lettura che ne fa la Meilman[96] - anche alla luce dell’attenzione di Jacopo per le fonti religiose dei propri dipinti - riflettendo «sul rapporto tra san Francesco e san Giovanni Battista nella Legenda maior di san Bonaventura e del ruolo della luce nel pensiero francescano». La studiosa ritiene l’iconografia ispirata, in parte, alla xilografia di Antonio da Trento da Parmigianino che mostrerebbe come la composizione di Jacopo sia impostata in modo tale da ammettere lo spettatore alla rivelazione della luce divina. Anche lo studio di Berdini[97] è rivolto a un approfondimento iconologico del dipinto e della committenza francescana. In San Francesco era anche la pala della Pentecoste, dove ornava l’altare dello Spirito Santo che trovava posto nel muro nord del transetto. Con la soppressione di chiesa e convento nel 1781 passò in Municipio e nel 1840 al Museo Civico (fig.37).

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37. Jacopo Bassano, Pentecoste (1559ca).  Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 16. Dalla chiesa di  San Francesco proviene anche la pala della Pentecoste, che ornava l’altare dello Spirito Santo nel muro nord del transetto. Rappresenta  uno dei momenti più alti della nuova stagione dalpontiana del luminismo di tocco.

Il soggetto già trattato da Jacopo nella paletta della parrocchiale di San Giacomo di Lusiana, documentata al 1551, è ispirato al passo degli Atti degli Apostoli che ricorda la discesa dello Spirito Santo sotto forma di lingue di fuoco. In un interno definito da strutture classiche gli apostoli si stringono intorno alla Vergine rapita in preghiera. Gesti d’invocazione e di implorazione si alternano ad atteggiamenti di meditazione, come nella figura seduta all’estrema destra intenta a leggere il libro appoggiato sulle ginocchia. In evidenza, in primo piano, sono rappresentati san Pietro e san Luca connotati rispettivamente dagli attributi delle chiavi e del calamaio con lo stilo, «allusivi alla traditio e alla scriptura, tendenti a ribadire, in linea con la stretta ortodossia della committenza francescana, la fedeltà alle tesi del Concilio e l’aspetto istituzionale della Chiesa, fondato sull’evento pentecostale»[98]. Il dipinto venne pulito drasticamente e ampliato nella parte superiore e ai lati – è un’aggiunta l’apostolo che prega a sinistra – in una data precedente al 1687 quando un’incisione di Crestano Menarola[99] la riproduce nello stato attuale. L’intervento, probabilmente opera di Giambattista Volpato, è giudicato negativamente dal Verci[100]. Tra i disegni ritenuti preparatori per le teste degli apostoli è lo Studio per una testa maschile a gessi colorati, conservato all’Albertina di Vienna[101], riferibile a san Luca seduto a sinistra della pala. Affrontando qui per la seconda volta il tema, Jacopo non riprende l’invenzione della paletta di Lusiana, ma si ispira, nella composizione, alla tela di uguale soggetto dipinta da Tiziano per la chiesa veneziana di Santo Spirito in Isola (e ora alla Salute), realizzata poco oltre la metà del quinto decennio. La pala, a lungo considerata dalla critica del 1570 ca, ha avuto, grazie soprattutto agli studi di A. Ballarin[102], un’anticipazione al 1559 ca «in ragione dell’assunto formale neosalviatesco e della violenza di scavo della luce che bene s’inquadrano al seguito dell’esperienza del Battista documentato al 1558»[103]. La tendenza di risolvere le preoccupazioni formali in quelle di ordine luministico veniva affrontata a Venezia in questi stessi anni da Tiziano nella pala del Martirio di san Lorenzo per la chiesa dei Crociferi, poi dei Gesuiti, inaugurando la sua ultima maniera. Nel periodo successivo, dal 1562 - data della Crocifissione del Museo Civico di Treviso - al 1568, Jacopo va maturando un linguaggio piano e naturale, in cui sono valorizzate le potenzialità descrittive della luce. Opere come la Visione di sant’Eleuterio (Venezia, Gallerie dell’Accademia) e l’Incontro di Giacobbe con Rachele al pozzo (1566 ca di Raccolta privata torinese), - di cui è depositata in comodato presso il nostro Museo una replica pressoché coeva (vol.I p.389 fig.6)

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6. Jacopo Bassano, Incontro di Giacobbe e Rachele al pozzo.Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, donazione W.R.Rearick. Jacopo Bassano esegue a partire dagli anni ’60 del Cinquecento numerosi dipinti nei quali è documentata la pastorizia. Le pecore vi sono raffigurate dal vero con le caratteristiche della pecora dell’Altopiano.

- una delle favole pastorali create per il collezionismo, segnano le tappe di questo iter che culmina nell’Adorazione dei pastori nota come il Presepe di San Giuseppe (ora nel nostro Museo Civico) (tav.8). La pala firmata sul basamento della culla del Bambino «JAC.S A PONTE / BASSAN.S P.» fu collocata sull’altar maggiore della chiesetta di San Giuseppe, sede dell’omonima Confraternita, il 18 dicembre 1568 . Per il dipinto il gastaldo segnala un pagamento di «ducati cinquanta a lire 6 soldi 4 per ducato» e Jacopo documenta, in data 2 gennaio 1569, il saldo di lire 59 e soldi 16[104]. L’opera è passata al Museo Civico nel 1859 quando la chiesa fu chiusa. È la più bella delle redazioni del tema che, a partire dalla metà degli anni ’40, diviene uno dei soggetti più amati dall’artista. Nell’analisi dello stile di Jacopo il Verci ricorre spesso a questo dipinto per esemplificare i raggiungimenti dell’artista nella «quarta maniera», della quale sembra essere il manifesto. La scena è impaginata tra due quinte di ruderi architettonici, con il caratteristico tetto di stoppie, oltre i quali si apre il paesaggio con il Grappa azzurro sullo sfondo intonato su una luce fredda, vespertina. Il punto di vista ribassato coglie da vicino il sacro evento: la Vergine è raffigurata nell’atto di scoprire il Bambino che dorme rannicchiato. A sinistra, dietro san Giuseppe assopito, assistono i santi Vittore e Corona, compatroni della chiesa di San Giuseppe, e si affaccia una terza figura, certo un ritratto per le evidenti caratteristiche fisionomiche. A destra è il gruppo dei pastori con i loro animali, copiati dal vero quotidiano. La luce proveniente dallo squarcio del cielo, in cui si librano in volo gli angioletti, e dal nuvoloso orizzonte unifica mirabilmente la composizione conferendo a essa un senso di classica solennità. La tecnica pittorica e il modo di impaginare la scena sul primo piano si ritrovano molto simili nella Pastorale di Budapest, dove compare lo stesso cane da pastore con il collare di rovi per tenere lontani i lupi. Fin dalle origini la pala fu ammirata dai contemporanei tanto che, secondo la testimonianza del Ridolfi (1648), molti tentarono di acquistarla «con larghe elargizioni». Riportata dal Verci[105] la deliberazione, in data 26 marzo 1674, della Confraternita di San Giuseppe che dispone che «tanto tesoro» non debba essere per nessuna ragione rimosso dal luogo dove si trovava «e ciò in pena di Ducati 500, dando autorità alli Massari di fortificar quella tanto avanti, quanto di dietro per la sua conservazione». Dipinto per una chiesa bassanese è anche la pala con San Valentino battezza santa Lucilla(tav.9) è un capolavoro dell’ottavo decennio il quale è segnato da una straordinaria crescita di attività dell’atelier dalpontiano per la grande richiesta delle celebri composizioni naturalistiche, ambientate entro ampi paesaggi, che Jacopo aveva inventato in quegli anni: ai temi pastorali si affiancano i cicli di soggetto biblico e allegorico delle Stagioni, degli Elementi, delle Storie di Noè e, verso la metà del decennio, le storie sacre a lume notturno realizzate talvolta su supporti di pietra nera. Per rispondere alle esigenze di mercato Jacopo verso il 1575 organizzò la bottega per una produzione seriale avvalendosi della collaborazione dei figli: dapprima Francesco, attivo già dalla metà degli anni ’60, e in misura minore Giambattista - il cui modesto contributo si confonde con quello degli aiutanti della bottega - e più tardi di Leandro. In queste invenzioni come anche nelle pale è chiaro l’intento di dare monumentalità alla scena su basi prospettiche per consentire un racconto sviluppato scalando le figure in diagonale verso il fondo paesistico. Questo impianto è presente nel San Rocco visita gli appestati del 1570 ca. (oggi a Brera), nel Martirio di san Lorenzo del 1571, ancora in loco nel duomo di Belluno, nella Predica di san Paolo della chiesa di Sant’Antonio abate di Marostica datata 1574 (fig.38),

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38. Jacopo e Francesco Bassano, La predica di San Paolo (firmata e datata 1574). Marostica, chiesa di Sant’Antonio Abate. Il dipinto, prima opera firmata con il figlio, sviluppa l’ambientazione architettonica delle pale degli anni ’70 ed è un documento importante dei modi della collaborazione con il figlio più anziano.

importante esempio della prassi di collaborazione istituita da Jacopo in bottega, firmata insieme al figlio Francesco. Datata 1574 è anche la Deposizione di Cristo nel sepolcro della chiesa di Santa Maria in Vanzo di Padova, di cui Jacopo eseguì, subito dopo, la replica con qualche variante per la chiesa di Santa Croce di Vicenza (ora nella parrocchiale dei Carmini della città). Il riflesso delle sperimentazioni condotte nel quadro da collezione è evidente in queste pale, dove è caratteristica l’introduzione di brani di genere. Il San Valentino battezza santa Lucilla reca la firma nell’alzata del gradino inferiore: «JAC A PONTE / BASSANENSIS F.»(tav.9). Proviene dall’altare di San Valentino, giuspatronato della famiglia Guadagnini, della chiesetta di Santa Maria delle Grazie officiata dai Serviti insediati nel vicino convento. L’edificio raggiunse verso la metà del Cinquecento la sua forma architettonica definitiva con «una pianta allungata e stretta sviluppata tangente alle mura per lasciare il corso alla strada comunale, connessa al monastero da due poggioli coperti e terminante a sud con una sagrestia», aspetto che compare nella mappa dalpontiana[106]. Quello che rimane dell’interno - che subì un accorciamento - «nelle arcatelle in alto sulle pareti, rivela, nel suo discreto lessico palladiano e nei segni non forzati in profondità, un linguaggio architettonico ancora primo cinquecentesco, che gioca su un luminismo discreto»[107]. Di mano di Jacopo è non solo questa pala, ma l’intera decorazione cinquecentesca riguardante i tre altari con importanti commissioni, che gravitano tutte intorno alla Confraternita dei tessitori della lana, la quale qui teneva le sue assemblee, e alla famiglia Guadagnini a essa legata. Delle opere, tutte testimoniate dal Verci[108], oltre la pala di San Valentino sopravvive, pur depauperato nei suoi valori pittorici, l’affresco realizzato da Jacopo sulla parete sinistra dell’altare principale, raffigurante la Santissima Trinità con la veduta del ponte palladiano (fig.39).

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39. Jacopo Bassano, La Trinità con il ponte di Bassano (1575 ca).  Bassano del Grappa, Chiesa delle Grazie. L’affresco con la Santissima Trinita fu il primo intervento eseguito da Jacopo nella chiesa servita di Santa Maria delle Grazie subito dopo la decorazione della cappella del Rosario della parrocchiale di Cartigliano e rappresenta la prima raffigurazione in pittura del Ponte di Bassano.

Sono perdute le tracce della tela che ornava l’altare di Sant’Andrea, patrono dei tessitori, con Sant’Andrea e san Gottardo; ed è andato distrutto l’affresco sul poggiolo costruito dai Serviti per il passaggio dal convento alla chiesa con il soggetto così descritto dal Verci: «La Regina de’ Cieli in gloria, e Cherubinetti intorno; ed a’ piedi Frati della Religione de’ Servi... e gentili donne adoranti, e nel mezzo naturale paese». Secondo la ricostruzione cronologica proposta da Giuliana Ericani, l’affresco con la Santissima Trinità fu il primo intervento, eseguito da Jacopo subito dopo la decorazione della cappella del Rosario della parrocchiale di Cartigliano datata 1575; mentre il Battesimo di santa Lucilla è collocabile tra il 1577 e il 1578. Alla seconda metà dell’ottavo decennio è riferibile anche l’affresco con i confratelli dell’ordine servita intorno all’immagine della Vergine in gloria; e il Sant’Andrea e san Gottardo, secondo la documentazione storica, dovrebbe appartenere alla produzione dell’ultimo decennio di vita dell’artista[109]. Il soggetto della Lucilla, l’unico che si conosca nella pittura veneta dell’epoca, è ispirato in parte dal capitolo dedicato a san Valentino nella Legenda Aurea, in parte dalla tradizione agiografica su santa Lucilla. Valentino, «prete di molta stima», venne sottoposto a interrogatorio dall’imperatore Claudio II, feroce persecutore dei cristiani, che stava quasi per convertire se il prefetto, allarmato non avesse richiamato l’imperatore al suo dovere. Il sacerdote venne allora dato in custodia ad un alto ufficiale, Nemesio, che aveva una figlia cieca, Lucilla. Si noti che questo nome è diminutivo di Lucia, a sua volta derivato dal latino lux. Valentino, pregato «Cristo, vera luce», non solo donò alla giovane la luce fisica degli occhi, ma anche, dopo averla convertita insieme al padre, quella soprannaturale dell’anima con il battesimo. Saputo ciò, l’imperatore fece decapitare Valentino: il martirio, secondo la Legenda Aurea, avvenne verso l’anno 280 del Signore. Qualche tempo dopo, anche Nemesio e Lucilla subirono la stessa sorte. Come le altre pale dell’ottavo decennio, il dipinto è costruito su un’intelaiatura di edifici prospettici che, posti in diagonale, penetrano con effetto illusivo nella profondità del paesaggio, ancora una volta quello bassanese. Nelle solenni architetture classiche forse Jacopo ha voluto rievocare la Roma imperiale; tuttavia raffigura i personaggi in vesti moderne e sigilla questo senso di contemporaneità mettendo nelle mani del chierichetto la croce astile del Filarete, commissionata nel 1449 dalla Città di Bassano per il duomo di Santa Maria in Colle, usata per secoli nelle cerimonie liturgiche. Valentino è colto nel momento in cui versa l’acqua battesimale sul capo dell’inginocchiata Lucilla, al fianco della quale si inchina il padre Nemesio quasi a voler poi sottoporsi anche lui al rito sacramentale. Altri personaggi assistono alla cerimonia più o meno partecipi: il paggio che reca sul braccio il velo di Lucilla, i due nobili in colloquio sotto l’arco e l’uomo affacciato a spiare da dietro il pilastro, forse il prefetto che andrà a riferire l’accaduto all’imperatore. Il seguito della storia è suggerito dall’apparizione dei due angioletti librati in cielo con la palma del martirio che subiranno i tre protagonisti. La luce soprannaturale che piove dall’alto è insieme simbolo della gloria che attende i martiri e della rinascita spirituale infusa a Lucilla dal battesimo. Anche se non fanno parte dell’episodio centrale, scalato un po’ all’interno, non vengono a turbare l’atmosfera intima i due gruppi laterali in primo piano: a sinistra la ricamatrice e il fanciullo curioso del lavoro di lei; a destra un turco, forse un mercante, che maneggia un’anfora in rame, vicino al cane acciambellato. Questo inserimento di quotidianità «rappresenta una delle più toccanti concessioni alla pittura di genere riscontrabili in una pala d’altare», come scrive l’Arslan[110]. Il Verci (1775) inserisce l’opera tra quelle in cui la tecnica dell’«accordato», affine alla maniera del lume «serrato» mostra tutte le possibilità delle mezze tinte in cui l’estremo grado di artificio è mascherato dalla naturalezza: il tocco minuto e nervoso vitalizza i colori e compie il miracolo del «drappo nero che parea bianco» (è la lode, riferitaci dal Roberti[111] nel 1777, che ne fece Giambattista Tiepolo in una lettera al figlio Domenico, dopo aver visto la Lucilla in un viaggio a Bassano). Il restauro del 1992 permette di leggere meglio la qualità più modesta di alcune parti, come le architetture di un colore sordo, già notato dalla critica e certi particolari in cui prevale una pennellata descrittiva, non dovuta alla mano di Jacopo, come è possibile per un’opera uscita dalla bottega alla metà dell’ottavo decennio (1575 ca è la data per lo più condivisa) nel momento di più stretta collaborazione di Francesco con il padre. Ma la pulitura ha portato allo stato originale il viraggio luministico del bianco verso l’argento e la preziosità di brani come quello della croce e della veste di Lucilla: «Lucilla, ti è più lucida e celesta / De qual se sia diamante resplendente», così scriveva il Boschini (il quale ne La Carta del Navegar Pitoresco del 1660 a essa dedica più di cento versi), che si era inginocchiato davanti al quadro: «per tocar con le man / Quei colpi quele machie, e quele bote, / Che stimo preciose perle fine / Perle, rubini, smeraldi, e turchine / Diamanti che risplende fin la note»[112]. Se in certi brani descrittivi della Lucilla si può cogliere, come osservano alcuni studiosi, una collaborazione con il figlio Francesco, del tutto autografo è il visionario San Martino e il povero e sant’Antonio abate(fig.40),

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40. Jacopo Bassano, San Martino e il povero e sant’Antonio abate (1578-1580).  Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 25. Il dipinto, ricordato nel 1580, fu eseguito per la chiesa di Santa Caterina, affidata dal 1476 ai frati Eremitani. Jacopo rivela qui un’ansia di sperimentazione pittorica  ottenendo «brani di colore incandescente che non sarebbero spiaciuti a Rembrandt» (Pallucchini).

che inaugura l’ultima solitaria stagione del grande pittore. La pala (ora al Museo Civico) proviene dalla chiesa di Santa Caterina, annessa a un ospizio e affidata dal 1476 ai frati Eremitani[113]. San Martino e sant’Antonio abate erano venerati dall’ordine degli Eremitani e, come osserva Giuliana Ericani, se la scelta primaria - per la destinazione alla chiesa dell’ospizio dei pellegrini sorto sotto il castello nei pressi del Brenta - è quella di Martino di Tours, il santo cavaliere protettore dei deboli e degli oppressi, la presenza, accanto a lui, di sant’Antonio abate protettore del bestiame «non è arbitraria, ma costituisce un rafforzamento iconologico. Vi viene infatti riaffermato il valore assegnato da san Martino alle comunità rurali, alle quali dedicò gran parte della sua evangelizzazione»[114]. Per la datazione del dipinto il termine ante quem è il 3 marzo 1580, quando in un contratto Jacopo si impegna a fornire, per la festa di san Martino di quell’anno, alla Confraternita della chiesetta di San Giuseppe una pala con la Vergine in gloria e le sante Apollonia e Agata (ora al Museo Civico di Bassano) con l’accordo che essa sia di «forma simile» a quella, da lui eseguita «de S.n Martin in S.ta Catt.a». La critica recente è orientata per una datazione tra il 1578 e il 1580[115]. In questo dipinto Jacopo fa un ulteriore passo in avanti nel rinnovamento della pala d’altare rispetto anche alla vicina Circoncisione (1577) e valorizza in una interpretazione del tutto personale la bidimensionalità della tela: libero da preoccupazioni prospettiche presenti nelle grandi pale degli anni fino al 1575, e nei quadri d’ispirazione paesistica e di genere condotti nel 1576-1577, nel periodo di più fervida collaborazione con il figlio maggiore, egli ora predilige, nella messa in scena, una sintassi ellittica, come rivelano lo straordinario scorcio del concitato incontro di san Martino con il povero, a cui dona metà del suo mantello, e il modo così libero di rapportare questo gruppo principale, composto a chiasmo, con la solitaria figura di sant’Antonio abate, per nulla partecipe dell’evento[116]. Quella che viene rappresentata è un’apparizione fantastica, e lontano da ogni intento naturalistico e descrittivo è anche lo sfondo: l’indimenticabile tramonto tessuto di rosa e azzurro sulle nubi biancastre in contrasto con lo scuro sperone montuoso a destra e il Golgota a sinistra, dove le figure del Crocifisso, della Madonna e di san Giovanni sono rese con poche pennellate intrise di luce evanescente. L’impiego sapiente del luminismo riesce a tenere ancora insieme, in un certo ordine spaziale, i piani del quadro, ritornati più evidenti dopo il restauro di un ventennio fa con la chiarificazione di alcuni particolari prima piuttosto confusi: in primo piano un libro, il fuoco e il porco, attributi di sant’Antonio abate, sulle cui ginocchia è ora più visibile un pentimento (la traccia del libro che è stato spostato)[117]; l’aureola di san Martino, prima ridotta a un alone di colore indistinto e i vari toni di rosso del suo mantello; il verde del prato e della valle che s’inoltra verso il Calvario; la seconda quinta naturale, più chiara di quella anteriore. A un’analisi ravvicinata Jacopo rivela qui un’ansia di sperimentazione pittorica simile a quella che lo aveva animato nel passato offrendo «brani di colore incandescente che non sarebbero spiaciuti a Rembrandt», come scrive Pallucchini[118]. La pennellata grassa, stesa a colpi decisi, obbliga lo spettatore ad allontanarsi per sintetizzare l’immagine altrimenti indistinguibile. In qualche caso, come nell’incarnato del mendico lungo il bordo dell’abito, le ombre sono ottenute, per riserva, utilizzando la preparazione di fondo color grigio caldo. A definire la forma è la straordinaria forza della luce che suscita bagliori nell’armatura del santo, percorsa dai riverberi rossi del mantello svolazzante, intride la criniera scompigliata del cavallo bianco e la veste rosata del mendico. Accentuando così l’espressività della luce Jacopo mostra l’accostamento alla pittura veneziana, soprattutto a Tiziano, ma anche una ripresa della tensione fantastica della sua maturità: «l’arco araldico del collo crestato del cavallo e l’arrovesciarsi del dorso del mendicante segnano due impennate finali della sua educazione manieristica», come sottolinea Magagnato[119]. Esempio di come continui la collaborazione di Jacopo con il figlio Francesco sino alla fine dell’ottavo decennio è la pala con Il Paradiso (passata, a seguito delle soppressioni napoleoniche, in Municipio nel 1812 e di lì, nel 1840, nel Museo Civico) (tav.10) che era posta fin dall’origine sull’altare maggiore della chiesa dei Cappuccini dedicata a tutti i santi - l’unica costruita a Bassano durante il Cinquecento - sorta nel luogo nel romitorio delle Salbeghe, dopo la morte, nel 1552, dell’ultimo eremita, Antonio Grande[120]. I Cappuccini vi si insediarono l’8 maggio 1568 e ottennero un sussidio dal Comune per i lavori della chiesa che fu consacrata da Francesco Corner, vescovo di Treviso, il 21 ottobre 1573. Nel 1577 l’edificio fu ampliato e il complesso conventuale sui due piani con il muro di cinta fu portato a termine nel 1590. Il Da Portogruaro[121], che ha ripercorso queste vicende costruttive, afferma, senza sostegno documentario, che la pala con Il Paradiso era esistente sull’altare maggiore, come doveva secondo la consuetudine liturgica, al momento della consacrazione nel 1573, datazione incompatibile con l’analisi stilistica del quadro. Come pensa Ericani[122] è più probabile che il termine post quem per la sua esecuzione sia il 1577 anno in cui si procedette all’ampliamento della chiesa. Approfondendo l’iconografia del soggetto di Ognissanti la studiosa precisa che «le figure celesti che vi compaiono sono quelle delle antifone e delle lezioni del Credo secondo Damaso, la Santissima Trinità, la Madonna, gli Angeli, i Santi, gli Apostoli, i Martiri, i Confessori, le Vergini, e le gerarchie terrene, dai Vescovi ai Decani, fino ai Pueri»[123]. Come scrive il Verci[124] in questa gloria dei santi che accoglie oltre cinquanta «bellissime figure» è presentato quasi una sorta di compendio di tutte le pose utilizzate dal pittore per le sue opere, alcune delle quali, a detta del Ridolfi[125], tolte da Tiziano. Al vertice, sotto la luce dello Spirito Santo intorno a Gesù, ai cui lati stanno la Vergine e san Giovanni Battista, in ampi cerchi si dispongono le schiere angeliche. Più in basso, riportando la puntuale descrizione di G. Ericani, «a destra san Paolo con san Lorenzo e santo Stefano, san Pietro e san Luca (?) a sinistra. Al centro della scena nel registro più alto, i patriarchi e i profeti e al di sotto a sinistra i padri della Chiesa con un gruppo di sante tra le quali sono riconoscibili santa Caterina con la ruota, santa Maria Maddalena, santa Giustina, sant’Agata seduta e santa Lucia. A destra un santo vescovo (san Bassiano?), un francescano, un agostiniano e un cappuccino, e san Francesco. In primo piano sul davanti un gruppo di santi tra i quali si riconoscono, da destra, sant’Antonio abate e san Martino, sant’Andrea (?), santa Veronica, san Rocco, un papa, un santo con turibolo, san Nicola da Tolentino, santa Chiara e santa Caterina da Siena. […] La varietà dei volti, degli abiti e delle pose diviene occasione per la scelta di profili, luccicare delle sete, sprofondare nelle ruvide pezzature scure, brillare di piccoli oggetti, turiboli, corone, stelle»[126]. San Martino, sant’Antonio abate e il personaggio di schiena (in una posa analoga a quella del povero) che introduce la visione sono tratti dalla pala con San Martino e il povero con sant’Antonio abate per la chiesa di Santa Caterina: la sua probabile data tra il 1578 e il 1580, costituisce, per la maggior parte della critica, un termine post quem per la collocazione cronologica del dipinto. Da alcuni autori ritenuta di collaborazione specialmente con Leandro, l’opera è stata rivalutata e restituita alla sostanziale autografia di Jacopo. L’individuazione di pennellate diverse, riferibili sostanzialmente a due ductus, «uno sottilissimo, l’altro più corposo», evidenziate dalle radiografie eseguite nel 1992, ha portato Giuliana Ericani a riconoscere la collaborazione con il figlio Francesco e a confermare una data tra il 1578 e 1580 che «meglio conviene alla materia pittorica, anche in relazione alle opere di quegli anni»[127]. L’ultima opera dipinta da Jacopo per una chiesa bassanese è la Madonna con il Bambino in gloria e le sante Agata e Apollonia(fig.41)

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41. Jacopo Bassano, Sant’Agata e Santa Apollonia  (1580). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 24. La paletta è documentata come opera commissionata a Jacopo il 3 marzo 1580 dalla Confraternita di santa Maria e San Giuseppe per la chiesa omonima esistente nell’area del Castello superiore. La pennellata densa connota un momento quasi finale della maestria coloristica dell’artista bassanese.

di cui, come si è visto, conosciamo la data di commissione da un manoscritto conservato presso la Biblioteca Civica di Bassano, dove Jacopo ne annota l’accordo del 3 marzo 1580 con i massari della Confraternita di Santa Maria e San Giuseppe impegnandosi a consegnarla entro il giorno di san Martino del 1580. Il compenso pattuito è di L. 150: gli acconti dell’8 marzo e del 14 settembre 1580 sono registrati da parte di Jacopo, quello del 19 settembre 1580 dal figlio Gerolamo, il quale firma il saldo il 21 gennaio 1581[128]. Il dipinto andò a ornare l’altare di santa Apollonia nella chiesetta di San Giuseppe, per la quale Jacopo, come si è visto, aveva eseguito nel 1568 il celebre Presepe di San Giuseppe. Le annotazioni di Gerolamo nel documento erano state da qualcuno interpretate come una prova della sua collaborazione con il padre in quest’opera, che è invece, come conviene la maggior parte degli studiosi, un’importante testimonianza di come Jacopo si avvia verso l’ultima stagione della sua lunga storia, quella del nono decennio. La Vergine con il Bambino appare in cielo alle due sante raffigurate in piedi in primo piano, iconograficamente canoniche nelle ricche vesti e nei simboli del martirio offerti su un piatto, i seni per sant’Agata, i denti per sant’Apollonia. Straordinario il paesaggio di sfondo con il Grappa illuminato dalle prime luci dell’alba. Il Verci[129] sottolinea i pregi tecnici dell’opera citandola col Presepe di San Giuseppe e il San Giovanni Battista tra i capolavori di quelle «pratiche composte di colpo, acquerelle, e trattizzo» che caratterizzano la quarta e ultima, per il Verci, maniera di Jacopo. Si sofferma infatti a descrivere le «teste tratteggiate, le mani colpeggiate, il Bambino Gesù in braccio alla Vergine tratteggiato, la faccia e le mani della Vergine colpeggiate». L’intervento di una collaborazione sembra da escludersi poiché, come scrive Paola Marini, «l’esame durante la pulitura dalle vernici ingiallite, di un ventennio fa, ha permesso di constatare una coerente unità di mano, sicurissima e rapida nell’ottenere con mezzi essenziali una resa di grande libertà ed effetto pittorico»[130]: è un esempio dell’attività finale di Jacopo - impegnato in un’instancabile sperimentazione del mezzo pittorico - la cui grandezza è stata messa in luce dagli studi di Alessandro Ballarin, che intorno alla Susanna e i vecchioni (ora a Nîmes, Musée de Beaux Arts), datata 1585, ha raccolto un cospicuo numero di dipinti del nono decennio[131]. Tra le opere recuperate al suo catalogo troviamo dipinti di tematica religiosa con predilezione di episodi della Passione di Cristo, di cui sono esempi la Deposizione del Louvre (1580-1582) e il Cristo deriso di Oxford (Christ Church College) del 1590 ca e, tra le pale d’altare, l’Adorazione dei pastori in San Giorgio Maggiore a Venezia e l’estremo Battesimo di Cristo (in prestito al Metropolitan Museum di New York)(fig.42)

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42. Jacopo Bassano, Battesimo di Cristo (1592). New York, Metropolitan Museum. Il dipinto con l’ immagine spettrale del Grappa sullo sfondo, rimasto incompiuto, è registrato al n. 64 nell’ inventario, redatto per ragioni ereditarie il 27 aprile 1592, delle opere trovate nella bottega dopo la morte di Jacopo.

dove vediamo, sullo sfondo, l’immagine spettrale del Grappa, rimasto incompiuto, registrato al n. 64 nell’Inventario - redatto per ragioni ereditarie il 27 aprile 1592 e riportato dal Verci [132] - delle opere trovate nella bottega dopo la morte di Jacopo. Sono notturni dove l’evento è evocato mettendo dentro a una spazialità dilatata le figure senza disegnarle e plasmandole con i colori - che ora sono caldi e brillanti - stesi con pennellate dense in un’esecuzione informe simile a quella del tardo Tiziano e del tardo Tintoretto[133]. La Circoncisione è l’unica opera di Francesco (1549-1592) a Bassano e fu compiuta in collaborazione con il padre. Egli si era formato nella scuola-bottega paterna tra il 1560 e il 1570: un periodo nel quale Jacopo, ritornando dopo l’ultima impennata manieristica, alla tradizione veneziana, raggiungeva una straordinaria padronanza formale e coloristica oltre a un grande equilibrio compositivo. Si educò dunque a un modo di narrare basato sull’osservazione della realtà, di rapportare le figure all’ambiente architettonico, risolto in una fuga prospettica di edifici posti in diagonale fino allo sfondo paesistico. È lo schema della Predica di san Paolo di Marostica, datata 1574, la prima opera che Jacopo firma insieme con Francesco riconoscendo ufficialmente l’arte del figlio a pari dignità. La doppia firma ritorna in due delle quattro pale della parrocchiale di Civezzano (1575 ca), l’Incontro di Gioachino e Anna alla Porta Aurea e la Predica del Battista; e appunto nella Circoncisione, datata 1577 (fig.43),

43JacopoeFrancescoBassano

43. Jacopo e Francesco Bassano, Circoncisione (firmato e datato 1577). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 21. La pala, commissionata dalla Confraternita del Nome di Gesù per il proprio altare in Santa Maria in Colle, si segnala per il raffinato brano ritrattistico del doge Venier dietro la figura della Vergine.

dove i due pittori si ritraggono a sinistra, accanto al doge Sebastiano Venier. Jacopo lascia largo spazio al figlio anche nella decorazione freschiva, datata 1575, della cappella del Rosario nella parrocchiale di Cartigliano. L’apporto di Francesco in questo periodo fu fondamentale nella vasta produzione collettiva della bottega di dipinti con soggetto biblico-pastorale (come gli episodi del ciclo di Noè) e allegorici (Stagioni, Elementi) e con scene della vita di Cristo ambientati di notte, tutte opere create per il collezionismo sulle quali il giovane si esercitò conseguendo un alto grado di specializzazione riconosciutagli dai contemporanei a cominciare, come si è visto, dal Marucini. Una parte cospicua dovette avere Francesco nella messa a punto e nella realizzazione, durante la seconda metà dell’ottavo decennio, delle Storie dell’Antico e Nuovo Testamento rappresentate come scene di genere quali sono il Ritorno del figliuol prodigo (Roma, Galleria Doria Pamphilj), il Cristo in casa di Marta e Maria (Houston, Blaffer Foundation), la Cena in Emmaus (fino a 2010 in collezione privata irlandese), la nuova versione della Partenza di Abramo per Canaan (Berlino, Staatliche Museen Preussischer Kulturbesitz, Gemäldegalerie). La pala della Circoncisione fu commissionata dalla Confraternita del Nome di Gesù - una delle più antiche e numerose tra quelle presenti in Santa Maria in Colle - per il proprio altare che con questo ornamento mutò il titolo originario dell’Annunciata in quello della Circoncisione o del Santo Nome; nel 1691, allorché venne rifatto dal Tabacco e dotato delle due statue dell’Annunciazione, riprese a essere chiamato anche con l’antica denominazione. Il dipinto dal 1870 si trova nel Museo Civico e al suo posto fu collocata una copia fedele eseguita dal pittore bassanese Giustiniano Vanzo Mercante. Per il pagamento della pala i confratelli, il 17 febbraio 1576, chiesero al Consiglio comunale un contributo di «larga elemosina»; in cambio dell’aiuto finanziario promettevano ai consiglieri di pregare «sua divina maestà che li guardi da peste, guerra et altri infortuni et li conservi in sanità e pacifico stato» e i consiglieri concessero 10 ducati[134]. Dal documento non risulta a chi venne commissionata l’opera, ma certamente a Jacopo, come testimonia l’iscrizione sul plinto della colonna a sinistra della pala: «IAC.S A PŌTE / BASS.S ET FRĀC.S / FILIUS FACIE.NT / M.D.LXXVII». Lo schema della rappresentazione è così articolato: in basso, i mostruosi demoni; al centro, la scena principale ambientata tra grandiose architetture e popolata di personaggi; in alto, la gloria del Paradiso. Come ha acutamente osservato il Ballarin[135], questa Circoncisione è importante nel percorso dell’arte di Jacopo e della sua bottega perché essa segna una specie di revisione della pala d’altare. Nuova è soprattutto l’organizzazione dello spazio: le figure non si dispongono più, come nelle grandi pale degli anni precedenti, in diagonale, recedendo verso l’interno, ma si dilatano sulla fronte nella scena centrale e vengono addirittura spinte ai margini nella composizione dei demoni in basso e in quella degli angeli in alto, quasi a formare una cornice decorativa. Un quadro di analogo soggetto e ugualmente firmato e datato, ma di formato orizzontale, essendo state eliminate le fasce superiore e inferiore con angeli e demoni, era conservato nella chiesa veneziana di Santa Maria della Misericordia ed è andato disperso. Un’incisione a contorno di G. Bernasconi la illustrava nella Pinacoteca Veneta ossia raccolta dei migliori dipinti delle chiese di Venezia (Venezia 1858-1860), promossa da Francesco Zanotto, che ne trattava estesamente il soggetto, da lui interpretato come la fondazione del monastero delle Vergini a Venezia, alla presenza del doge Sebastiano Ziani, di papa Alessandro III e dell’imperatore Federico Barbarossa, raffigurati nel gruppo di sinistra, e dei due figli dell’imperatore, Giulia e il piccolo Ottone, inginocchiati a destra alla base dell’altare. Questa identificazione del soggetto non è condivisa dalla maggioranza dei critici. Il figlio Leandro riprese l’idea compositiva con poche varianti nella pala dello stesso soggetto per la parrocchiale di Rosà, documentata al 1582; sono gli stessi anche i partecipanti all’evento. Il dipinto si ispira al Vangelo di Luca, che narra, come otto giorni dopo la nascita, il Bambino fu chiamato Gesù, il nome pronunciato dall’angelo prima che fosse concepito nel seno materno. Quando Giuseppe e Maria lo portarono al Tempio di Gerusalemme per presentarlo al Signore e per farlo circoncidere, lo accolse Simeone, il santo vegliardo che ispirato da Dio intonò il canto profetico: «Questo bambino è destinato ad essere causa di rovina e risurrezioni per molti in Israele e diventare un segno di contraddizione; a te stessa (Maria) una spada trapasserà l’anima e così saranno rivelati i pensieri di molti cuori». Nella pala non viene rappresentato il momento della cruda operazione della circoncisione bensì quello precedente della presentazione. W. R. Rearick suggerisce che nel dipinto i Dal Ponte abbiano voluto inserire un brano di contemporaneità, raffigurando nel gruppo di sinistra, che assiste all’evento, il papa (Gregorio XIII), l’imperatore (Rodolfo II) con fisionomie piuttosto generiche e il doge allora in carica, Sebastiano Venier, reso con acuta verità ritrattistica: di lui, ormai ottantunenne, «Jacopo cattura con commovente tenerezza l’estrema fragilità, il disagio e la stanchezza»[136]. Nel personaggio con il cappello floscio da viaggio, che appare dietro al doge, come si è detto, va identificato Francesco ritratto dal padre; nel vecchio che si affaccia dal margine sinistro, Jacopo effigiato dal figlio che qui esibisce «una straordinaria capacità di emulare il tocco paterno»[137]. Il ritratto del Venier ha la stessa immediatezza e precisione fisionomica dell’effigie dipinta su un piccolo supporto di rame (ora al Museo Civico) (fig.3)

3JacopoBassanodogeSebastianoVenier

3. Jacopo Bassano, Il doge Sebastiano Venier. Olio su rame. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 470. Il prezioso ritratto costituisce un importante testimonianza dei modi di Jacopo Bassano nell’ottavo decennio del Cinquecento, oltre che un omaggio del grande artista all’eroe di Lepanto, cui è dedicata la ristrutturazione cinquecentesca del Duomo.

che secondo Rearick[138] nell’estate del 1577 fu impressa da Jacopo e servì da modello per il ritratto ufficiale del doge appena eletto (11 giugno 1577) destinato alla galleria di Palazzo Ducale e perduto nell’incendio del 20 dicembre dello stesso 1577, ma anche per la commissione della Circoncisione. Il lavoro della pala dovette procedere lentamente e fu solo verso la fine del 1577 che furono introdotte le figure del gruppo a sinistra. Nella bottega dalpontiana si lavorò dunque a questo dipinto tra il tardo autunno del 1575 e la fine del 1577, prima della partenza di Francesco per Venezia. E, come scrive Rearick, «il doppio ritratto inserito nella Circoncisione poteva avere il valore di un commiato, essere un modo per augurare buona fortuna al figlio preferito, cui si apriva una nuova carriera, forse anche in parte sotto gli auspici del vecchio doge»[139]. Già nell’aprile 1578 Francesco stava lavorando a quattro prestigiose composizioni con le Battaglie della Serenissima per il nuovo soffitto della sala del Maggior Consiglio. Dai documenti (testamento di Jacopo del 10-11 febbraio 1592 e il ricordato Inventario del 27 aprile 1592) ricaviamo che, alla morte di Jacopo, la bottega in contrà del Ponte era attiva, anche se non così fervidamente come negli anni più felici, perché vi erano rimasti a collaborare Giambattista e Gerolamo, il quale non aveva ancora compiuto la scelta definitiva tra lo studio della medicina all’Università di Padova e la pittura. Infatti Leandro, come già aveva fatto Francesco nel 1578, si era trasferito nel 1588 a Venezia per aprirvi una sua bottega pur mantenendo stretti rapporti con Bassano. Nel 1595 anche Gerolamo seguì il loro esempio. Nell’atelier ereditato dal padre, Giambattista rimasto solo continuò fino alla morte (1613) a lavorare nel luogo che aveva visto succedersi tre generazioni di pittori[140]. La casa dalpontiana passò in eredità a una figlia di Giambattista, Chiara, moglie del pittore Antonio Scajaro, padre a sua volta di altri due pittori, Carlo e Giacomo, tardi epigoni bassaneschi. Alla morte di questi la casa passò alle loro due sorelle, una delle quali, Marietta, l’ultima discendente dei Dal Ponte, l’abitò con il marito Amadio Grossa sino alla sua scomparsa, alla fine del Seicento[141]. Con la morte di Jacopo la committenza religiosa si rivolse a Leandro (1557-1622). Dopo il trasferimento di Francesco a Venezia, egli gli era subentrato nella bottega bassanese nell’importante compito di affiancare l’anziano padre nella gestione dell’impresa famigliare. Come si è detto, nel 1588 anche lui lasciò Bassano probabilmente per esigenze di mercato poiché, come del resto era accaduto per Francesco, lavorando nella capitale poteva meglio soddisfare le richieste dei committenti e consolidare quei rapporti che già prima intratteneva. Pur aprendo una sua bottega egli mantenne una ancor viva partecipazione alle sorti di quella paterna a Bassano: è quanto emerge dal testamento di Jacopo steso pochi giorni prima della morte, avvenuta il 13 febbraio 1592[142]. A Leandro e agli altri due figli Giambattista e Gerolamo il padre lasciò la sua casa in contrà del Ponte: si capisce che con questa volontà egli riconosceva in Leandro la guida della produzione collettiva della bottega. Un incarico affidato a lui in qualità di titolare dell’impresa di famiglia, all’indomani della morte del padre, fu quello di portare a termine il lavoro dello stendardo della Confraternita di San Paolo, lasciato incompiuto da Jacopo. Recentemente Giuliana Ericani[143], per i precisi riferimenti iconografici, ha identificato questo gonfalone, dipinto a olio su seta - conservato al Museo Civico, proveniente dalla chiesa di San Giovanni dove aveva sede la Confraternita - con quello elencato al n. 29 del citato Inventario datato 27 aprile 1592 delle quasi duecento pitture giacenti nella bottega dalpontiana: «il Confalone di san Paolo colla Madonna San Pietro e due Angeli»; e ha riconosciuto nella faccia con la Caduta di san Paolo - databile nella prima metà del nono decennio - la mano di Jacopo dell’ultima maniera (fig.44)

44-45JacopoeLeandroBassano

44-45. Jacopo  e Leandro Bassano, Caduta di san Paolo; Madonna della Misericordia, san Pietro e san Paolo, i santi titolari della Confraternita, i confratelli e due angeli (documentata e databile al 1592ca).  Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Il Gonfalone che raccoglie le due immagini, dipinto su seta in tutte e due le facce, è identificabile con quello elencato al n. 29 dell’Inventario datato 27 aprile 1592 delle quasi duecento pitture giacenti non finite alla morte dell’artista nella bottega dalpontiana: «il Gonfalone di san Paolo colla Madonna San Pietro e due Angeli», dell’omonima Confraternita della chiesa di San Giovanni, terminato da Leandro.

e in quella opposta con la Madonna della Misericordia, san Pietro e san Paolo, i santi titolari della Confraternita, i confratelli e due angeli(fig.45), la mano di Leandro «che rivela la sua capacità ritrattistica nello scavare l’espressività dei confratelli ai piedi della Madonna, nel medesimo modo esplicato nel Ritratto di vecchia della collezione Crawford a Balcarres e nel Ritratto di vecchia dell’Ermitage di San Pietroburgo, collocati dalla critica allo scadere dell’ottavo decennio e nei primi anni del successivo»[144]. Più tarde le due pale di Leandro, ancora in loco, in Santa Maria in Colle: la Lapidazione di Santo Stefano(fig.46)

46LeandroBassano

46. Leandro Bassano, Lapidazione di Santo Stefano (firmata e databile al 1596 ca). Bassano del Grappa, Collegiata di Santa Maria in Colle. La pala, databile a ridosso della nomina di Leandro a cavaliere, è connotata da un disegno definito delle superfici, in cui i colori contrastanti vengono stesi in modo uniforme con felice effetto d’intarsio cromatico.

e la Madonna del Rosario, Cristo risorto, Angeli, Regnanti. Entrambe furono commissionate per ornare gli altari che avevano trovato posto nel nuovo assetto interno della chiesa conseguente all’importante intervento di ristrutturazione della cappella del coro condotto, su disegno di Vincenzo Scamozzi, alla fine degli anni ’80, per il quale si accordarono l’11 giugno 1588 il podestà Giovanni Michieli e l’arciprete Girolamo Compostella[145]. In due lapidi poste sulle lesene dell’arco di accesso al coro sono ricordati i benemeriti di tale realizzazione: in quella di sinistra, datata 1595, i cittadini di Bassano con Girolamo Compostella; in quella di destra, datata 1590, Lorenzo Cappello, il podestà che amministrò Bassano dal 6 febbraio 1589 all’8 giugno 1590, immortalato nel bel quadro votivo, già ricordato, (dipinto proprio nel 1590 da Leandro) che lo ritrae insieme con i figli inginocchiato davanti alla Vergine con il Bambino in trono tra i santi Bassiano e Clemente, protettori della città. Nella parte absidale furono ricavate la cappella centrale più ampia e le due laterali minori. Al centro del presbiterio si elevò il nuovo altare in marmi policromi che non è del tutto quello che noi oggi vediamo, perché nel Seicento e nel Settecento subì delle modificazioni. Nella primavera del 1590 vi venne collocato il nuovo tabernacolo ligneo (ora perduto), scolpito e dorato da Gasparo Gatti nel 1588[146], un valente intagliatore bassanese che aveva aperto bottega a Venezia: la sua immagine ci è tramandata dal telero di Marcantonio Dordi con la Messa in duomo di ringraziamento per la liberazione della peste del 1631 (ora appeso nella sala del Consiglio comunale) (fig.9 p. 109).

9MarcantonioDordi

9. Marcantonio Dordi, La celebrazione dell’Eucarestia nella chiesa arcipretale, olio su tela. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, esposto in Sala Consiliare. Le disposizioni statutarie di Bassano prevedevano un ordine preciso da rispettare da parte dei rappresentanti del potere civile ed ecclesiastico nonchè dei membri delle confraternite durante la celebrazione di funzioni e processioni.

Le due cappelle ai lati della maggiore ospitarono gli altari della Madonna del Parto (a destra), e di Santo Stefano contitolato a Santa Lucia (a sinistra), qui trasferiti dalla chiesuola sotterranea che era stata chiusa. La loro ubicazione che risulta dalla visita pastorale di Michele Priuli il 27 giugno 1592 rimarrà sino ai nostri giorni anche se gli originali furono sostituiti nel corso del tempo. Quello che oggi noi vediamo, in pietra, che accoglie la Lapidazione di santo Stefano di Leandro fu costruito alla fine del Seicento mentre il precedente cinquecentesco era di legno. La pala firmata in basso al centro «LEANDER BASS. EQU.ES F.AT» e databile al 1596 ca, a ridosso della nomina di Leandro a cavaliere, presenta somiglianze compositive con il Miracolo di santa Lucia (firmato e documentato al 1596) eseguito per la chiesa di San Giorgio Maggiore di Venezia. L’artista ormai lontano dall’influenza della pittura di tocco del padre, esprime chiaramente i caratteri del suo stile personale giunto a maturità, connotato da un disegno definito delle superfici, in cui i colori contrastanti vengono stesi in modo uniforme con felice effetto d’intarsio cromatico. E così il rosso della dalmatica di san Lorenzo si contrappone direttamente al giallo ocra, al verde crudo, al lilla chiaro, all’azzurro delle vesti dei lapidatori. Nel gruppo che appare dietro il manigoldo con il copricapo rosso, il pittore ha voluto ritrarre se stesso e, al margine destro, il volto del probabile committente. La santa Lucia in gloria nella parte superiore del dipinto fu aggiunta da Giovanni Goffrè, nativo di Liegi, ma operoso nella seconda metà del Seicento a Bassano, dove si stabilì e sposò la figlia di Marcantonio Dordi, tardo epigono bassanesco, allievo e garzone di Gerolamo[147]. L’altare del Rosario che figura tra i sei presenti dopo la ristrutturazione absidale, conclusa nel 1590, fu eretto, per iniziativa della Confraternita del Rosario, nel 1584. Esso occupò il posto - che è quello attuale - sottratto al trecentesco altare della Croce, che era ornato dal Crocifisso del Guariento. Nella visita del giugno 1592 il vescovo Priuli lo trova non ancora finito e sprovvisto di pala e ordina al bassanese Gabriele Michieli, eretico reo confesso presso il Sant’Uffizio di Vicenza, di provvederne una decorosa sborsando 25 ducati alla Confraternita del Rosario[148]. Collocabile stilisticamente tra il 1596 e il 1605 ca[149], la pala raffigurante la Madonna del Rosario, Cristo risorto, Angeli, Regnanti è firmata: «LEANDER A PONTE / BASS.IS EQUES / F.» . La composizione è articolata per piani orizzontali, da quello in basso della folla a quello in alto della gloria del Paradiso con la Vergine ai piedi della Trinità. Nel dipinto, nel quale prevale il tono celebrativo, è notevole l’intento ritrattistico per tutti i personaggi, tra i quali, secondo il Ridolfi, Leandro si effigiò assieme al padre, al fratello Francesco e probabilmente alla moglie Cornelia Gosetti. Spiccano in primo piano le figure del doge Marino Grimani e della moglie Morosina Morosini dei quali Leandro aveva già eseguito gli stupendi ritratti, oggi conservati alla Gemäldegalerie di Dresda, meritandosi la nomina prestigiosa a Cavaliere di San Marco che lo fece salire nella scala sociale a Venezia[150]. Il diffondersi della devozione della Madonna del Rosario e della relativa iconografia nel Veneto è collegato con la vittoria navale della Lega Sacra contro i turchi a Lepanto il 7 ottobre 1571. Poiché nell’esito dello scontro avevano avuto un ruolo determinante le forze veneziane, la vittoria fu sentita come propria soprattutto dalla Serenissima. Il giorno della battaglia fu dedicato da Pio V alla Madonna e successivamente Gregorio XIII istituì nella prima domenica d’ottobre la solennità della Madonna del Rosario. Poiché lo stemma del doge Alvise I Mocenigo, in carica al tempo di Lepanto, era composto da rose, fu facile e gradito ai veneti assimilare Venezia e le rose dello stemma dogale con la figura della Madonna del Rosario. A tale assimilazione ci richiama il motivo delle rose dispensate dagli angeli sopra i devoti. Il dipinto, particolarmente significativo per il suo tema, fu mantenuto con la ricostruzione dell’altare, ai primi del Settecento, e adeguatamente adattato alla nuova struttura[151]. Nella straordinaria carrellata di volti illustrati con precisione miniaturistica nella pala del Rosario abbiamo un esempio della ritrattistica di Leandro - in questo caso nel contesto di un dipinto - genere da lui portato a livello di specializzazione mentre era ancora nella bottega paterna, grazie alla quale egli, quando si trasferì a Venezia, si affermò con successo, ritagliandosi uno spazio particolare, come sottolinea il Ridolfi (1648), il suo primo biografo, ed entrando in gara con Domenico Tintoretto: a lui si rivolsero per essere raffigurati quasi tutti i dogi in carica richiedendo spesso parecchie repliche delle effigi da donare a privati e a pubbliche istituzioni. Con il Tintoretto, sulla scena veneziana, Leandro si trovò ad operare in parallelo anche nella tematica celebrativa in un confronto che si risolve a suo favore in entrambi i generi: tra i due egli si rivela il pittore che meglio mette a frutto l’eredità del padre, del fratello Francesco e quella di Jacopo Tintoretto. Le caratterizzazioni ritrattistiche e i modi narrativi vivacizzati da variopinti dettagli ed annotazioni episodiche che egli introduce nel rappresentare i fasti della Serenissima, non ricadono mai, come invece si nota nella produzione tintorettesca, in una ripresa abile ma fotografica e convenzionale della realtà. L’ultima opera dipinta da Leandro per una chiesa della città natale è quella dell’altar maggiore di Santa Caterina con lo Sposalizio mistico di santa Caterina tra altri Santi (ora al Museo Civico) (fig.47),

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47. Leandro Bassano (Bassano 1557 – Venezia 1622), Sposalizio mistico di santa Caterina tra altri Santi. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 33. La tela costituisce l’ultima opera dipinta da Leandro per una chiesa della città natale e quella dell’altare maggiore di Santa Caterina è rappresentazione di spirito seicentesco dove l’attenzione è rivolta allo studio della mimica piuttosto scontata dei personaggi, che mantengono una certa forza ritrattistica.

rappresentazione austera, di spirito seicentesco, intonata agli indirizzi morali e culturali della Controriforma, dove l’attenzione è rivolta allo studio della mimica piuttosto scontata dei personaggi e dei loro volti che mantengono, tuttavia, una certa forza ritrattistica. Anche per la pala raffigurante la Natività dell’altare della Madonna del Parto nella cappella a nord della maggiore, fu chiamato uno dei Bassano, Gerolamo (1566-1621) (fig.48).

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48. Gerolamo Bassano, Natività (part.). Bassano del Grappa, Collegiata di Santa Maria in Colle. Per la pala dell’altare della Madonna del Parto nella cappella a nord della maggiore, fu chiamato uno dei Bassano, Gerolamo, per volontà forse dell’arciprete Girolamo Compostella e della Confraternita della Madonna del Parto, costituita da sole donne, a cui l’altare era affidato.

Nella commissione a lui non è forse estraneo l’interessamento dell’arciprete Girolamo Compostella, legato da stima e amicizia a Jacopo e alla sua famiglia, come si deduce dal fatto che egli è tra i 6 testimoni presenti alla dettatura del codicillo aggiunto al testamento del vecchio pittore l’11 febbraio 1592. Probabilmente a ordinare il dipinto fu la Confraternita della Madonna del Parto, costituita da sole donne, a cui l’altare era affidato e che verso l’inizio del Seicento si trasferì a San Giovanni; fatto che si rifletterà sulla titolatura dell’altare stesso che da allora verrà chiamato anche della Natività. La cappella dove è ancora ospitata la pala (ora posta sul muro di fondo) subì delle modifiche poco dopo il 1766 quando il Consiglio comunale approvò la proposta di ingrandirla e di erigervi per la custodia del Santissimo un tabernacolo, quasi certamente quello marmoreo ancora in loco, a forma di tempietto collocato sopra la mensa dell’altare eseguito nel 1812 da un artefice locale[152]. La Natività è raffigurata in una composizione piramidale molto semplice con il vertice costituito dai due angeli librati nel cielo, in questo punto rischiarato da un bagliore. Nel quadro molto scuro, un notturno, l’altra fonte di luce è il Bambino giacente nella paglia che irradia le figure circostanti e il paesaggio blu dello sfondo tipicamente bassanesco, in cui è appena visibile l’annuncio ai pastori. La tela è da identificarsi con la “bella icone” elencata tra gli arredi dell’altare nella visita pastorale del vescovo Dionisio Dolfin nel febbraio 1613[153]. Le fonti antiche assegnano la pala alla vecchiaia di Jacopo con l’aiuto di Leandro, mentre Arslan vi ravvisa la mano di pittore bassanesco del Seicento. L’individuazione di particolari caratteri formali e coloristici e della tecnica esecutiva, che il restauro di una quindicina d’anni fa ha evidenziato, porta a collocare il dipinto verso la fine del Cinquecento e a proporne come autore Gerolamo nel periodo giovanile[154]. La profonda suggestione suscitata in lui dall’estrema produzione di Jacopo si rivela nell’impianto compositivo del notturno, nella scelta dell’illuminazione e nella citazione puntuale del gruppo della Madonna e del Bambino da quello dell’Adorazione dei pastori in San Giorgio Maggiore a Venezia eseguita da Jacopo nel 1590. Anche in altri particolari si nota l’imitazione di schemi paterni come l’ambientazione della stalla lungo una diagonale originata dalla colonna classica a cui si appoggia san Giuseppe. Gerolamo è autore di altre due pale fornite per le chiese bassanesi, entrambe ora al Museo Civico. Quella raffigurante Santa Barbara tra i santi Marco e Giustina e la Vergine con il Bambino in gloria con il ritratto del committente fu eseguita per l’altare della Compagnia dei Bombardieri[155] dedicato alla loro patrona nella chiesa di San Giovanni Battista (fig.49).

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49. Gerolamo Bassano, Santa Barbara tra i santi Marco e Giustina e la Vergine con il Bambino in gloria con il ritratto del committente. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La pala fu eseguita per l’altare della Compagnia dei Bombardieri, nella chiesa di San Giovanni Battista a Bassano. Un bozzetto era nella collezione di Daniele Bernardi e corrisponde al dipinto segnalato nell’inventario steso alla sua morte nel 1621.

Il Verci la dice degna di Leandro e segnala anche l’esistenza di un suo abbozzo nella raccolta del signor Daniele Bernardi[156]. Stefania Mason pensa che si debba intendere come modello per la pala la voce che riguarda «Una paletta de santa Barbera, san Marco et santa Giustina bozzada de man del signor Geronimo» al n. 493 dell’Inventario delle opere di sua proprietà redatto, per precisa volontà testamentaria di Gerolamo, due giorni dopo la sua morte nella casa in contrada San Cassiano, il 10 novembre 1621[157]. Gerolamo, che, come si è visto, dopo la morte del padre aveva abbandonato gli studi di medicina e si era dedicato definitivamente alla pittura continuando il sodalizio con il fratello Giambattista nella bottega bassanese, nel 1595 si trasferì a Venezia, seguendo l’esempio di Francesco e Leandro e aprì una sua bottega non senza qualche ritorno in patria per soddisfare le commissioni, come questa, che da qui gli dovette venire e per occuparsi della vecchia madre, Elisabetta Merzari[158]. Nella pala - dominata dalle tonalità violacee e grigio argentee tipiche del pittore - santa Barbara, una mano appoggiata alla spada, l’altra con in pugno la palma del martirio, è al centro della composizione tra i santi Marco e Giustina e presenta alla Madonna in gloria il podestà di allora che comandava la Compagnia dei Bombardieri. Nella parte sinistra si erge la torre alta e squadrata, con tre finestre e ai lati due cannoni, che nella tradizionale iconografia viene raffigurata accanto all’effigie della santa. Essa rassomiglia ad una polveriera e ricorda la torre in cui, secondo la leggenda, la giovane e bellissima Barbara venne rinchiusa dal padre, geloso della sua grazia. La torre aveva solo due alte finestre, ma, con le sue preghiere, la prigioniera riuscì a farne aprire per miracolo una terza più bassa e più spaziosa, da cui poté fuggire. Le tre finestre, simbolo della Trinità, si trovano anche nel dipinto di Gerolamo e in quella inferiore e più grande penetrano i raggi della luce divina, che si sprigiona dal cielo dietro la Madonna. San Marco, seduto con accanto il leone, tiene nella destra una penna e nella sinistra il libro del Vangelo e si rivolge in alto per cercare l’ispirazione. Santa Giustina è raffigurata in ginocchio rivolta al cielo in preghiera. Nel paesaggio sullo sfondo si profila il Grappa. Le fonti non dicono quando la Compagnia dei Bombardieri, costituita a Bassano per ordine del Senato Veneto nel 1590, abbia provveduto a ornare il proprio altare della pala, che secondo la maggioranza della critica è opera tarda di Gerolamo quando egli si approssima ai modi di Leandro. Qui sembra guardare alla produzione giovanile del fratello, dell’inizio degli anni ’80 cui appartiene la Circoncisione della parrocchiale di Rosà documentata al 1582. La pala con I santi Ermagora e Fortunato e, in cielo, la Vergine con il Bambino(fig.50)

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50. Gerolamo Bassano, I santi Ermagora e Fortunato e, in cielo, la Vergine con il Bambino. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. La pala venne realizzata per l’altar maggiore della chiesa di San Fortunato, quando fu rinnovata la zona presbiteriale. Documentata alla  fine del 1608,  fu collocata sull’altare solo nel 1614, come si ha notizia nel Liber Regiminis Sancti Fortunati.

venne realizzata per l’altar maggiore della chiesa di San Fortunato, dell’omonimo monastero a sud di Bassano, quando fu rinnovata la zona presbiteriale. Assegnata unanimemente dagli studiosi al periodo finale dell’attività di Gerolamo, grazie agli studi recenti di Franco Signori[159] il dipinto ha una sicura collocazione cronologica. In un documento si legge: «Die 10 Novembris 1608. Constituido in officio il magnifico signor Gerolamo Bassano pitor et volontariamente obedendo all’intimation fattali ad instantia dell’intervenienti del reverendo monasterio di Santo Fortunato di Bassan volontariamente contenta et si obliga di finire la palla d’altare al predetto monasterio giusta l’obligo suo et questo per le feste di Natale prossimo venturo…». Secondo l’ordine, l’opera, doveva essere conclusa a fine 1608, ma fu collocata sull’altare solo nel 1614, come si ha notizia nel Liber Regiminis Sancti Fortunati[160]. Il dipinto è un omaggio all’Assunta e ai santi titolari del monastero, martirizzati insieme durante la persecuzione di Nerone del 66. La scena è ambientata entro una nicchia absidata con il fondo aperto sul paesaggio: san Fortunato, vestito della dalmatica, si volge a guardare i fedeli con la palma del martirio in mano; sant’Ermagora, vescovo di Aquileia, ha il capo rivolto in alto verso l’apparizione della Vergine con il Figlio, che si mostrano circondati da angioletti e immersi nella luce del Paradiso. Come pensa Stefania Mason, è probabilmente una copia della pala il dipinto «Un santi Ermacora e Fortunato de man del signor Geronimo, reformato» elencato al n. 227 del ricordato Inventario del 1621[161]. L’imitazione della maniera di Leandro è evidente anche in quest’opera che Verci elogia come «dipinta con amore, e diligenza, e forza di colorito»[162]. Scomparsa l’ultima generazione della dinastia dei Bassano saranno gli epigoni a ornare di pale gli altari delle chiese della città e del territorio circostante, a cominciare da Giacomo Apollonio (1584 ca-1654), il primo nipote di Jacopo, nato dalla figlia Marina Benedetta, al quale il grande nonno, nel suo testamento, lascia «cinque rodoli da disegno sive pezzi num. 15 da esserli dati perché si diletta di pittura». I «rodoli» erano tele arrotolate su cui erano incollati vari disegni, fatti da Jacopo e anche dai suoi figli, come “ricordi” di opere, già consegnate ai committenti, che servivano per le repliche e le varianti. In questa assegnazione “personale” al nipotino non ancora decenne, dettata dall’affetto e dalla stima, si legge l’auspicio che il giovanissimo artista, primo della nuova generazione, possa essere il continuatore della gloriosa bottega famigliare.

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