L’evoluzione della pittura murale bassanese, meglio che negli interni, si può seguire nei paramenti freschivi stesi a istoriare le facciate, i quali contribuirono a rinnovare il volto della città – con episodi notevoli nel secondo Quattrocento - dando vita a uno straordinario paesaggio urbano umanizzato. Si può ritenere che gli autori di queste imprese durante il Cinquecento siano in gran parte i membri della famiglia Nasocchi. I loro modi si ravvisano nella decorazione, databile nel terzo decennio del secolo, di casa Navarrini Wipflinger (in via Matteotti), dove un’intelaiatura architettonica dipinta divide il prospetto in tre registri: il fregio che era sottogronda prima che l’edificio fosse sopraelevato d’un piano; l’ampia zona mediana riquadrata da colonne, una delle quali è ancora visibile a sinistra, e dalle cornici di finto marmo a vivaci tarsie che la delimitano lungo il lato superiore e quello inferiore. Negli spazi tra le finestre s’indovinano appena due monumentali figure, probabilmente allegoriche, e la grande scena policroma, ormai quasi svanita, dove affiorano a mala pena cinque personaggi in piedi; ormai indecifrabili i partiti ornamentali su fondo rosso, in basso, nelle vele delle due grandi arcate sulle quali l’edificio s’innalza. Sotto il portico della casa è affrescata la Madonna con il Bambino in trono, recante la data 1523, unanimemente attribuita a Francesco il Vecchio (1470/75-1539), padre di Jacopo Bassano (fig.21).
Nel prospetto di casa Gardellini Agostini (in via Barbieri) resta ormai solo qualche lacerto della riquadratura architettonica e del fregio ornamentale superiore, mentre tra le finestre del piano nobile si possono ancora distinguere due figure femminili allegoriche e una scena che sembra rappresentare un martirio sullo sfondo di un paesaggio. Sotto le finestre sono deboli tracce di ovali, che accoglievano probabilmente delle raffigurazioni ora del tutto cancellate. I paramenti pittorici riguardanti tutto il fronte orientale di piazza Montevecchio (già del Pozzo e del Sale) testimoniano che anche a Bassano come a Venezia e negli altri centri del Veneto le facciate dipinte diventarono nel Cinquecento un campo nel quale gli artisti più importanti della città facevano a gara per meritarsi il riconoscimento pubblico. Oggi gli affreschi dei Nasocchi sul prospetto di casa Michieli Bonato sono godibili ancora in loco, mentre quelli di Jacopo dal Ponte che ornavano la casa Dal Corno (poi Michieli e Bonato) furono staccati nel 1975 per essere restaurati e dal 1982 sono conservati al Museo Civico allo scopo di salvarli da ulteriore degrado. In facciata sono rimaste tracce delle precedenti decorazioni stratificate una sull’altra. La più antica, a finti conci in pietra separati da “fughe” rosse, risale al secolo XV, come quella simile dell’edificio contiguo verso nord, dove, in un frammento venuto in luce, si vede il motivo geometrico sviluppato a imitare lastre marmoree anch’esse modanate in rosso, secondo un modello decorativo testimoniato nel Quattrocento a Padova, Treviso e Verona. Un piccolo lacerto policromo è forse relativo a un riquadro con un’ immagine sacra, che vivacizzava il semplice “commesso” lapideo. Nel Cinquecento questa prima affrescatura fu cancellata e sul fondo chiaro della superficie muraria vennero dipinti, in un intervento di pochi anni anteriore a quello di Jacopo, due stemmi Dal Corno, uno dei quali si adorna di un cartiglio con il motto tratto dalla Bibbia «cornu eius exaltatur in gloria» (il suo corno s’innalza nella gloria, Sal 111, 9) (fig.22).
Secondo la registrazione del contratto nel Libro secondo, fu Giovanni Dal Corno «salarolo in Bassan» a rivolgersi ai Dal Ponte per avere decorata «la fazada denanzi al pozo de comun fata a istorie», impresa eseguita da Jacopo durante l’estate del 1539. In questi affreschi si riflette il cambiamento di gusto portato dal Pordenone nella decorazione di facciata: la parete reale viene illusionisticamente sfondata e la rappresentazione di grandi figure e scene si articola con dinamismo del tutto nuovo, in finte partiture architettoniche (tav.6). Di grande suggestione per Jacopo in questa prova fu certamente il prospetto sul Canal Grande di palazzo D’Anna (poi Viaro, Martinengo e ora Volpi di Misurata), dipinto dal Pordenone intorno al 1535 e ora perduto. Il paramento freschivo è impaginato entro quattro fasce orizzontali: in quella del sottotetto si finge una loggia sostenuta da sette file di tre balaustrini in prospettiva, dove dieci putti - di struttura piuttosto robusta ispirata forse ai modelli presenti nelle incisioni del Maestro dei Putti - nei più estrosi atteggiamenti, giocano con una tenda verde; uno di essi, isolato verso sinistra, regge un corno, emblema parlante della famiglia del committente. Nella seconda fascia, sotto una cornice a dentelli, è dipinto un fregio in terretta gialla a monocromo, che per certi aspetti rivela l’attenzione di Jacopo per la statuaria e i rilievi antichi: vi sono contenuti strumenti musicali a corde e a fiato, un clipeo con l’effigie di un imperatore romano (probabilmente Claudio), libri, un putto e vari animali, descritti con affettuosa cura naturalistica (un’anatra, un ariete, una pecora, un rapace, un cervo accovacciato, un asino, un tacchino, una capra, una scimmia, un’aquila dalle ali spiegate, un leone), che sfilano in corteo da sinistra verso destra. Nella terza fascia, più vasta, delimitata da due grosse colonne doriche dipinte ai lati, oggi quasi illeggibili, sotto nastri violetti, sono raffigurati tra le finestre, entro finte nicchie, tre nudi femminili - di difficile interpretazione, perché i loro attributi sono ormai cancellati - che ripropongono la tipologia giorgionesca e tizianesca del Fondaco dei Tedeschi, e, nello spazio più ampio, l’episodio con Sansone che stermina i Filistei con la mascella d’asino, tema trattato in modo analogo nel coevo dipinto ora alla Gemäldegalerie di Dresda. Nella quarta e ultima fascia in basso, entro ovali, sono altre quattro scene bibliche: Giuditta e Oloferne, che ricorda nell’impostazione quella affrescata da Jacopo nel presbiterio del vecchio duomo di Cittadella; Lot e le figlie, l’Ebbrezza di Noè e Caino e Abele, nel quale ultimo si coglie il riferimento agli affreschi del Pordenone nel chiostro di Santo Stefano a Venezia. Sotto il poggiolo, il corpo di un putto idropico è disteso nudo su due ossa incrociate con accanto la clessidra e la scritta «mors omnia aequat» (la morte annulla ogni differenza): questa raffigurazione della vanitas, fedelmente derivata da una stampa di Barthel Beham, datata 1529, dichiara apertamente l’intento moraleggiante del ciclo decorativo. La facciata Dal Corno, come tutta la produzione del biennio 1538-1539 (per esempio, gli affreschi del vecchio duomo di Cittadella, la Disputa di Gesù nel tempio, ora all’Ashmolean Museum di Oxford e l’Ultima Cena, dipinta per Ambrogio Frizier, ora nella parrocchiale di San Lorenzo a Wormley nell’Hertfordshire), dimostra come si sia evoluto lo stile pittorico di Jacopo a contatto della cultura manierista centroitaliana conosciuta non direttamente ma attraverso lo studio delle stampe o la visione di opere di artisti già avviati sulla strada della Maniera come il Romanino della Loggia del Buonconsiglio a Trento e il Pordenone delle imprese decorative veneziane. Varie sono le novità che si possono cogliere: l’importanza data al disegno e alla figura umana resa espressiva dalle torsioni e dai gesti, la costruzione potente della forma, la resa nitida delle zone cromatiche, una certa distorsione del colore rispetto a quello naturalistico del passato, la ricerca del rapporto tra spazio illusivamente creato e le figure. è chiara la funzione estetico-simbolica voluta dai committenti per manifestare una presenza significativa in uno dei più importanti settori del tessuto urbano. Innanzitutto è subito riconoscibile lo scopo promozionale della famiglia Dal Corno, che, proveniente dalla nobiltà trevigiana, nel 1539 era da pochi anni entrata a far parte di quella bassanese. È da arguire che l’ispiratore del complesso programma iconografico sia stato il dotto Lazzaro Dal Corno, genero di Giovanni registrato quale committente nel libro dei conti, come già si è visto. Lazzaro fu giurista, poeta e oratore, famoso ai suoi tempi per aver recitato il 2 novembre 1532 un panegirico in latino all’imperatore Carlo V di passaggio per Bassano e per aver così meritato il titolo di conte palatino; forse per celebrare questa carica erano stati dipinti sulla facciata i due stemmi Dal Corno già ricordati. Nell’ipotesi interpretativa suggerita da Giuliana Ericani, tutta la rappresentazione sarebbe di matrice biblica e i significati simbolici attribuiti alle varie raffigurazioni potrebbero derivare dal pensiero filosofico dell’aristotelismo padovano alla cui scuola Lazzaro Dal Corno si era probabilmente educato. Anche gli animali in singolare corteo tra vari oggetti inanimati nella seconda fascia potrebbero essere stati accostati non casualmente, ma in relazione a quanto ciascuna specie significa in ambito cristologico, secondo una scelta tesa a manifestare il rapporto tra il peccato e la redenzione. Le tre figure femminili tra le finestre potrebbero essere personificazioni rispettivamente da sinistra a destra della Fede, della Prudenza, della Fortezza e «riproporre il pensiero aristotelico delle virtù o delle prerogative dell’anima umana. Le scene bibliche potrebbero essere consuete prefigurazioni del sacrificio di Cristo per la redenzione dei peccatori (Abele, Noè spogliato, Sansone) o prefigurazione del ruolo mariano (Giuditta) nella salvezza dal peccato del genere umano oppure, per ogni personaggio, esemplificare una delle virtù umane: Sansone la forza, Abele la bontà, Giuditta l’astuzia utilizzata a fin di bene, Noè spogliato, il peccato senza colpa»[34]. Il messaggio morale dell’intera decorazione, riassunto nel putto idropico e nella scritta che lo accompagna, è, secondo la studiosa, solo apparentemente negativo perché, ricondotto all’etica di Aristotele, esso è un monito a noi uomini a non pensare alle cose mortali ma al dovere di «renderci immortali e costringere ogni nostra fibra a vivere in armonia con ciò che c’è di meglio in noi»[35]. I concetti che sono alla base di questo testo pittorico non potevano essere compresi da tutti ma a tutti le immagini suggerivano motivi di meditazione e impartivano una lezione che educava il gusto. Di più facile lettura l’iconografia della casa Michieli Bonato, affiancata a quella Dal Corno ma più sviluppata in altezza, posta all’angolo tra piazza Montevecchio e piazza Libertà, con i due prospetti interamente ricoperti di affreschi attribuiti, come si è accennato, ai Nasocchi[36]. I due edifici ricevettero l’aspetto attuale nello stesso momento (verso la fine del secolo XV) e mostrano alcune analogie nella forma delle finestre centinate e contornate da eleganti cornici lapidee. Anche la loro decorazione freschiva fu eseguita contemporaneamente, cioè nel 1539, data scritta in cifre romane, leggibile ai primi del Novecento in una finta lapide inserita nella fascia che corre sopra le finestre del secondo piano. Il restauro di qualche decennio fa ha ridonato vivacità alla veste pittorica, permettendo una migliore comprensione del contenuto, che tuttavia in parte va recuperato, per quanto riguarda il fronte verso la piazza Montevecchio, nella tempera di G. Fontana del 1905 (al Museo Civico di Bassano) (fig.23)
e nell’acquerello di G. Culluris, della fine dell’Ottocento (alla Biblioteca Civica di Treviso). Con la simulazione di una struttura architettonica, le facciate della casa risultano scompartite in senso orizzontale da finti cornicioni modanati e da un fregio figurato, e scandite in senso verticale da finte paraste e semicolonne addossate a pilastri a delimitare le singole specchiature tra le finestre del primo e del secondo piano. Il tema principale svolto sui due prospetti è la Storia di Giuseppe Ebreo comprendente anche episodi che si riferiscono a personaggi della sua stirpe: Abramo, Isacco e Giacobbe suo padre. Il racconto molto fedele al testo biblico (Gn 22, 1-14) è rappresentato come in un grande proscenio teatrale entro dieci riquadri con fondali vari: anche se non è rispettata la successione cronologica, lo spettatore può facilmente ricomporre la trama narrativa. Nel registro superiore, sotto lo sporto del tetto, una sequenza di nudi con le estremità desinenti in tralci, sono affrontati a due a due ai lati di ovali in cui sono messi in scena, nell’ordine da sinistra a destra, sul fronte verso la piazza Montevecchio: la falsa prova della morte di Giuseppe presentata a Giacobbe, che ha il suo antefatto nell’ovale dipinto verso piazza Libertà con Giuseppe venduto dai fratelli (fig.24);
la tentata seduzione di Giuseppe da parte della moglie di Putifarre; il sogno del Faraone con le sette vacche grasse e le sette magre. Scendendo, sotto una finta cornice aggettante si svolge in continuum una fascia festosamente policroma con un gioco di putti tra libri, animali, drappi e finte lapidi, tra cui quella con la data visibile, quasi al centro nella tempera del Fontana, dove si legge parzialmente anche l’iscrizione su un globo verso sinistra: «beati / mundo / corde...» (beati i puri di cuore...), tratta dal Discorso della Montagna (Mt V, 8). Nella facciata prospiciente la piazza Libertà, il fregio con la teoria dei putti, interrotta da due finti tappeti che sporgono dai davanzali soprastanti, fa da trabeazione alle finte architetture che riquadrano il secondo piano, dove negli spazi più vasti tra le aperture, gli episodi di Giacobbe che invita Giuseppe a recarsi a visitare i fratelli lontani con le greggi al pascolo e quello del Faraone che porge a Giuseppe l’anello, la collana d’oro e la veste di bisso davanti a un folto gruppo di Egiziani, sono rappresentati in interni aperti, sul fondo, da logge. Sempre in questo settore, verso piazza Montevecchio s’intravedono ancora una figura femminile nella stretta specchiatura tra le due finestre centrali e, nell’ultimo scomparto a destra, il sacrificio di Isacco. Passando in piazza Libertà, si può leggere in buona parte l’episodio con Giuseppe seduto su un trono che riceve i fratelli in Egitto sullo sfondo di un verde paesaggio collinare; sotto le finestre centinate di questo piano, marcano i davanzali certi monocromi con scene di battaglia che forse si trovavano anche sotto la bifora a destra alterata dall’apertura di un poggiolo. Nell’ultima zona decorata, al primo piano, sulla parete prospiciente piazza Montevecchio si vede ben poco di quello che il Verci (1775) descrive poiché la scena con Giacobbe che riceve la benedizione della primogenitura dal padre Isacco è stata parzialmente occupata da una lapide applicata al muro nell’Ottocento e completamente svanite sono le tre Parche e Betsabea al bagno che limitavano in basso questa parte del ciclo. Sul fronte verso piazza Libertà l’ultimo quadro della storia, piuttosto rovinato, illustra probabilmente l’incontro di Giuseppe col vecchio padre Giacobbe in Egitto. Di difficile interpretazione sono le due figure ai lati delle finestre rettangolari sopra il portico, quella di un vegliardo a sinistra che reca gli strumenti dell’astronomia; quella a destra, che si distingue per le pronunciate connotazioni ritrattistiche e in cui una tradizione settecentesca, riferita dal Verci (1775), ravvisa uno dei decoratori, cioè uno dei Nasocchi. Quando era integro, il manto pittorico doveva comunicare in modo più diretto con lo spettatore anche tramite le iscrizioni, di cui il Verci tramanda quella sotto la scena dove il Faraone nomina Giuseppe vicerè. Non sappiamo il nome del committente e non possiamo perciò ricostruire la sua condizione socioculturale, che potrebbe far intravedere le ragioni della scelta di questo ciclo biblico suggerito forse da una fonte scritta o grafica (qualche raccolta di stampe) o da un dotto interprete delle Sacre Scritture e insieme dell’immaginario classico, come prova la scena delle Parche recuperate in senso provvidenziale cristiano. Nell’ipotesi d’una lettura in chiave teologica, i soggetti illustrati sono partecipi di un unico programma iconografico: le vicende di Giuseppe, secondo la patristica, prefigurano il sacrificio di Cristo e sono capitoli della storia della salvezza come lo sono gli episodi riguardanti i patriarchi da Abramo a Giuseppe. Anche la raffigurazione, apparentemente avulsa dal tema principale, di Betsabea, vista come colei che darà a Davide il figlio Salomone, presenta un momento della storia (e le Parche che filano la vita degli uomini ne simboleggiano la successione governata dalla Provvidenza) che è storia della salvezza. Confrontando le due facciate dipinte, l’una dai Nasocchi, l’altra da Jacopo, i contemporanei dovevano certo percepire la diversità dei due linguaggi: quello di Jacopo in sintonia con lo sviluppo artistico del suo tempo e quello dei Nasocchi ancora legato a modelli quattrocenteschi. In questi decoratori di gusto “ritardatario”, il fatto di lavorare a fianco a fianco col giovane di geniale talento sembra non aver provocato alcuna emulazione: essi continuarono a descrivere in modo minuzioso e calligrafico le loro invenzioni e a narrare piacevolmente le storie con sfoggio di festosità cromatica. Assegnabile a maestranze della scuola bassanese dei Nasocchi le facciate dipinte a tappezzeria della dimora dei patrizi veneziani Donato (ora palazzo Antonibon) di cui è conservato un brano. La parasta perimetrale - dove si dipana un festone di foglie, fiori e melograni - e la fascia marcapiano - dove si snoda un intreccio di nastri e ghirlande - riquadrano una grande specchiatura con formelle poligonali simulanti un paramento marmoreo in rilievo. Se la vivace policromia, giocata su cinque colori (bianco, giallo, rosso, verde e nero) e la persistenza del tradizionale repertorio floreale ci riportano al gusto tardogotico, la padronanza nel rendere gli effetti prospettici delle complesse geometrie e la libertà di mano nel rappresentare i motivi vegetali ben si addicono all’epoca (metà del Cinquecento) in cui i Donato, come si è visto, edificarono il loro palazzo bassanese[37]. Il paramento pittorico che riveste la facciata di casa Marcon in piazzetta dell’Angelo 14, è di una tipologia nuova per Bassano. La finta orditura architettonica è ideata per integrare l’architettura reale conferendo tridimensionalità al prospetto attraverso il lessico e la sintassi rinascimentale: colonne scanalate, timpani sopra la trifora centrale e le altre finestre, profili negli intradossi delle aperture, tabelle istoriate, nicchie con statue. Le raffigurazioni, tutte di soggetto mitologico, sono policrome tranne le quattro piccole scene monocrome, entro pannelli, sotto le finestre del piano nobile. Nel settore più alto, sopra il finto sporto a modiglioni, negli spazi tra le finestre appaiono in posizione adagiata Giove, Venere, Vulcano, Marte. Nella zona sottostante si alternano cinque riquadri, ciascuno con un putto seduto, a quattro tabelle pendenti dove sono presentati variopinti trofei militari con elmi, scudi, corazze tra putti che giocano. Di queste panoplie le due centrali sono sospese illusionisticamente sopra gli spioventi del timpano dipinto a coronamento della trifora mediana. Nelle due finte nicchie, in corrispondenza del piano nobile sono raffigurati a colori vivaci un guerriero (Marte?), a sinistra, e un altro personaggio, a destra, in un punto così rovinato da rendere impossibile un preciso riconoscimento. Ai lati del portone di entrata è ripetuto lo stemma dei nobili fratelli Del Monico, identificato da A. Brotto Pastega, lo studioso che ha ricostruito le vicende dell’edificio. I Del Monico, cittadini di Padova che per la loro attività di mercanti di legname avevano interessi nella valle del Brenta, nel 1549 ristrutturarono la loro dimora bassanese e, per decorarla, non fecero ricorso a pittori locali, bensì a maestranze estranee alla città, che fanno sfoggio di bravura quadraturistica secondo i modelli diffusi soprattutto dalle imprese mantovane di Giulio Romano. Il complesso scenografico dipinto in tonalità varianti entro una gamma in cui predominano il violaceo, il bianco, il verde e l’azzurro, assicura indubbiamente la rappresentatività della casa ma con uno spirito molto diverso da quello che caratterizzava i prospetti realizzati un decennio prima da Jacopo Bassano e dai Nasocchi, così fantasiosi e ricchi di significati simbolici.