Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La prima figura bassanese a spiccare effettivamente nel panorama intellettuale nazionale è certamente Jacopo Vittorelli (fig.4).

4BustoJacopoVittorelli

4. Busto di Jacopo Vittorelli, gesso. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 153. Vittorelli (Bassano 1749 - 1835), «Anacreonte o Tibullo italiano», secondo la definizione del critico ed amico Luigi Carrer; la sua opera costituisce uno degli ultimi esempi della poesia epigrammatica settecentesca.

Nato a Bassano nel 1749, dal 1761 aveva studiato presso il prestigioso Collegio dei Nobili di Brescia, ove ebbe come maestro il gesuita Antonio Golini; questi, notando la precoce predisposizione letteraria dell’allievo, lo incoraggiò alla scrittura poetica. Tornato nella città natale il 1770, Vittorelli poté coltivare i propri interessi culturali nei salotti delle famiglie Remondini, Parolini e Roberti, frequentati da Giovan Battista Verci, da Bartolomeo Gamba e dal giovane naturalista Gian Battista Brocchi. Fra le figure che animavano maggiormente le serate bassanesi, vi erano l’abate Giovan Battista Roberti, tornato a Bassano nel 1817 dopo la soppressione dell’ordine dei Gesuiti e, occasionalmente, Ippolito Pindemonte e Ruggiero Boscovich. Ai salotti si affiancavano poi, secondo la consuetudine del tempo, le accademie: a Bassano l’Accademia degli Intraprendenti, fondata da Verci nel 1772, per il progresso della conoscenza e della pratica letteraria. Le accademie, i salotti, l’attività editoriale dei Remondini facevano della cittadina sul Brenta un’isola felice e assai attiva dal punto di vista culturale, aperta alle sollecitazioni del tempo: e i versi di Vittorelli lo testimoniano[64]. Il fervore e la curiosità intellettuale che animavano Bassano negli ultimi decenni del Settecento non bastarono a trattenere a lungo il giovane poeta nella città natia; a causa dei frequenti dissapori col padre, nel 1787 egli colse l’invito dell’Inquisitore di Stato Girolamo Ascanio Molin a recarsi con lui a Venezia. Nella città lagunare, ove rimase sino al 1796 e ove fu insignito del titolo di Straordinario Collazionista per uso dei nuovi codici veneti civili e criminali sotto la immediata ispezione dell’eccelso Consiglio dei Dieci, egli poté godere dell’ospitalità di Giustina Renier Michiel, nobildonna assai colta, traduttrice di Shakespeare, la quale riuniva nella propria casa i più importanti esponenti dell’aristocrazia della Serenissima, nonché Pindemonte, Ugo Foscolo, Giuseppe Barbieri e infine Luigi Carrer, il quale si prodigherà per diffondere la memoria postuma delle opere degli amici Foscolo e Vittorelli. Lasciata Venezia, il poeta bassanese si recò a Padova, ove, nella breve parentesi del Regno d’Italia, fu nominato Ispettore agli Studi e membro del Collegio dei Dotti. La fine dell’esperienza napoleonica e la Restaurazione coincisero, invece, col suo ritorno definitivo nella città natale, ove fu nominato dal governo austriaco Censore delle Stampe, incarico che mantenne fino alla morte[65]. Nel panorama della poesia del xviii secolo, l’opera dell’«Anacreonte o Tibullo italiano»[66] – rispetto ai quali Carrer notò una sostanziale mancanza di voluttà e di passione –, non spicca per originalità di contenuti; invece, in confronto agli altri poeti contemporanei, il critico riteneva che la poesia di Vittorelli fosse comunque superiore per immagini e per linguaggio[67]. Al di là dei testi dedicati a Irene o Dori e di alcune vedute di Bassano, a tutt’oggi ricordati fra le sue prove migliori, le sue pagine sono affollate di versi occasionati dagli eventi che scandivano la vita sociale del tempo: matrimoni, anniversari, monacazioni, ordinazioni sacerdotali[68]; più che trasmettere i sussulti di un’anima, i suoi sonetti e le sue strofe anacreontiche restituiscono con precisione i riti e i ritmi della società veneta sul discrimine tra Sette e Ottocento. Inoltre, all’affacciarsi sulla scena del Romanticismo, egli reagì rimanendo fermo nel proprio gusto e nella propria prassi poetica, risultando «più tenace […] di quello che sieno stati il Monti, il Foscolo e il Pindemonte»[69], che trovarono dei compromessi spesso felici tra le «vecchie dottrine»[70] e la nuova sensibilità. Carrer, che di Vittorelli era amico e ne stimava l’opera, non manca però di evidenziare come la fedeltà del bassanese alla maniera arcadica fosse il risultato della sua pigrizia, piuttosto che il prodotto di un intimo convincimento poetico: «Gli uomini sono immutabili tanto per forza d’animo e di fatte riflessioni, quanto per semplice inerzia o debolezza di ragionamento. Il Vittorelli non avrebbe forse per nulla alterato i suoi principi, anche dopo aver esaminati i principi opposti, ma crediamo non siagli mai bastata la voglia di porsi ad un tal esame»[71]. Pier Vincenzo Mengaldo ha correttamente fatto notare che dalla poesia di un uomo del Settecento non si può pensare di ricavare qualcosa della sua anima, della sua personalità singolare[72]; perciò, nell’approcciarsi alla lirica di un Vittorelli bisogna spogliarsi delle poetiche romantiche, e porsi piuttosto con la consapevolezza che ogni genere letterario - intendendo l’espressione nel senso meno normativo e più largo possibile - ha in ogni tempo dei canoni propri. Talora i poeti, precorrendo un nuovo gusto, innervano il vecchio delle urgenze dei tempi, come nel caso di un Parini; talaltra, più frequente nel xviii secolo, rimangono fedeli al sentiero già tracciato da altri prima di loro. Ed è questo secondo il caso di Vittorelli, «poeta più di costanti che di varianti»[73]linguistiche, «molto più parco»[74] di un Rolli o di un Savioli nell’uso «delle immagini e delle allusioni mitologiche»[75], che in vita e dopo la morte fu conosciuto e stimato, invece, per la forma dei suoi testi, al punto che l’abate Niccolò Scarabello, nella prefazione alle Rime edite ed inedite[76](fig.5),

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5. Rime edite e inedite di Jacopo Vittorelli: Padova pei tipi della Minerva MDCCCXXV. All’affacciarsi sulla scena del Romanticismo, Vittorelli reagì rimanendo fermo nel proprio gusto e nella propria prassi poetica.

unica edizione che l’autore riconoscesse «sia pel numero dei componimenti, sia per la qualità delle mutazioni»[77], scrisse che «il nome di Jacopo Vittorelli non solamente è per l’Italia ciò ch’è il nome di Anacreonte per la Grecia, ma va chiarissimo ancora fra i nomi di que’ pochi che per cert’aria di originalità e per certa squisitezza di concetti e correzione di forme emergono dalla gran folla de’ sonettisti italiani»[78]. Quanto alla diffusione della sua opera, Scarabello cita un’epistola di Innocente Natanaeli al nipote - nella quale il mittente esprimeva comunque la propria preferenza per i meno noti sonetti -, che consente di indovinare la grande diffusione delle strofe anacreontiche del bassanese, da molti mandate a memoria grazie alle numerose edizioni delle poesie vittorelliane[79]: un giudizio, questo, condiviso anche da Carrer e, più tardi, da Bertana, i quali ne testimoniarono la conoscenza non solo presso i ceti più elevati, ma anche presso gli analfabeti, i quali, in virtù della musicalità del verso, avevano imparato le liriche del poeta con facilità[80]. Distante dalla temperie romantica, sia da quella degli Sturmer sia da quella impegnata nel civile e nel politico che connotò l’esperienza del romanticismo italiano, Vittorelli è dunque uno degli ultimi esemplari della poesia epigrammatica settecentesca; e invano si cercherebbe nei suoi versi un’eco dei cambiamenti che attraversarono l’Italia negli anni della sua vita, o addirittura il rifiuto del disimpegno arcadico, con le sue donne, i suoi ospiti e le sue vedute: con i suoi versi, egli si consegna ai posteri con «un nobile ma sovrapersonale stile d’epoca in cui vive come un pesce nell’acqua»[81], ed è quindi con “l’acquario” della letteratura italiana del Settecento che bisogna rapportarsi, per comprendere al meglio il lascito del poeta bassanese. 

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