Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nel Bassanese il comparto agricolo non venne investito da profonde trasformazioni per scelta delle classi proprietarie che, al fine di non modificare i rapporti di produzione e gli equilibri sociali, perpetuarono il sistema esistente fondato sulla conduzione poderale e quindi sulla coltura mista. All’interno di questo sistema vi furono degli elementi che intervennero a migliorare la struttura tradizionale, ma, appunto per questo, la consolidarono impedendole di trasformarsi e giustificando, in certo qual modo, la scarsa iniziativa di proprietari e fittavoli[155]. Il sistema della coltura mista era basato sull’«aratorio arborato e vitato», caratterizzato dalla presenza di campi segnati da filari di viti sostenute da alberi, mentre le strisce di terreno libere, estese dai 25 ai 40 metri, erano arate e coltivate a cereali, mais e frumento[156]. Tale ripartizione colturale lasciava in genere poco spazio alla produzione del foraggio per gli animali, questi avrebbero dovuto concimare i terreni depauperati dagli avvicendamenti dei cereali, ma nel caso di Bassano sembra che le cose siano andate diversamente, è ancora l’abate Ferrazzi a confermarcelo: «Al frumento ed alla segale succede il mais detto cinquantino o di secondo frutto; a questo il trifoglio rossiglione, appresso il mais di primo frutto, di cui di bel nuovo tien dietro il frumento o la segale. In scorcio dell’inverno vi si semina per entro il trifoglio comune. Oltre i trifogli si sementano nel marzo, e lupini e veccie e veggioli ed avena, secondo la bisogna della rustica famiglia, che le aggiungono nuovi prodotti ed aiutano il foraggio e rifanno il campo che, riposato, risponde poi gratissimo. Né l’erba medica è trascurata…ove non vada stagione asciutta se ne fanno fin quattro tagli l’anno»[157]. Venne introdotto il sistema della rotazione, la coltivazione del trifoglio permise di arricchire il suolo di azoto e di assicurare il foraggio per il bestiame durante tutto l’anno[158]. Il trinomio mais-frumento-foraggio, che gli scrittori d’agraria avrebbero voluto veder trionfante su tutti i terreni[159], trovò il suo sostenitore e divulgatore nell’agronomo Francesco Bortolazzi, al quale si deve anche l’introduzione della coltivazione del cavolo selvatico o ravizzone dal quale si estraeva un olio che veniva utilizzato soprattutto come combustibile[160]. I dati forniti dalla Commissione governativa di commercio, industria ed economia, utilizzati come riferimento per l’economia agraria nel periodo della Restaurazione[161], ci consentono di rilevare che nel distretto di Bassano la superficie destinata a prato artificiale nel 1833 occupava 3,86 ettari, più estesa era invece quella destinata a prato stabile o a pascolo che ne occupava 5,12, al punto da far guadagnare al distretto il primo posto nell’ambito della provincia vicentina che, a sua volta, si posizionava al vertice nella regione. La discreta produzione di foraggio andò a vantaggio dell’allevamento animale, i bovini nel distretto raggiunsero i 5.924 capi, di questi 1.386 vennero allevati nel Comune di Bassano e trovarono largo impiego nei lavori agricoli, una quota minore venne destinata alla vendita nel locale mercato e al macello. La produzione locale tuttavia non riuscì a soddisfare le richieste del distretto per questo fu necessario importare bovini dal Tirolo e dal Voralberg, mentre i cavalli vennero importati da Padova e dal Friuli, le pecore e la lana dai distretti di Feltre e Fonzaso, le pelli di bue e quelle di agnello da molte zone della provincia, ma anche dal padovano, queste vennero utilizzate nelle locali concerie.   Il commercio del bestiame alimentò la fiorente attività del mercato settimanale di Bassano che fu tra i più rinomati del Veneto sia per il numero di contraenti sia per la qualità delle merci. L’importanza del mercato venne favorita dalla collocazione geografica che fece della città un importante snodo territoriale e di traffici, punto di richiamo fra il territorio circostante e le regioni vicine e lontane[162]. Posta alla confluenza di importanti vie di comunicazione, da sud la strada regia da Cittadella a Bassano, passando per Rosà, collegava i capoluoghi di Vicenza e Padova con il Tirolo per mezzo della strada postale Valsugana, che attraversava il Canal di Brenta. Sulla strada regia si innestavano da est la strada del ‘Molinetto’, che congiungeva la provincia di Treviso con Bassano, e quella per Cornuda che passava per Mussolente, quest’ultima permetteva agli abitanti delle zone montuose del massiccio del Grappa di rifornirsi di cereali; da ovest invece la strada consorziale detta ‘Gasparona’ congiungeva Thiene con Marostica, da questa località si innestava un’altra strada consorziale, la Marosticana, che proseguiva per Bassano, passando per Angarano. Da quest’ultima località la strada comunale delle ‘Marchesane’ portava a Nove[163]. Una minaccia alla florida attività del mercato venne nel 1832 dall’attivazione di quello di Castelfranco che, in virtù della coeva sistemazione della strada Castellana che da Mestre, passando per Martellago e Piombino, collegava Venezia al Pedemonte Vicentino, sottrasse al mercato di Bassano numerosi contraenti provenienti dai distretti delle province attraversate dalla Castellana. Sentendosi minacciate, le città di Bassano e di Cittadella inoltrarono un ricorso alla Congregazione centrale insinuando che il mercato di Castelfranco fosse abusivo. Ma il Governo si pronunciò affinchè: «il florido mercato di Castelfranco nel venerdì sia protetto e conservato anche in vista degli evidenti commerciali ed industriali vantaggi che apporta non solo al comune di Castelfranco, ma nei circostanti distretti della provincia di Vicenza, Padova e Treviso, i quali con Castelfranco, nel centro di tante strade situato, sogliono fare il loro traffico»[164]. La produzione di cereali nel distretto, sebbene facesse registrare una resa inferiore rispetto a quella delle zone di bassa pianura della provincia e del capoluogo, nel 1836 ammontò a 92.000 ettolitri, nel solo Comune se ne produssero 3.011 di frumento e 234 di segale, orzo e spelta, notevolmente superiore fu la produzione di granoturco che raggiunse 9.620 ettolitri, di questa una parte venne esportata nel distretto di Asiago e l’altra nel Tirolo, mentre il frumento, la cui produzione risultò inferiore al consumo, venne importato dalle province di Padova e di Treviso. Fra i principali prodotti agricoli del bassanese si impose per estensione la coltivazione del gelso le cui foglie costituirono l’unico alimento per l’allevamento del baco dal quale si ricavò la seta greggia. Nel periodo della Restaurazione la coltivazione del gelso nella collina bassanese fece registrare una netta ripresa[165], nel corso di vent’anni le piante erano triplicate grazie ai miglioramenti introdotti sia dai proprietari sia dai coloni, i quali avevano dedicato maggiori cure all’allevamento dei bachi[166]. La testimonianza di Ferrazzi giunge ancora una volta a proposito: «Anche i gelsi sono appresso noi in grandissimo pregio…Il modo di coltivazione è quello indicato dal Verri…Che i nostri campagnoli siano stati sempre espertissimi nelle coltivazioni del gelso lo provano abbastanza gli antichi mori che durano ancora si alti, si spanti nei lor rami, si ricchi di foglia che è una meraviglia a vederli»[167]. I gelsi censiti nel distretto fra il 1835 e il 1840 furono 21.763, la maggior concentrazione si trovava nelle zone più pianeggianti, nelle frazioni di Angarano, Cassola, Quartiere Villa, San Zeno, Ca’ Dolfin, Rossano, Casoni, Romano e Rosà[168]. I 200 mila gelsi esistenti nella provincia vicentina nel 1840 rappresentarono il 13 per cento del totale regionale e garantirono, assieme a quelli coltivati nella provincia di Verona, i tre quarti della produzione regionale di foglia[169]. Qualche timore si diffuse alla notizia del censimento, ma venne fugato dall’intervento della Giunta del Censo che assicurò invece il sostegno alla coltura. La coltivazione era regolata da un’enorme varietà di patti e di consuetudini, nel bassanese il proprietario riservava per sé la foglia dei gelsi mentre il colono allevava i bachi ricevendo poi la metà dei bozzoli prodotti[170]. Sul colono gravavano sia gli oneri della coltivazione del gelso sia quelli della campagna bacologica. La povertà endemica delle campagne venete, la debolezza contrattuale nei confronti del proprietario, la necessità di procacciarsi un compenso monetario tale da consentire alla famiglia rurale di sfuggire, almeno in parte, all’autoconsumo, contribuirono a rendere accettabili ai coloni accordi di lavoro svantaggiosi in qualsiasi fase del processo sericolo[171]. Tra i prodotti delle colture arboree rivestirono pure una certa importanza gli oli, quello d’oliva, anche se la produzione non risultò sufficiente ai bisogni locali, e quelli di ravizzone e di lino. Ancora fondamentale per l’agricoltura bassanese fu la viticoltura, fiorentissima già dal secolo XI, epoca alla quale risale un prezioso codice agrario bassanese dedicato a questa coltivazione[172]. Il vino era importante per il consumo locale, ma veniva esportato anche nei territori limitrofi e nel Tirolo. Dopo i cereali garantiva una cospicua rendita al possidente, che conduceva il fondo in economia o lo dava a mezzadria, rappresentava inoltre una fonte essenziale di reddito per il contadino che prendeva il fondo in affitto o lo coltivava direttamente, poiché gli garantiva del denaro contante. Il rapporto contrattuale era insolitamente uniforme per tutti i regimi di conduzione e per tutte le zone agricole: a Bassano l’impianto del filare era a carico del proprietario come pure la sostituzione delle piante deperite, mentre la manutenzione annua incombeva al conduttore. Il patto di mezzadria prevedeva la divisione a metà del prodotto sia che l’uva fosse bianca sia che fosse nera, talvolta la quota padronale poteva essere anche di due terzi, in rapporto alle maggiori spese sostenute dal proprietario per la concimazione e per il reimpianto delle piante morte. Il colono non concorreva alle spese di vinificazione e le vinacce spettavano al proprietario. Non esistevano vigneti a palo secco, ma filari alberati solcavano i campi e a volte anche i prati, la fisionomia della piantata era bassa, venivano utilizzati alberi che non necessitavano di terreni particolarmente ricchi di minerali come aceri e frassini: «Gli alberi a cui stanno aggrappate le viti sono di piccola estesa relativamente al resto della provincia, i detti alberi sono generalmente gli orni ossia frassini, ogni albero sostiene dai due ai tre gambi di vite. Le viti sugli alberi sono da alcuni tenute sull’albero isolatamente e sono da altri tese da un albero all’altro raggiungendo alli tralci vivi degli altri morti o potati, acciò la tesa dei vivi arrivar possa all’altro albero lungo il filare, non però mai per traverso cioè da un filare all’altro. L’ordinaria distanza da una albero all’altro è di piedi da nove a dieci, la distanza da un albero all’altro è piedi veneti quaranta. Per ogni campo bassanese si trovano dai settanta agli ottanta alberi con viti. Un albero con le sue viti da quando comincia a dar frutto fino al suo decadimento può essere circa dai 20 ai 25 anni»[173]. La qualità dei vini era mediocre, risultato ineluttabile della conduzione promiscua a cui andavano soggetti i fondi e, in secondo luogo, dell’ignoranza con cui venivano trattati i mosti. La fermentazione si effettuava senza estrarre le vinacce e terminava a primavera, questo sistema rendeva fortemente acidi tutti i vini. Le tecniche di vinificazione, a parte alcune eccezioni, erano arretrate, ma l’estensione delle coltivazioni contribuiva a mantenere elevata la produzione: «Dell’educazione poi della vite se ne conoscono assaissimo. Il marito che le si concede è per lo più il frassino (…). La qualità poi delle viti che generalmente si coltivano sono la marzemina, la corbina, la pignuola o groppella, la negrara, la caprara e la lorea. Dell’uva alquanto peggiorata i nostri contadini si fanno l’acquerello o vin piccolo: empiono tuttavia un botticello di vino pretto che spillano nei giorni più solenni. Il resto sogliono rilasciarlo al padrone ad isconto della pigione e delle avute somministrazioni. I più comodi invece n’imbottano il vino»[174]. La maggior parte del prodotto venne destinato al consumo locale, solo i dazi protettivi consentirono un suo parziale assorbimento sui mercati dell’impero austriaco. Non mancarono le eccezioni, nel 1825, Francesco Bortolazzi, agronomo bassanese, ricevette un riconoscimento per la sua produzione enologica: «squisiti si trovarono i vini del bassanese coltivatore: belli, animosi, saporiti»[175]. Il 1842 in particolare si ricorda come una buona annata per il vino bassanese, la felice congiuntura, che consentì il rialzo del prezzo del vino, fu dovuta allo scarso raccolto delle uve francesi che richiese l’esportazione del vino piemontese in quelle terre e in Algeria. La Lombardia, abituale acquirente del vino piemontese, si risolse ad acquistare quello Veneto, in particolare nel bassanese furono vendute quantità rimaste in giacenza dall’ottimo raccolto del 1841[176]. La Camera di Commercio di Bassano scrisse nel 1845: «La difficoltata importazione dei vini modenesi e piemontesi ha prodotto un buon effetto: mentre si vide questo negoziato molto attivo per la concorrenza d’insoliti acquirenti che in Lombardia e Germania lo esportarono»[177]. Anche per il vino si chiese al Governo l’abolizione del divieto di esportazione e l’imposizione di dazi che ne vietassero l’importazione da paesi stranieri o dalle province estere. A promuovere un primo, anche se limitato, rinnovamento nell’ambito della viticoltura fu una malattia, la crittogama (od oidio) detta volgarmente “mal bianco”, perché si manifestava con una muffa biancastra che colpiva i tralci, le foglie e soprattutto il grappolo. La crittogama investì le province venete nel 1851-52, trovando il suo centro nel vicentino, si ripresentò con forti ondate anche successivamente fino al 1857. I raccolti vennero distrutti o seriamente compromessi. Il disastro fu tale da indurre le autorità austriache a ridurre il peso della fondiaria nel trevigiano e nella provincia vicentina che risultarono le più colpite[178]. L’Ateneo di Bassano venne sollecitato, dalla delegazione provinciale, ad effettuare studi ed esperimenti al fine di ridurre la malattia e ad inviare una relazione dalla quale si rileva che ad essere colpite furono inizialmente le zone di monte e poi quelle di piano, la malattia interessò anche le uve bianche lugline che sembrarono inizialmente esenti[179]. Il delegato provinciale scrisse nel 1858: «Sebbene la critogama abbia anco quest’anno invase le viti e siasi manifestata nelle qualità più ordinarie e più fruttevoli qualche tempo prima degli anni antecedenti pure il guasto prodottovi fu minore che in passato. L’uva come si ebbe l’onore di partecipare rapporto agosto anno scorso continuò ad ingrossare a fronte della malattia e non essendo cadute le temute piogge autunnali col favore stagione calda e costantemente asciutta ha potuto per buona parte preservarsi intera e condursi a bella maturazione. Il raccolto variò da comune a comune da podere a podere ma preso in generale lo si può considerare doppio rispetto al 1856 cioè tra il 10 e il 12% e di conseguenza 10 volte maggiore di quello del biennio 1854-55, quindi il migliore dopo quello del 1848»[180]. Prima di concludere la trattazione riguardante i principali prodotti coltivati nel bassanese è opportuno ricordare la coltivazione del tabacco. Diffusa da tempi antichissimi in alcuni Comuni alpestri lungo la riva destra Brenta, nel 1654 la Repubblica di Venezia ne assunse il monopolio riconoscendo ai paesi del Canale di Brenta il privilegio della coltivazione. Tra la metà del Settecento e la fine dell’Ottocento si assiste ad un’autentica corsa al terrazzamento di superfici nuove. Alla costruzione delle “masiere” si accompagnò la costruzione di ingegnosi sistemi di approvvigionamento e gestione delle acque: opere di canalizzazione per il deflusso delle acque meteoriche, ma anche sistemi di raccolta e conservazione preziosissimi per la coltivazione. Il Governo austriaco nel 1817 estese il privilegio anche ai paesi della riva sinistra del Brenta, dove la coltivazione del tabacco andò a sostituire un sistema economico in declino, basato sul commercio del legname, sul trasporto fluviale e sull’attività di manifatture azionate a forza idraulica, che aveva rappresentato per secoli la principale fonte di sostentamento delle popolazioni del Canale di Brenta[181]. Il commercio del tabacco alimentò il fenomeno del contrabbando, anche il governo austriaco, intervenne a rafforzare i controlli atti a reprimerlo[182]. Nel 1828 a Valstagna venne arrestato Mosele Valentino, famigerato capo dei contrabbandieri, perchè trovato in possesso di quarantatrè libbre di tabacco. La sua uccisione, avvenuta a seguito di un tentativo di fuga, provocò una sommossa da parte di un centinaio di abitanti[183]. Sebbene più volte l’Austria avesse pensato di sopprimere la coltivazione nei Comuni di destra Brenta, anche per la concorrenza che questa faceva al tabacco prodotto nell’Impero, non giunse ad attuare il suo proposito come testimonia il rapporto del delegato provinciale di Vicenza, Pascotini, al vicerè, barone Galvagna: «Il territorio di suddetti Comuni, abitato da 6000 anime copre una superficie di pertiche censuarie, conta sole pertiche 1175, ridotte con gravi spese e fatica alla coltivazione del tabacco, mentre tutto il rimanente territorio, meno di 600 pertiche circa, consiste in nudi scogli, boscaglie e pascoli magri [… ] non v’ha dubbio che, col cessare della coltivazione del tabacco, nei privilegiati comuni vicentini andrebbesi a scemare di molto la forza produttiva di quel territorio e potrebbero essere seriamente esposti i più essenziali bisogni di quei poveri abitanti. [...]. Sotto l’aspetto politico poi, non posso di confermare il timore, giustamente concepito dal delegato provinciale di Vicenza, che gli abitanti focosi e risoluti dei 5 suaccennati Comuni, avvezzi fin dai remoti tempi alla coltivazione di tabacco, da cui traggono tutta la loro sussistenza, non siano per commettere dei gravi eccessi, e per mantenersi in un continuo stato di malcontento e d’irritazione se si volesse privarli di tali risorse, concessa ad essi da una speciale graziosissima risoluzione di sua maestà dell’anno 1827, cui non cessarono mai di professare per quest’atto di paterna generosità i più devoti ringraziamenti.[...] sarebbe non solo prudente, ma anche consentaneo ai principi di pubblica amministrazione ed all’equità di cui sono meritevoli i privilegiati comuni vicentini di non portare innovazione all’attuale stato di coltivazione dei loro terreni, che è l’unica compatibile colla natura del suolo e d’altronde già sancita da Sua Maestà»[184]. Nel 1830 nel distretto di Asiago la coltivazione del tabacco si estendeva su circa 115,2 ettari, coltivati da 800 famiglie, fruttando 126.000 lire austriache. Nel 1839 i coltivatori di tabacco dei Comuni privilegiati di Valstagna, Oliero, Campolongo, Campese e Valrovina, rinnovavano per altri dieci anni il sodalizio costituito fra i possessori di coltivazioni superiori a 0,137 ettari, il maggior numero dei quali proveniva da Valstagna e Campese. La Società era rappresentata e amministrata da un Collegio e da una commissione, al primo spettava la nomina del presidente, che veniva scelto fra i primi diciotto maggiori proprietari e coltivatori aventi domicilio nel territorio privilegiato; alla seconda, composta da sei membri e coadiuvata da un segretario, erano demandate la sorveglianza delle coltivazioni, la visita e la custodia dei magazzini e la consegna delle foglie all’Intendenza di Finanza. In ogni Comune vi erano degli addetti alla riscossione delle tasse, queste venivano stabilite in rapporto all’importare dei rispettivi raccolti, gli introiti venivano utilizzati per sostenere le spese generali[185]. Dopo il 1848 il governo, per punire i “Canalotti”, rei di avere partecipato ai moti rivoluzionari, li considerò formalmente decaduti dal privilegio, che venne poi ripristinato con il titolo di «sovrana concessione». Per la sua redditività il tabacco venne gradualmente sostituendosi ad altre colture tradizionali del Canale: canapa, granturco, patate e prati da sfalcio; nel 1852 vennero distrutti castagni, gelsi, noci, olivi e viti perchè non ritardassero con la loro ombra la maturazione del tabacco. La coltivazione nel 1859 venne estesa a 133,2 ettari e il prodotto annuo del tabacco del distretto salì a 194.112 chilogrammi per una rendita complessiva di 40.915 fiorini[186]. Un ulteriore incremento si verificò dopo l’Unità a causa del crescente pauperismo della popolazione, le piante coltivate salirono a venti milioni e la maggiore concentrazione si ebbe nel comune di Valstagna[187].   

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