Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La lettura compiuta, svolgendo alcuni temi e omettendone altri, va infine integrata di una pur settoriale prospettiva. L’interpretazione dell’intero periodo si unifica essenzialmente intorno all’originalità dell’assetto costituzionale perché, nel vasto campo dei fattori di evoluzione, è propriamente con l’autonomia che si inaugura l’avvenire di Bassano sulla lunga durata. Ed è con Gian Galeazzo Visconti e con i suoi eredi – non prima e, si badi, per molti secoli neppure dopo – che la nostra “quasi città”, rimanendo costantemente nella mira del governo, raggiunge l’apice della sua dignità gerarchica nel Veneto: rispetto alle città alle quali si avvicina e rispetto agli altri centri, di equivalente peso economico e demografico, dai quali si allontana per quel suo poter stare «de per se», giurisdizionalmente separata. Una serie di indagini, negli ultimi decenni, ha configurato il carattere quasi epocale della dominazione viscontea sul Veneto che nel corso della sua affermazione, dal 1387-1388 al 1404 (escludendo Treviso e anche Padova, salvo che per meno di due anni), ammodernò nei diversi ambiti il governo del territorio, applicando criteri di tipo più marcatamente pubblico e meno condizionato dai rapporti clientelari che le precedenti signorie, scaligera e carrarese, avevano stabilito con i notabili locali. Ciò vale a ben maggiore ragione per Bassano che all’improvviso dovette trasformare il suo ordinamento in modo che risultasse congruente con l’autonomia costituzionale e, con un salto non da poco, proiettò la sua fortuna nel vasto orizzonte di un dominio pluriregionale, incernierato da un apparato efficiente insieme lontano (ma non troppo, dopo l’istituzione del Consiglio di Verona) e più direttamente vicino per la speciale cura che riservava alla difesa di questo distretto e alle sue fortificazioni. Il vero problema è costituito dall’atteggiamento di Venezia che volle Bassano ad ogni costo, a decine di migliaia di ducati, ma che per oltre due anni non seppe bene come inserirla nel sistema della regione. L’arrivo della nuova Dominante poteva anzi rappresentare la fine di un inizio perché l’indipendenza giurisdizionale, la risorsa guadagnata nel 1390, rischiò di venire eliminata. La situazione non è quella descritta dagli apologeti di San Marco, di antico o di recente conio, e conviene invece insistere su una sequenza ben documentata. Venezia già nel giugno del 1404 occupa la città non escludendo di doverla assegnare a Vicenza, ascolta e tratta con i Bassanesi, prende poi atto della richiesta padovana di riavere il distretto e intanto ne conforma l’amministrazione sul modello del Trevigiano, togliendo da subito alcune immunità economiche con cui era stato beneficiato dal signore e poi duca di Milano, di sempre buona memoria. C’è di tutto e c’è di più, evidentemente. È abbastanza comprensibile la difficoltà del governo a far fronte, senza troppo scontentare, alle pressioni dei tanti che chiedevano il controllo amministrativo di Bassano. Ma in tale incertezza e nella gestione un po’ confusa dell’operazione sono forse da riconoscere le conseguenze in loco dell’intromissione di Venezia nelle faccende dell’entroterra, complicate anche sotto il profilo territoriale, che era avvenuta nella primavera del 1404 – prima ancora che scoppiasse la guerra veneto-carrarese, formalmente dichiarata il 25 giugno – in maniera non sempre riconducibile a un preciso disegno e, meno che mai, alla preordinata previsione della sistemazione da dare a ciascuna circoscrizione. La questione rimane storiograficamente aperta ma, presumibilmente, la decisione finale di conservare Bassano nella sua peculiarità istituzionale fu consigliata dalla convenienza militare ed economica di disporre di una podesteria sostanzialmente autonoma, più direttamente nella mano dell’autorità centrale e specialmente destinata al controllo del Canale di Brenta e della media asta del fiume. Invertita la direzione della guardia – non più rivolta verso sud contro la carrarese Padova, ma a nord per bloccare un nemico che volesse scendere – la scelta di privilegiare Bassano, sia pure a denti stretti, ripropone un po’ quella già compiuta da Gian Galeazzo Visconti, per ragioni più complesse. Il luogo restò «de per se» ma non fu più la «notabilis terra» che arrivava a distinguersi nello scacchiere visconteo, elencata con le altre di maggior prestigio. Nell’ottica veneziana, durante la prima metà del XV secolo, esso rimase un ponte tatticamente e commercialmente importante, una fonte di dazi, un complesso ben fortificato finché durò, un punto di controllo per l’ordinato traffico delle merci e soprattutto del legname fluitato sul Brenta, un mercato di approvvigionamento di lana e di vino e, perché no, un centro di una pur contenuta ma polivalente energia economica che poteva servire da base per le iniziative lungo il fiume e nell’area pedemontana di qualche patrizio veneto. Nei tre decenni della nostra storia la classe dirigente locale non demeritò del compito. Amputata di una sua parte per ribellione e obbligata ai cambi di regime, con abilità e fortuna riuscì a fare in modo che tali transizioni o le crisi interne avvenissero con il maggior vantaggio o col minore danno per la città. Mai così forte da potersi imporre e neppure così debole da dover sempre subire, all’epoca non certamente filoveneziano ma piuttosto riconoscente ai Visconti (maculato qua e là da risentimenti e nostalgie carraresi) e fondamentalmente “filobassanese”, il gruppo di governo locale trattenne l’autonomia per quanto poteva, evitandone la perdita. Ed era il massimo che si potesse fare in quegli anni così singolari, di originale slancio e di ristagno della buona sorte di Bassano [52]

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