[72] La ricostruzione storica della vita della manifattura Antonibon inizia con il testo di Giambattista Baseggio del 1861 in cui l’autore pubblica le nozioni base dell’azienda e i nomi dei suoi protagonisti (Giovanni Battista e Pasquale Antonibon, oltre a Fischer, Lorenzi, Baccin, Parolin, Baroni, Bosello e Marcolin). Dice di aver visto a Casa Antonibon «vasi di belle forme, incorniciature di finestre durissime, dipinte con bel modo d’ornati, sulle quali si legge l’anno 1744, due paesi operati si crede, da quel Cecchetto, sopra tondi con buon disegno, conoscenza di prospettiva e vaghe tinte locali; il ponte di Rialto monocromatico su una lastra mobile che porta scritto l’anno 1743 probabilmente lavoro dello stesso Cecchetto». (BASEGGIO, Comentario cit., p. 10). Nel 1868 Richard William Drake nelle sue Notes of venetian ceramics studia alcuni pezzi novesi e diversi documenti veneziani sugli Antonibon, forse, anche recandosi a Nove (DRAKE, Notes on venetian cit., pp. 4-5; 23-28; 31-34 e Appendice). Drake pubblica i testi documentari del 1732, 1735, 1756 e, soprattutto, la relazione della visita del 1766 dell’Inquisitore delle Arti Gabriele Marcello (DRAKE, Notes on venetian cit., p. 84) Contemporaneamente all’estero, in Inghilterra e in Francia, collezionisti-studiosi pubblicano repertori di pezzi marcati conservati nelle più importanti collezioni pubbliche e private. Tra questi compaiono man mano anche maioliche e porcellane novesi. Il primo è Joseph Marryat, collezionista inglese che cita una «soft paste porcelain a Le Nove, near Bassano» su modello francese e cita la marca «ad asterisco in blu o in oro», poi Auguste Demmin, nel 1863 (DEMMIN, Guide de l’amateur de faïences & porcelaines, Paris, Librairie J. Renoud, 1863, p. 254) presenta lo straordinario centrotavola novese oggi al Museo Civico di Nove, considerandolo erroneamente un pezzo vicentino non riuscendo a comprendere l’iscrizione (la trascrive erroneamente «Dalla fabrica di Gio Batta Amonibon nalle none di Vicen. An 1755» traducendola in modo fantasioso «de la barrique de Jean Baptiste Amonibon au “Vieux noir de Vicence”»). Dopo di lui W. CHAFFERS, nella III edizione del suo Marks and monograms on pottery and porcelain edita nel 1870, dichiara che oltre a Baseggio, e Drake, sua fonte fondamentale è una lettera scritta da Francesco Antonibon a Lady Charlotte Schreiber nell’agosto del 1869: «It forms a complete history of the Nove porcelain» (CHAFFERS, Marks and Monograms cit., p. 382). La lettera di Francesco Antonibon a Lady Charlotte non è stata ritrovata, ma resta il racconto del suo passaggio a Nove (il 29 giugno) descritto nel suo diario e pubblicato a Londra da Guest Montague solo nel 1911. Lady Charlotte Schreiber’s Journal, a cura di J. Guest Montague, London; New York, J. Lane, 1911, pp.80-85. Chaffers nelle sue numerose pubblicazioni descrive bei pezzi novesi marcati visti in collezioni inglesi (molti oggi nelle raccolte civiche novesi e bassanesi). Negli stessi anni Andrè Jacquemart (1869) assegna a Treviso un pezzo marcato con la «N» novese e cita la manifattura Antonibon e il vaso in porcellana con il fondo blu lumeggiato in oro e medaglioni decorati con episodi della vita di Dario d’après Le Brun con alla base la scritta «Bracciano alle Nove» (lo pubblicherà anche Chaffers, correggendo la lettura della marca in «Baroni alle Nove», CHAFFERS, The New Ceramic cit., p. 116, fig. 86). Ma le pagine più interessanti sulla storia della manifattura novese del XIX secolo saranno gli articoli di Giuseppe Corona nel «Giornale» delle esposizioni internazionali della Sonzogno. Nel 1881 compare per la prima volta con un certo rilievo quella dell’on. Pasquale Antonibon, con qualche breve accenno storico (G. CORONA, L’Italia ceramica a Milano, in L’esposizione italiana del 1881 in Milano, Milano, Sonzogno, 1881, pp. 130-131). Nel 1885 scriverà il celebre volume La ceramica vi dedica diverse pagine alla manifattura degli Antonibon: ne traccia la storia dalle origini all’età contemporanea, citando collaboratori e concorrenti, inserendo anche qualche documento inedito. Scrive anche delle diverse società novesi, della lavorazione della terraglia all’inglese e di Pietro Poatto. Concluderà il suo testo illustrando le produzioni alle industrie ceramiche minori attive in quel momento nel comprensorio bassanese (G. CORONA, Il Veneto cit., pp. 369-380). Urbani de Gheltof (che nel 1868 non aveva parlato di Nove) anche nel testo del 1889 riserva poco spazio alle ceramiche novesi (URBANI DE GHELTOF, Note storiche cit., pp. 18-162). Novità storiche di rilievo verranno invece pubblicate nel 1925 da Matteo Stecco, cultore locale. Tutta la sua attenzione è dedicata alla produzione di Nove (STECCO, Storia delle Nove cit., pp. 165-222). Oltre ai documenti veneziani già noti, Stecco aggiunge interessantissime informazioni documentarie fornite, molto probabilmente, dagli eredi Baccin - Cecchetto (STECCO, Storia delle Nove cit., pp. 188-189): Vi è spazio alla produzione dell’ultimo quarto dell’Ottocento e nel primo Novecento. Nel 1932 Costantino Baroni scrive un importante saggio dedicato alle ceramiche novesi per l’«Archivio Veneto» (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., pp. 180-285) legando tra loro con estrema cura tutte le fonti, compilando un testo ampio, ricco di citazioni e, pubblicando, in appendice, il testo degli interrogatori del processo Antonibon-Cozzi del 1765, il più importante documento riguardante la storia della ceramica veneta. E, per la prima volta, una ricca galleria iconografica correda il lavoro: vi sono illustrati diversi pezzi provenienti dalle raccolte famigliari locali. Il nuovo interesse si manifesta con un’importante mostra a Ca’ Rezzonico nel 1939 che presenta le ceramiche venete del XVIII secolo al pubblico veneziano. (G. LORENZETTI, Maioliche venete del Settecento, Venezia, s. e., 1939, p. 16). Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento sarà Gino Barioli, presidente della Scuola d’Arte novese, ad organizzare un buon numero di esposizioni dedicate alla ceramica veneta nelle maggiori città della regione. La prima Ceramiche antiche di Bassano, delle Nove e di Vicenza tenutasi al Museo Civico di Bassano nel 1954 fu di grande impatto (Ceramiche antiche di Bassano, delle Nove e di Vicenza, a cura di G. Barioli, Venezia, N. Pozza, 1954). La Scuola d’Arte novese ebbe un ruolo di rilancio culturale negli anni Sessanta: ne fu protagonista Andrea Parini fautore di giovani iniziative come la fortunatissima gara dell’Arcicucco. Negli anni Settanta crebbe la rinascita della ceramica popolare veneta. Suoi collezionisti erano colti veneti e liberi intellettuali milanesi. Una mostra a Bassano del Grappa nel 1978, voluta da Licisco Magagnato, ebbe rapida eco in un volume di grande fortuna a cura di Guido Cesura, edito dalla più importante casa editrice artistica italiana, l’Electa. (G. CESURA, Piatti popolari veneti dell’800, Milano, Electa, 1977; Il piatto popolare veneto dell’800, catalogo della mostra di Bassano e Venezia, a cura di G. Cesura, Milano, Electa, 1978). La mostra ebbe anche a Milano un grande successo. La crescita della consapevolezza del valore della propria storia vede formarsi una raccolta esposta in sale annesse all’Istituto statale d’arte del paese, collezione che verrà catalogata nel 1989 da Nadir Stringa (N. STRINGA, Il Museo della ceramica. Istituto statale d’arte G. De Fabris. Nove, Nove, Ad/Master, 1989). Paola Marini, allora direttrice del Museo di Bassano del Grappa, ha promosso la realizzazione di un’importante esposizione dedicata alla produzione Antonibon a Bassano ricercando nel mondo museale e del collezionismo privato straordinari pezzi “monumento”. Nel catalogo di quella mostra, La ceramica degli Antonibon del 1990, vennero pubblicati i risultati degli studi di P. Marini e G. Ericani e l’importante Regesto documentario di Nadir Stringa (pp. 176-195); in quell’occasione mi venne affidata la schedatura dei pezzi esposti (La ceramica degli Antonibon, catalogo della mostra di Bassano del Grappa, a cura di G. Ericani, P. Marini, N. Stringa, Milano, Electa, 1990). Ancora la Marini progetterà la pubblicazione di due volumi della Banca Popolare di Verona, dedicati alla produzione ceramica della Terraferma Veneta: il primo, da lei curato con Giuliana Ericani, era dedicato alla ceramica dal Rinascimento al Neoclassicismo (La ceramica nel Veneto cit.) e il secondo, dedicato all’Ottocento, mi venne affidato (La ceramica dell’Ottocento nel Veneto ed in Emilia Romagna, a cura di R. Ausenda, G. C. Bojani, Verona, Banca popolare di Verona, Banco S. Geminiano e S. Prospero, 1998). Negli stessi anni la collezione ceramica civica di Bassano trovò nuova e più prestigiosa collocazione nel restaurato Palazzo Sturm. Il recente arrivo della Collezione del marchese Roi (G. ERICANI, La porcellana, e R. AUSENDA, La collezione ceramica del marchese Roi, «Notiziario degli Amici dei musei e dei monumenti di Bassano del Grappa», 40-45 (2010) ha arricchito notevolmente il patrimonio di questo museo rendendo necessario un nuovo allestimento.

[73] BASEGGIO, Comentario cit., p. 8; CORONA, Il Veneto cit., pp. 369-370; BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p.183.  

[74] STRINGA, La ceramica di Angarano cit., p. 13.  

[75] DRAKE, Notes on venetian cit., pp. 23 e ss., App. VI.  

[76] N. STRINGA, Regesto, in La ceramica degli Antonibon cit., p. 177.  

[77]  Maitelli è una famiglia di ceramisti attiva dall’inizio del Seicento a Lodi e poi «vaganti per il mondo». É certamente molto importante notare che i figli del nonno Domenico (il nostro bassanese) si trasferiranno in Francia a Lyon (G. VANINI, Lodi e le sue fornaci. Da maiolica, da predame da vetro e laterizi, I, s. l., s. e., 2008, p. 111). Forse, come diremo, anche Domenico era già stato in Francia. cfr. p.456, n.88.  

[78]  Vedi STRINGA, Regesto cit., p. 177, 1731, 1 dicembre. Questo nome fa pensare ai celeberrimi G. e C. F. Heroldt di Meissen: l’assonanza indubbia e, magari, puramente casuale.

[79] ERICANI, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 46-47, n. 1.  

[80]
  Anche le fasce dei bordi fanno pensare alla Francia e le ritroveremo nel repertorio della manifattura Ginori di Doccia. L. GINORI LISCI, Altri modelli e decori delle maioliche settecentesche della manifattura Ginori, «Faenza», XLII (1956), pp. 19-22, tav. IX). Possiamo annotare che questo farebbe pensare che sia stato Letournau a produrre questa zuppiera, ma allora la datazione dovrebbe scivolare di un decennio (1737) e non potrebbe più essere considerata il pezzo presentato al Senato nel 1729. La presenza delle iniziali del capo fondatore non sono precisi vincoli datatori. cfr.ancora, p. 456, n.88.  

[81]  «Con la vivacità della fabbrica da esso diretta, ... una non tenue porzione di soldo che rifondevasi per l’acquisto delle terraglie di Delft hora si trattiene nello Stato» (DRAKE, Notes on venetian cit., App. VII).  

[82] A. NOVASCONI, S. FERRARI, S. CORVI, La ceramica lodigiana, Lodi, Banca mutua popolare agricola, 1964; F. FERRARI, La ceramica di Lodi, Lodi, Bolis, 2003.  

[83]  La forma della terrina (zuppiera senza piede) lodigiana (FERRARI, La ceramica cit., pp. 95, 133, 134, 161) è certamente alla base di quella novese (R. AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 49, 56, 80).  

[84] FERRARI, La ceramica cit., pp. 142-143; AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., p. 60: Antonibon rende più forti le costolature e le anse più vivaci. I piatti “a coste” entrano anche nel repertorio milanese (R. AUSENDA, in Museo d’arti applicate, cit, II, p. 253, n. 278), faentino (C. RAVANELLI GUIDOTTI, Thesaurus di opere della tradizione di Faenza nelle raccolte del Museo internazionale delle ceramiche in Faenza, Faenza, Agenzia Polo Ceramico, 1998, pp. 566-587), arrivando col tempo a Pesaro (G. BISCONTINI UGOLINI, Ceramiche pesaresi dal XVIII al XX secolo, Faenza, Grafis, 1986, p. 40), Imola (C. RAVANELLI GUIDOTTI, Maioliche del Settecento. Collezioni d’arte della Fondazione Cassa di risparmio di Imola, Ferrara, Belriguardo, 2004, p. 121) ma la sua diffusione proseguirà progressivamente sul modello novese, non più solo su quello lodigiano.  

[85] Il motivo con i due fiori accostati al centro e/o la catena di elementi vegetali sulla tesa (AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 47-48, nn. 2-6) sono usati anche a Faenza dai Ferniani e, poi, a Bologna da Finck: pezzi coerenti sono conservati in collezioni private. Ancora più fortuna la forte collana ritmata di fiori blu a corolla ovali fortemente stilizzati, tradizionalmente detto “decoro tipo Delft”: (AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., p. 49, nn. 7-9) la ripetizione di questo motivo con varie formule stilistiche e accenti cromatici su forme assenti dal repertorio novese dimostrano che si tratta di una formula diffusa e non possiamo dire se Antonibon ne è il padre o un semplice interprete. Incontriamo anche questo motivo a Faenza (C. RAVANELLI GUIDOTTI, La Fabbrica Ferniani. Ceramiche faentine dal barocco all’Eclettismo, Milano, Silvana, 2009, pp. 171-176), a Pesaro (collezioni private pesaresi).  

[86] Vedi AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., p. 49, nn. 7-9.  

[87]  AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 50-51, nn. 10-12. Lo possiamo pensare dalla forte familiarità di questo motivo con «la rosa in monocromia di cobalto dipinta sulla maiolica di Doccia» (L. GINORI LISCI, G. LIVERANI, Maioliche settecentesche della Manifattura Ginori, «Faenza», LXI (1955), pp.77- 89, pp. 85-86).  

[88]  «Capitò qui in Le Nove Domino Nicola Netturnò con lettere di raccomandazione dirette al medesimo Domenico, in conformità dell’ordine lasciato da suddetto Maitelli in quelle parti, aciò li trovasse impiego per lavorare di pittore e l’ha impiegato in la bottega di maiolica fine del signor Gio Batta Antonibon» (STRINGA, Regesto cit., p.177). Il passaggio «in quelle parti» è stato letto da Stringa come riferito a una presenza del francese a Lodi ma, data la sua assenza nei documenti lodigiani finora pubblicati, sempre ipotizzando, si potrebbe invece pensare al passaggio di Maitelli in Francia. Infatti, dai documenti pubblicati da Vanini (VANINI, Lodi cit., p. 110) si sa che i figli di Maitelli, alla sua morte si trasferiranno a Lione. E’ ben noto come moltissimi ceramisti italiani lavorassero nelle manifatture del sud-ovest francese. Le carte della manifattura Ginori di Doccia testimoniano della presenza di Nicolas Lhetournaus (così firma!) nel 1740 e della sua morte il 17 giugno 1741. Leonardo Ginori Lisci nel 1955 pubblica delle notizie giuntegli da Nevers su una famiglia di «faÿencier» a cui apparteneva un Nicolas nato nel 1707 (GINORI LISCI, LIVERANI, Maioliche settecentesche cit., pp.77- 89). Biancalana recentemente, pubblica i documenti in cui Carlo Ginori ordina subito dopo la morte dell’artista di recuperare le sue carte, tra cui un libretto di ricette (Biancalana, Porcellane e maioliche cit., pp.20-21).  

[89] La formula ornamentale inventata da Jean Berain II, decoratore del Re di Francia era usata nelle produzioni ceramiche torinesi, lodigiane, faentine e savonesi all’inizio del ‘700. A me è noto solo un piatto ovale a coste novese ‘alla Berain’, realizzato forse dopo il 1740; e conservato in collezione privata. Probabilmente un raro esempio sperimentale. Ringrazio il dott. Francesco Sensi per avermene permesso lo studio.  

[90] Questa formula floreale incontrerà grandissimo successo e sarà prodotta molto a lungo: lo dimostra la grande quantità di pezzi, la varietà dei modelli e la loro diversa qualità. Non è raro, neppure, incontrare grandi servizi da tavola con questo decoro (AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 78-82). Il motivo “a blanser“ è presente anche nel repertorio di Giovanni Rossi a Treviso (il decoro a “blasier” è elencato tra i «generi prodotti» nel 1767: P. MARINI, G. ERICANI, Appendici. Documenti, in La ceramica nel Veneto cit., p. 479, docc.3 e ss.); imolesi (vedi RAVANELLI GUIDOTTI, Maioliche del Settecento cit., p. 146 fig. 125-126) dal Casali e Calegari e Bertolucci di Pesaro (dove viene chiamato “ticchio”; BISCONTINI UGOLINI, Ceramiche pesaresi cit., pp. 60 e ss.; G. BISCONTINI UGOLINI, P. PIOVATICCI, L’arte ceramica del Settecento a Pesaro, in Pesaro. Dalla devoluzione all’Illuminismo, Venezia, Marsilio, 2009, p. 271, n. 34: datato 1765). Le maioliche “a Blanser” sono presenti in buon numero nell’inventario del 1796 della manifattura Finck a Bologna (Finck aveva lavorato a Nove: è citato nei documenti del processo Cozzi-Antonibon del 1765. G. BERTOCCHI, F. LIVERANI, Ceramiche bolognesi del Settecento, Bologna, Zanini, 1982, Inventario 1796, s. p.).  

[91] Oggi conservata al Museo Civico di Bassano del Grappa. Questa non è una di quelle citata da Baseggio. Questi le dice datate 1755, mentre la lastra oggi a Palazzo Sturm porta la data 1751 (AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 54-55, n. 22).  

[92] A. PICA, Piastrelle italiane da collezione, Milano, Bestetti, 1969, p. 66. In effetti, in una nota Baroni ci informa che le due lastre sottofinestra di casa Antonibon, dopo un breve soggiorno a Venezia, quando le vide Lorenzetti, «esularono in America», mentre gli altri pezzi furono venduti alla spicciolata (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 193, nota).  

[93] Inv. IV.142. BARONI, Le ceramiche di Nove cit., tav. 1; AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 62-63, n. 38.  

[94]  Asta Semenzato, Venezia (s. d.), nn. 24-26.  

[95]  Musées Royaux d’Art et d’Histoire di Bruxelles (inv. V.D.L.39).  

[96]   In casa Antonibon si tramandava il nome di Mariano Cecchetto quale ottimo artista autore delle vedute veneziane, forse queste (BASEGGIO, Comentario cit., p. 10). Nel 1738 Pasquale è testimone al suo matrimonio (L. RIZZI, I Cecchetto delle Nove, Ferrara, Belriguardo, 1999, p. 27). Ritroveremo questo nome, vent’anni dopo, negli atti del processo del 1765, tra gli artisti che tradirono Antonibon andando a lavorare per Cozzi a Venezia, ma è un torniante non pittore (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 193, nota; G. CORONA, Italia Ceramica. Pasquale Antonibon e la ceramica di Nove, in L’esposizione italiana in Torino 1884 illustrata, Milano, Sonzogno, 1884, pp. 115. 122-123).  

[97]  BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 196.  

[98]   Carmen Ravanelli Guidotti ricorda che nel 1738 quando Maria Amalia di Sassonia si fermò a Faenza la tavola viene imbandita con «mazzi di spargi, cardi, cavoli, finocchi, carciofi e cedri…». Vedi RAVANELLI GUIDOTTI, La Fabbrica Ferniani cit., pp. 53, 124-126. I prodotti trompe-l’oeil furono prodotti anche a Milano, Pavia, Lodi, Savona, Bologna.  

[99]  BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 197.  

[100] AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp.82-83, n. 89.  

[101] BRUGNOLO, Museo civico cit., p. 40; DEMMIN, Guide cit., p. 15. (cfr. p.452).  

[102]  Il decoro ‘alla frutta’ è presente in quasi tutti i repertori della maiolica settecentesca dell’Italia Settentrionale: la incontriamo infatti a Pavia, a Lodi (sia da Antonio Maria Coppellotti, che da Ferretti) e a Milano.  

[103]
 Il motivo alla ‘frutta con la rocaille blu’ visibile nel centrotavola sarà ripresa nella produzione pesarese: un piatto Casali e Calegari è marcato «Pesaro 1760»: G. BISCONTINI UGOLINI, P. PIOVATICCI, L’arte ceramica cit., p. 261.  

[104] AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 62 e ss. Questo deve il nome alla protagonista del decoro: una radice ad arco sormontata da una griglia a losanghe ed un ventaglio di grossi petali. A questo fanno da cornice, isolotti con piramidi aguzze, alberelli, ciuffi fioriti disposti in modo asimmetrico sulla superficie. Molte forme diverse, molte varianti sul motivo “madre” per clienti particolari (come si può osservare nel celebre servizio Thiene; AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 75-77). Ma non è raro trovare prodotti “al ponticello” di qualità materica o formale molto diverse, anche decisamente inferiore. Certamente ne sfornavano le altre manifatture bassanesi, ma anche Treviso, Este (possiamo sottolineare che nelle carte del processo del 1765 si parla degli spolveri dei decori realizzati da Giovan Battista Gregori e giunti ad Este ...) e Venezia. Sono inoltre noti una zuppiera marcata «Pesaro 1760» (BISCONTINI UGOLINI, PIOVATICCI, L’arte ceramica cit., p. 257, n. 10) e un piatto segnato «C.C. /Pesaro/ 1788» decorato “al ponticello“ (BISCONTINI UGOLINI, Ceramiche pesaresi cit., p. 40). E’ evidente che le manifatture che declinano certe formule stilistiche sono di numero ben più ampio di quello che normalmente viene considerato anche al di fuori del comprensorio bassanese.  

[105] E’ importante notare che questo ornato nella stragrande maggioranza delle manifatture ceramiche europee coincise con l’adozione della tavolozza a piccolo fuoco di ben più alti costi.

[106] AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 91-106, nn. 108-133.  

[107]  Sono assolutamente coerenti questi fiori con quelli che decorano le pareti del bacile marcato «Fiera» quindi della manifattura trevigiana Rossi-Ruberti: un pezzo che se non marcato si sarebbe assegnato senza dubbio alla produzione novese. (A. BELLIENI, Manifatture a Treviso nel Settecento e Primo Ottocento, in La ceramica nel Veneto cit., p. 373).  

[108] AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 96-97, nn. 117 e ss.  

[109] J. BASTIAN, Strasbourg. Faïences et porcelaines. 1721-1784, Strasbourg, M.A.J.B., 2003, II, pp. 8 e ss.

[110]  D. MATERNATY-BALDOUY, La Faïence de Marseille au XVIIIe siècle. La manufacture de la Veuve Perrin, Marseille, Agep, 1991, p. 96.  

[111] R. AUSENDA, Maioliche settecentesche. Milano e altre Fabbriche, Milano 1996, pp.23-27.  

[112]  DRAKE, Notes on venetian cit., p. 31. Nella vicina Venezia, poco prima, per qualche anno (1720-1727) era stata prodotta della porcellana da Giovanni Vezzi, quindi è ipotizzabile che fosse stato tentato anche a Nove qualche esperimento su quel materiale di estrema difficoltà. A questo discorso non si può non collegare la interessante Nota dei debiti del primo agosto 1736, pubblicata da Stazzi, in cui un Antonibon risulta tra i debitori di Vezzi (F. STAZZI, Porcellane italiane, Milano, Mursia, 1967, p. 368). Dai documenti sappiamo che fino al 1740 le porcellane Vezzi erano ancora in commercio e che Giovanni Vezzi vendeva il suo sapere (L. MELEGATI, Giovanni Vezzi e le sue porcellane, Milano, Bocca, 1998, pp. 20, 43).  

[113] STECCO, Storia delle Nove cit., p. 183.  

[114] STECCO, Storia delle Nove cit., pp. 183-184.  

[115]  STECCO, Storia delle Nove cit., p. 185 (forse tra questi sarà Giuseppe Finck). Molto probabilmente Sigismondo Fischer succederà nel 1754 a Giovanni Caselli nella carica di capo-pittore di Capodimonte tra gli autori del celebre salottino di Portici e che qui morirà nel 1758. BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 206; A. MOTTOLA MOLFINO, L’arte della porcellana in Italia, 2 v., Busto Arsizio, Bramante, 1976-1977, II, p.71.  

[116] E’ noto un Lorenzo Levantino la cui storia non pare però calzare con questa vicenda. La famiglia Levantino è una delle più importanti nel mondo ceramico di Savona. Qui firma diversi pezzi con un globo crucifero e le iniziali «L. L.» Nel 1765 è documentato un suo trasferimento a Empoli dove però il repertorio riconosciuto della manifattura Levantino è di una qualità tecnico-formale ben inferiore a quella savonese e novese (Moore Valeri, 2008)  

[117] BASEGGIO, Comentario cit., p. 12.  

[118]  La materia ceramica non è coerente con quella che verrà prodotta in seguito a Nove, tanto che ha fatto ipotizzare che si trattasse di porcellane Vezzi ridecorate (MOTTOLA MOLFINO, L’arte della porcellana cit., n. 241 AUSENDA, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 138-140, nn. 207-209). Portano la marca «GAB» ed è evidente su due pezzi (la teiera e il piatto con Ercole) una mano pittorica che lavora con difficoltà nella stesura dei colori a piccolo fuoco. Ben più fine il risultato formale e il valore testimoniale del terzo pezzo, un piatto, che porta una scena allegorica dipinta splendidamente con la giovane 'Nove' in ginocchio davanti alla dogaressa Venezia (C. Maritano ha recentemente pubblicato la lettera scritta nel 1871 da C. Daviller, allora proprietario dei tre pezzi, al Marchese Tapparelli d’Azeglio: C. MARITANO, Emanuele d’Azeglio e le ricerche sulla porcellana veneta, «Palazzo Madama. Studi e notizie», I (20112), n. 0, p. 70).  

[119]  Vennero calcolati "80,000 ducati di investimento dando lavoro a 150 famiglie a Nove, oltre alle 100 persone impegnate per il commercio in Italia ed in Oriente".  

[120] DRAKE, Notes on venetian cit., App. XXIIII.  

[121] BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 213.  

[122]  ASV, Cinque Savi della Mercanzia, Fabbriche privilegiate, b. 463: pubblicato per primo da BARONI, Le ceramiche di Nove cit., App., pp. 262-282.  

[123] Un tal «Gerolamo Nerini di nazion francese, tornitore» che andò da Cozzi, come «Gio. Ortolani pittor, Mariano Cecchetto tornidor, Zuanne Cioni, i due fratelli Baccin pittori, Francesco Costa fornasiero» e «Reato Stampador che passò alla fabbrica dei Brunelli d’Este ... Così pur Marc’Antonio Verziera ... Fabris tornidor, Bernardin Maitelli» (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 263). Sospetta che Mariano Cecchetto, che non avendo avuto l’aumento richiesto passò da Cozzi, abbia rubato «di modelli con il mio gesso fatti», aggiunge l’accusa «che il Verziera si sia fatto spolveri di disegno da Batta Gregori ... che in Este si adopera del Rosso di quello della mia fabbrica, ch’era un particolar mio requisito, che questo viene rubato a scartozzi». Materiali, dice, furono portati dal Lazari e dalla Fiorina Fabris Varion da Cozzi e poi a Bologna (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., pp. 217-218).  

[124] Gli artefici raccontano di operai che scappano dai concorrenti o - come Ludovico Ortolani - provocare Antonibon per farsi licenziare, e poter così andare a lavorare per Cozzi legalmente. Tutti, o quasi, ammettono di avere «lettere in scarsella»: inviti dai proprietari delle manifatture di Venezia, Padova, Parma, Bologna, Torino, Roma, Napoli (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., pp. 262 e ss.).

[125]  BERTOCCHI, La porcellana di Bologna cit., p.38. Allegata vi è anche una lista, compilata da Giuseppe Brunello di Este, di lavoranti dell’Antonibon poi licenziati «o che sono partiti per disperazione». Molti di questi sono forestieri:            Giuseppe Minelli lodesan, Carlo Gison milanese, Negrin milanese, Bastian Rubati savonese, Pietro Girari fiorentino scultor celebre, Gaetano Detti (ora a Roma), Battistin Bertazzi Scultore, Monsieur Varion, presentemente a Bologna e Giuseppe Fing (presentemente in Bologna, dove ha fondato una fabbrica di Majoliche). Segue l’elenco di quelli del paese: Girolamo e Gianmaria Baccin (qui sono dichiarati licenziati da Antonibon e attivi a Padova), mentre un bel gruppo è detto «vagante per il mondo» (e sono, invece, quelli che lavoravano ad Este) i Fabris, il Verziera. Il terzo gruppo in elenco sono quelli licenziati dall’Antonibon e ora attivi dal Cozzi «piuttosto che andarsene fuori Stato» (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p.220). Non abbiamo la sentenza, ma crediamo che Brunello e Cozzi siano stati condannati. Ma le cause legali per frenare le fughe degli artefici continuano: nel 1767 Antonibon accusa Giovanni Rossi di Treviso di tentare di accaparrarsi i suoi migliori artigiani e chiede un castigo per i disertori. Il direttore a Treviso è Stefano Agnelli, già attivo a Nove e a Parma (BARONI, Le ceramiche di Nove cit., pp. 222 e ss.; G.DONDI, Maioliche e vetri della Real Fabbrica di Parma, Parma Battei, 1990, p. 22). Molti sono i nomi citati in queste carte: Francesco Costa, Zuanne Bernardi, detto Cadore, Giovanni Vanzo, Antonio Gasparini, Domenico Dimeto.

[126] A. GRISELINI, Della Privilegiata Fabbrica di Terraglie e maioliche di Pasquale Antonibon, stabilita nel villaggio delle Nove..., «Giornale d’Italia spettante alla Scienza naturale e principalmente all’Agricoltura, alle Arti e al Commercio», XLI, Venezia 13 Aprile 1765, p. 321.  

[127] DRAKE, Notes on venetian cit., pp. 33-34.

[128] BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 230.  

[129] BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 231.  

[130]  Per un panorama della produzione di porcellana Antonibon vedi: MOTTOLA MOLFINO, L’arte della porcellana cit., tavv, XXVII-XXXVIII, ill. nn. 241-328. ERICANI, in La Ceramica degli Antonibon cit., pp. 162-175; ERICANI, La porcellana cit., pp. 35-53; AUSENDA, in La Ceramica degli Antonibon cit., pp. 126-159.  

[131] La vicinanza con le “chichare” con la produzione Cozzi è tale che talvolta è solo la marca che permette la distinzione tra due pezzi che paiono identici.

[132]  BARONI, Le ceramiche di Nove cit., p. 247; G.ERICANI, Modelli e modellatori per la porcellana Antonibon, in La ceramica degli Antonibon cit., pp. 35-43. 

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