Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La vicenda storica di Bassano è sostanzialmente tardomedievale: la storia di Bassano in quanto comunità organizzata, gruppo umano che vive in uno spazio geografico dai contorni definiti, non può essere ricostruita se non a partire dal secolo XII. Tuttavia, per comprendere questa vicenda non si può non partire (e la scelta ha anche un preciso significato metodologico: la storia di un territorio non si può isolare, non si può “ritagliare”) dalle profonde modificazioni degli assetti territoriali e delle circoscrizioni civili ed ecclesiastiche che avevano caratterizzato il territorio dell’attuale Veneto (ancor prima della creazione della Marca veronese, avvenuta in età ottoniana) nell’Alto medioevo. Come premessa per la vicenda storica di Bassano, va tenuto presente innanzitutto un evento dalle conseguenze rilevanti: la sparizione del vescovado di Asolo come sede di autonomo inquadramento territoriale della popolazione pedemontana veneta residente fra Piave e Brenta. Il fatto, posteriore all’825-827 ma già compiuto in età ottoniana, ebbe verosimilmente l’effetto di alterare un ordinamento dalla stabilità plurisecolare e di suscitare l’interesse dell’autorità pubblica verso l’inevitabile movimento delle forze locali intenzionate ad avvantaggiarsene. Merita infatti ricordare[1] che Asolo è notoriamente tra i centri urbani menzionati nel capitolare di Corte Olona dell’825 e che due anni più tardi il suo vescovo Artemio interviene ancora al sinodo di Mantova. Il termine ante quem può considerarsi il 969, quando del castello e della chiesa di Asolo, donati alla chiesa trevigiana, può dirsi ormai che erano stati olim caput episcopatus ipsius loci [2]. In questa sorta di “vuoto” che si crea nel Pedemonte veneto si era inserita in effetti la concessione nel 915 ai presuli padovani da parte di Berengario I di funzioni pubbliche sul canale del Brenta fino al suo sbocco di Solagna[3], giustificata probabilmente anche da ragioni di sicurezza di fronte all’imprevisto flagello delle incursioni ungare. La storiografia più qualificata ne ha giustamente sottolineato il valore politico nell’ambito dello sforzo generale dei titolari del regno di garantirsi in questo periodo una rete efficiente di collegamenti con le chiese, promosse spesso per questa via a «strumenti e centri attivi di potenza politica»[4]integrativi o sussidiati del precario apparato di ufficiali pubblici. A riguardo a noi interessa ribadire soprattutto due fatti: da un lato essa mostra già orientamenti del tutto nuovi nel reciproco raccordo tra potere centrale e forze periferiche; dall’altro indica l’importanza crescente annessa alla via publica o meatus publicus della Valsugana come autonoma “area di strada” fra Alpi e planum Italiae, assieme ai suoi punti d’accesso e di snodo. La valle, con la terra, iuris regni... in predicta valle adiacentem e con la consistente quota di uomini liberi che vi risiedevano, assumeva insomma in qualche modo la «figura di un distretto pubblico» a sé, a prescindere dalle preesistenti ripartizioni geografico-amministrative e dall’ottica più locale di quei titolari di uffici civili ed ecclesiastici che da vari centri veneti le assegnavano un ruolo di lontana, sottile velina confinaria passibile di continue alterazioni. La donazione della valle, infatti, era comprensiva di un ambito ben più vasto di prealpi e alpi circostanti già passate sotto la diretta giurisdizione sovrana, anche se ufficialmente pertinenti ai comitati di Treviso, Trento e persino Ceneda (che evidentemente in questo periodo doveva spingersi addirittura a occidente del Grappa). Per il sito di Bassano, l’autorità pubblica continuò comunque a manifestare un suo vivo interesse specie dopo che la Valsugana tra il 1002 e il 1004 si trovò al centro delle operazioni militari tra Arduino d’Ivrea ed Enrico II[5]. Si ebbe una concentrazione di interessi e forse una competizione fra vescovi e conti della Marca Veronese ancor più intensa di quanto si sia sin qui immaginato; anche se, francamente, troppi passaggi della storia delle autorità effettive e teoriche che se lo disputarono rimangono tuttora oscuri. In quest’ottica possiamo leggere verosimilmente un altro fatto appena rilevato dalla storiografia e pur degno della massima attenzione. Alludo alla circostanza per cui, in base a due discussi diplomi imperiali del 1016 e 1031, il nucleo insediativo più antico di Bassano, cioè Margnano, sarebbe stato uno dei punti strategici dell’espansionismo dell’episcopio bellunese fin dai tempi del vescovo Giovanni (963-999), il battagliero presule che appunto d’intesa con Ottone I e con il suo appoggio diede vita a un frastagliato sistema di controllo delle chiavi d’accesso alle vallate alpine in tutta l’area fra il Brenta e il Tagliamento, sia nel proprio territorio sia nei contermini comitati di Trento, Feltre, Friuli, Treviso, Ceneda, Vicenza[6]. Un privilegio autentico del Barbarossa del 1161 che si attarda a inserire forse ormai solo platonicamente fra le temporalità della chiesa bellunese anche il locus Margnane sembra confermarlo[7]. Ma il problema, impostato in termini di astratta storia “circoscrizionale”, lascerebbe ben poco intendere dei successivi, singolari progressi di Bassano e della sua rapida trasformazione in un polo di organizzazione territoriale refrattario a uno stabile e pieno controllo da parte di altri centri cittadini. Il fatto è che il concreto dinamismo delle forze territoriali in questo punto di sutura tra il Pedemonte vicentino e quello trevigiano, incrociato a sua volta da un asse di collegamento tra valichi alpini e pianura veneta ancor più rilevante in una più vasta strategia di potere simultaneamente interessata sia al regno italico sia al mondo germanico, aveva visibilmente già dato vita almeno dal X secolo a sostanziosi mutamenti degli equilibri demico-ambientali e dello stesso assetto del potere locale. Solagna nel 915 e altre località rivierasche del Brenta più a valle di Bassano nel 972 sono nel comitato di Treviso. Ma nel 998 un’assise giudiziaria di rilevanza regionale si svolge presso la pieve di Santa Maria di Margnano, in quel sito già popolato e provvisto di una chiesa battesimale, dunque, che inconfutabilmente corrisponderà se non all’intero futuro centro abitato, al suo più significativo polo di aggregazione[8]. Agiscono qui congiuntamente i messi dell’imperatore Ottone III e le massime autorità politiche e religiose della neonata Marca Veronese.Il placito è infatti presieduto da «Azeli, misus domini Otonis imperatoris», dal vescovo di Verona Otberto (a lui molto legato) e dal conte di quella città Riprando in qualità di «missus domini Otonis ducis istius marchie»; presenziano tra gli altri anche il vescovo di Treviso Rozone e il conte Azili di Ceneda[9]. Ebbene, questo luogo è ubicato in comitatu Tarvisionensi e la data topica è «in via publica, que est prope ecclesiam sancte Marie Plebe sita in Mariniano et non multum longe a ripa fluvii que vocatur Brenta». Il sito ove sorgerà Bassano dunque sembra aver svolto fin dalle origini il ruolo di fulcro della presenza pubblica in uno scacchiere così strategicamente rilevante, predisponendo quel suo ruolo storico plurisecolare di “città di frontiera” - come si è scritto recentemente - «per Vicenza, per Padova e per tutto il canale del Brenta»[10]. All’alba del secondo millennio di Cristo, dunque, sotto un profilo meramente giuspubblicistico il nastro del Brenta costituiva all’altezza di Bassano una sorta di linea confinaria tra le sfere d’influenza delle città di Vicenza e di Treviso; tanto più che non mancano conferme, anche se un po’ posteriori, dell’opposto incardinamento nel comitato vicentino dei villaggi della sponda occidentale: ad esempio Campese nel 1124, Friola e Schiavon nel 1146, Angarano nel 1156[11]. Lungi dal manifestare rapporti preferenziali con la città berica, che ne giustifichino le più tarde pretese di inquadramento distrettuale, in questo contesto sarebbe semmai da ammettere una primordiale “trevigianità” di Bassano. Castello privo di qualunque rilevante antefatto insediativo antico e tardoantico[12], Bassano fa, com’è noto, la sua comparsa nella documentazione scritta come villa: non prima del 1085. In questo anno, in occasione della fondazione dell’abbazia di Sant’Eu­femia di Villanova, sono ugualmente ubicate entro la circoscrizione comitale trevigiana, come Bassano, tutta una serie di villaggi disseminati nelle campagne ad est e a sud di Bassano poi lungamente contese da Padova e da Vicenza. Così è per Cartigliano, Fontaniva, Cassola, Rossano, Onara, Romano, Mussolente. Lo stesso monastero di Santa Lucia del Brenta, fondato qualche chilometro a nord di Fontaniva e donato nel 1122 alla congregazione cluniacense da un gruppo di nobili del luogo tra cui anche Ezelo da Romano, si trovava in comitatu Tarvisionensi. Ma le debolissime tracce della vicenda dell’insediamento bassanese possono (e per certi aspetti debbono) essere osservate per così dire in filigrana attraverso il lento emergere della autorità signorile dei da Romano. E’ la struttura stessa della documentazione a suggerircelo, perché la filiera documentaria “aristocrazia – enti monastici” ha nel XI e XII secolo una certa capacità di sopravvivenza che una modesta comunità rurale quale era Bassano non si può neppure sognare (la documentazione del comune bassanese è “consapevolmente” prodotta e conservata soltanto dagli inizi del secolo XIII). L’impianto, già nella prima metà del secolo XI, e il successivo rafforzamento di una articolata signoria territoriale sotto la guida dei da Romano continuò indub­biamente a rientrare in questo quadro di riferimenti generali. Sarebbe necessaria una più circostanziata e persuasiva ricostruzione, ma noi oggi siamo in condizioni di leggere gran parte della storia del maggior casato del Veneto settentrionale (dal capostipite Ezelo di Arpo a Ezzelino III), come simultanea storia del costituirsi e del potenziarsi di un’area di sicura preponderanza, se non di omogeneo dominio, di una medesima stirpe feudale (si pensi al programmatico ruolo di colonizzazione concretizzato dalla grande fondazione monastica di Santa Croce di Campese[13]). Un’area il cui asse portante continuò a rimanere il Brenta, dalle montagne feltrino-trentine alla linea delle risorgive, fu assemblata con porzioni marginali di più comitati e diocesi con l’impianto di una robusta rete di alleati e clienti e col ricorso sistematico a investiture benefìciarie, acquisti, e forse anche - come lasciano intendere non pochi indizi - atti di forza e usurpazioni. Il documento del 1085 sopra menzionato parla «de montibus tribus, Pudisis, scilicet et Ascelo, seu Turnardo et montem unum integrum qui vocatur Fugia et tertiam partem canalis qui dicitur de Brenta». Le montagne in argomento appartengono rispettivamente ai massicci del Grappa e all’Altopiano dei Sette Comuni: segno che già all’epoca i da Romano controllavano non solo il fondovalle, ma anche i versanti di esso e i maggiori contrafforti alpini che lo sovrastavano da est e da ovest; in una parola tutte quelle “adiacenze” di antica spettanza pubblica che vengono menzionate nel diploma berengariano del 915[14]. I primordi di questa fruttuosa politica dinastica, difficilmente perseguibile senza il benestare più o meno esplicito dell’impero (dal quale il capostipite della famiglia avrebbe avuto la stessa curia di Onara[15]), restano come è ben noto oscuri, ma si sa quanto basta per intuire certi sviluppi. Se ad esempio l’antenato dei da Romano Ezelo già nel 1085 aveva il controllo del «canalis qui vocatur de Brenta», cioè la bassa Valsugana, ciò fino a poco tempo fa lasciava solo presupporre l’esistenza di rapporti all’epoca già definiti coll’impero o con l’episcopio di Padova. Ebbene: se n’è avuta precisa conferma da un atto duecentesco comprovante che i da Romano detenevano a titolo feudale da quest’ultimo centro di potere un insieme di «possessiones, terre, bona, iura et honores» che andavano dalla stazione di blocco di Solagna a sud fino alla rocca di Arsiè e al castello di Fonzaso a nord. Parlando esplicitamente anche del padre e degli antecessores di Ezzelino (fig.2;tav.3) e Alberico,

Bortolami Pigozzo 2

2. A. Capriolo, Ritratto di Ezzelino III da Romano, 1596. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Coll. Rem. XVII 483.2086.
Iconografia cinquecentesca del tiranno, anziano, con la barba e con corazza sulla quale campeggia l’aquila imperiale.

la fonte autorizza a ritenere che una simile situazione si era già creata nel XII secolo. Secondo queste affidabili informazioni tardoduecentesche[16], il complesso di «possessiones, terre, bona, iura et honores» costituenti il feudo concesso dall’episcopio padovano agli avi di Ezzelino ed Alberico da Romano comprendeva addirittura due fortezze nella valle del Cismon, in territorio feltrino, vale a dire il covalo col castello di Fonzaso e la rocca di Arsié, con annessi mansi, monti, decime e diritto di nomina degli ufficiali comunali (marigantia). Lo stesso feudo era comprensivo inoltre di analoghi diritti, arricchiti degli introiti della transumanza («pixonaticum omnium bestiarum tam in monte quam in plano»), di svariati terreni e case, e di tre ruote di mulino in altre tre località della valle del Brenta, cioè San Nazario, Pove e Solagna, alla cui porta si riscuoteva anche la «muta et pedagio per terram et per aquam» di una trafficata via di collegamento con il Trentino e le regioni tedesche. Essi continuarono inoltre a stringere relazioni anche con una varietà di chiese e poteri dominanti d’altre città: Treviso in primis per tutto il pedemonte asolano e la sottostante pianura; Feltre e Belluno in rapporto al Coneglianese e a circoscritte enclaves quali Mussolente e forse - come si è visto - Margnano[17]; con molta probabilità Vicenza per le località d’oltre Brenta. Una conferma esplicita di ciò viene dall’isolata dipendenza di Godego, verosimilmente comprensiva di tutta una più vasta area d’alta pianura su cui sarebbero sorti i borghi di Castelfranco e Cittadella, dove è pacifico che i da Romano misero le mani solo in quanto vassalli e tutori degli interessi cisalpini dei vescovi di Frisinga[18], facendone, come osserva il cronista Rolandino, una loro camera specialis. Dal nostro punto di vista preme soprattutto evidenziare il rilievo speciale che in un siffatto processo venne assumendo Bassano già prima delle lotte intercittadine del XII secolo. La sua eccentricità ed equidistanza da Treviso, Vicenza e altre sedi cittadine; la favorevole predisposizione a vigilare su passi e strettoie d’accesso al Trentino e alla conca feltrino-bellunese, come la valle del Cismon o le scale di Primolano (per cui non sarebbe parsa millanteria l’affermazione che i da Romano disponevano da soli di tale potenza «da poter condurre perfino l’impera­tore nella Marca Trevigiana attraverso le loro terre», come afferma il cronista Gerardo Maurisio); la sua obbligante posizione di testa di ponte per la tutela degli interessi economici e religiosi padovani nel troncone settentrionale della diocesi; in una parola la sua posizione “franca” e strategica nel quadro dei delicati equilibri politico territoriali del Veneto continentale ne fecero non solo il fulcro e la «base operativa» (l’espressione è di Gina Fasoli)di una signoria tentacolare per mezzi economici, forza militare e presa sociale e sganciata di fatto da troppo stretti condizionamenti dei vecchi centri urbani, ma ne favorirono la trasformazione a epicentro di un nuovo vivace sistema di relazioni umane e territoriali, a nuova “quasi città feudale” dai destini politici nient’affatto scontati. Se è forse azzardato asserire che i da Romano «esercitavano un controllo di fatto fin dalla fine dell’XI secolo» su Bassano[19], il tentativo recente di fare di essi una potenza signorile eminentemente trevigiana fino all’ultimo decennio del XII secolo, prospettando fino a questo periodo una loro sostanziale estraneità dalla vita politica di Vicenza e una maturazione di interesse per quella di Bassano ugualmente tardiva, quasi obbligata dalla dialettica partigiana delle città della Marca, e comunque «ancora a livello per così dire, locale», non è infatti a mio parere convincente[20]. Pur tranquillamente ammettendo una preferenziale gravitazione sul sistema cittadino trevigiano (si è del resto accennato sopra alla probabile o possibile originaria “trevigianità” di Bassano), troppi dati problematici andrebbero almeno segnalati, se non discussi, a correzione di una tesi così drastica. Ad esempio, sarebbe almeno da dire che già nel 1085 Ezelo di Arpo e i suoi consortes possedevano e donavano per ragioni pie una masseria e servitù posti «in civitate Vicentina»; oppure sarebbe da chiedersi, una volta fatta la non impossibile identificazione della villa Baitrisina con l’odierna Bertésina, a quattro chilometri da Vicenza, come mai i coniugi Aica ed Ezelo vi facessero già prima del 1118 permute di immobili del valore di 40 lire con Bertelaso da Angarano, che è con lo stesso Ezelo e il fratello Alberico fra i consortes che dotano il neonato monastero di Campese tra il 1124 e il 1131[21]. Con prudenza, possono essere valorizzati a sostegno della tesi che proponiamo anche documenti più tardi. Da un documento postumo sappiamo che l’accaparramento di terre, uomini e fortezze «in Marostica et eius districtu» che nel primo Duecento avrebbe portato i da Romano a controllare direttamente o colle proprie masnade anche quel centro pedemontano era già ben progredito prima della scomparsa di Ezzelino il Balbo, cioè intorno al 1183[22]. Va ancora ricordato che tra coloro che giurarono la tregua con Federico Barbarossa il 1 agosto 1177 in rappresentanza delle varie città della lega lombarda (la cosiddetta pace di Venezia, momento importante) troviamo anche «de Vincentia Eczulinus», che è sicuramente un da Romano[23]. In presenza di dati del genere non pare legittimo affermare che «nessun documento, fra quelli finora noti del secolo XII, ci mostra una presenza o un interesse dei da Romano nella città (Vicenza)»[24]. Un altro aspetto importante, che costituirà per così dire un filo conduttore della vicenda storica di Bassano nei secoli successivi, emerge nel secolo XII. Esso sta nell’appartenenza, o almeno nella precoce rivendicazione, di quella pieve alla diocesi di Vicenza, il solo appiglio che poteva trovare il comune vicentino nel rivendicare a sé in base a un antico mos civitatum qualche diritto su Bassano. Dal punto di vista patrimoniale, l’episcopio vicentino era presente nel territorio “bassanese”, e probabilmente sin dalla fine del secolo X. È possibile affermare - sempre che s’ammetta l’autenticità di un privilegio giuntoci in copia del 1146, a sua volta esemplato nel 1403 - è che l’episcopio vicentino fin dal 983 era in condizioni di poter far dono al monastero urbano di San Felice di due casali e due monti ad Angarano e di una corte a Solagna [25]. Ma la dipendenza ecclesiastica da Padova è inoppugnabile. La stessa pieve di San Biagio di Angarano, poi stabilmente inquadrata nella diocesi vicentina, fu in realtà elevata al rango di chiesa battesimale dai vescovi padovani nei primi decenni del XII secolo. Tutto ciò si deduce con chiarezza dalle testimonianze rese nel 1173 da numerosi abitanti della zona[26]. Nella sostanza si realizza che prima del grande terremoto del 1117, il presule di Padova «fecit ecclesiam Sancii Blasii [di Angarano] plebem», pur rimanendo essa dipendente dal vicino monastero di San Floriano di Marostica, e le assegnò come cappella la chiesa di San Martino di Campese (tav.7), già soggetta alla vicina pieve, pure padovana, di Solagna. La successiva fondazione del monastero di Santa Croce (tav.5) venne a scompaginare questo sistema, dando vita in tutta l’area di Campese a un’isola immune dal pagamento del quartese alle vicine chiese battesimali. A torto dunque Mantese ha sempre fervidamente sostenuto la tesi che la pieve di Santa Maria di Bassano fu «incorporata nella diocesi di Vicenza dopo la distruzione di Asolo» e con altrettanta perentorietà ha asseverato che «un vero diritto di signoria esercitano infine i vescovi di Vicenza verso il Mille sulle ville e i territori di Bassano, Angarano e Cartigliano»[27]. Dal canto suo Gina Fasoli si è mantenuta su una posizione più prudente: «sembra invece da escludere che i vescovi vicentini del sec. XI-XII avessero su Bassano e su Angarano quei diritti temporali di cui nel 1260 uno dei loro successori riteneva di avere la disponibilità», ribadendo altrove «che il vescovo di Vicenza... non aveva nessun diritto su Bassano»[28].

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