Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’ottenuto titolo, simbolico riconoscimento del perdurare della sovranità municipale maturata in antico regime – la concessione dell’attribuzione di città dato dalla Serenissima nel 1760 –, ebbe come necessario contraltare l’ampliamento del territorio posto nella sfera d’influenza cittadina: misura cercata, e ottenuta, al fine di garantire alla nuova entità burocratica le necessarie fonti di sostentamento, una prima volta nel 1818, la seconda nel 1853[50]. In età napoleonica Bassano era stato snodo periferico dell’amministrazione statale, inizialmente addirittura come capoluogo di dipartimento, quindi come capoluogo di cantone del dipartimento vicentino, poi sotto Treviso, nel dipartimento del Tagliamento, e quindi, a partire dal 1807, nuovamente sotto Vicenza. All’epoca il distretto bassanese contava 86.663 abitanti e comprendeva il cantone omonimo (36.273 abitanti), oltre a quelli di Asolo, Marostica e Quero. Il cantone di Bassano era composto dal Comune omonimo e da quelli di Rosà, Cartigliano, Cassola, Pove, Solagna, San Nazario, Cismon, Primolano, Romano di sopra e di sotto, San Vito, Casoni, Rossano. Anche come sede di vice prefettura, la città era il fulcro di attrazione e di coordinamento burocratico di un cospicuo numero di insediamenti, di un territorio vasto che andava da Breganze fino al Piave e da Sandrigo al limite meridionale dell’altopiano dei Sette Comuni, e ancora più in su lungo il versante di sinistra del Canale di Brenta, fino al confine di Primolano. Con la Restaurazione continuò ad essere ancora capoluogo di distretto, sede degli uffici di un commissario distrettuale, di un pretore forense di prima classe[51] e di un ispettore scolastico distrettuale. Il distretto bassanese vide però ridursi il territorio, sia come estensione, sia naturalmente come popolazione. L’unico Comune del Veneto a potersi fregiare del titolo di città regia, pur non essendo capoluogo di provincia come le altre, aveva bisogno di un territorio più ampio di quello previsto dalla prima organizzazione compartimentale delle province venete pubblicata dal Governo con la notifica 4 aprile 1816. Ne andava del funzionamento della nuova entità amministrativa, perché comprendere più suolo e più popolazione significava avere attraverso le tasse maggiori introiti a disposizione delle finanze comunali[52]. Per questo il podestà Luigi Caffo, ma con tutti dalla sua parte, consiglio e assessori, rivendicò dal Governo a più riprese, nella seconda metà del 1816, i vicini comuni di Mussolente, con la frazione di Casoni, che in quel momento faceva parte del distretto di Asolo, e di Angarano, posto sulla sinistra del Brenta, che apparteneva a quello di Marostica. Secondo il richiedente non si trattava altro che di riconoscere dal punto di vista amministrativo relazioni di dipendenza economica e sociale già consolidate nel tempo, perché gran parte di quelle campagne erano di proprietà di bassanesi o perché i loro abitanti si recavano più volte alla settimana nel vicino mercato per necessità di commercio. Si trattava di una dipendenza sancita anche da «cinque secoli di storia», come era già emerso nel corso della discussione tenuta dalla Congregazione provinciale, dove comunque la richiesta dei bassanesi non aveva certo trovato sostegni, anzi[53]. I possidenti del piccolo Comune posto sulla sponda destra del fiume tentarono però di opporsi, timorosi di vedersi imporre maggiori tasse per far fronte all’aumento di spese richiesto dal mantenimento di una città regia. La situazione sembrava aperta a qualsiasi soluzione ancora nel luglio 1817, quando Caffo scriveva a Bombardini: «So purtroppo che gli Angaranensi avevano presentato supplica e legenda di nomi; resta a sapersi se possi più presentare alla Centrale la nostra memoria dei possidenti bassanesi. Io ho ritirate a stento alcune [sottoscrizioni] e dipenderò da nuove di lei controincazioni. Giacché serve la pugna a combattere ed io non so dubitare che sotto si valoroso campione della patria quale ella si è dimostrato, non si riporti vittoria. Quest’ultimo colpo assicurerebbe a Bassano un decente raggio territoriale che gli manca per sostenere con decoro il rango che occupa. Secondi il buon esito la di lei attività e i nostri voti»[54]. La questione si chiarì solo il 4 novembre 1817, quando il Governo dette ragione al comune di Bassano, disponendo che Mussolente fosse aggregato al suo distretto e che Angarano ne diventasse una frazione[55]. Le altre articolazioni del suo territorio erano ciò che restava della cosiddetta ‘Università della Rosà’, dipendenti dall’antica podesteria bassanese, cioè i quartieri Revoltella e Villa e quelli di Prè, Baggi, Ca’ Dolfin e Travettore, in condominio con la vicina Rosà. I 10.477 abitanti, acquisiti dal comune bassanese con la nuova organizzazione territoriale, sembrano comunque pochi, soprattutto se confrontati con i 29.625 della vicina Vicenza, capoluogo di provincia e anch’essa città regia. Il nuovo territorio acquisito, pur ricco, sarà comunque insufficiente a garantirgli gli introiti necessari a far funzionare la macchina amministrativa senza deficit[56]. I fatti del ’48, che affronteremo poi negli aspetti politici, furono una delle cause di una nuova compartimentazione che, conseguente all’ordinanza ministeriale del 1850, portò i comuni di Valstagna, Valrovina e Campolongo, con le frazioni di Colesello, Oliero, Rubbio e Campese, ad aggregarsi al distretto di Bassano. Il territorio del Canale si trovò così unificato, ma a spese dello storico legame che aveva per secoli tenuto queste Comunità aggregate alla reggenza dei Sette Comuni. Il Governo aveva affrontato sin dal 1817 la questione della riforma del sistema daziario, progettando di estendere il sistema cosiddetto ‘murato’ a tutte le città regie, fra le quali vi era appunto, assieme a Belluno e a Rovigo, anche la nuova arrivata Bassano. Fino ad allora il Comune aveva goduto del regime ‘fuorense’, in base al quale il dazio colpiva solo alcuni generi di prima necessità grano, farine e pane, la carne e la vendita al minuto di vino e liquori ed era versato solo dagli esercenti per i generi che entravano nei loro negozi e nei loro stabilimenti. Il nuovo sistema avrebbe imposto il pagamento del dazio su tutti i generi di largo consumo, già all’ingresso in città. Gli amministratori bassanesi videro nella misura un pericolo sia per il commercio locale, sia per la finanza del Comune. Da una parte perché il dazio ‘murato’ poteva dimostrarsi troppo vincolante per l’attività dei commercianti e colpire poi tutti i consumatori, dal più ricco al più miserabile; dall’altra perché, pur garantendo in via di ipotesi maggiori introiti all’Amministrazione locale, le imponeva costose misure di controllo e la repressione del contrabbando, in forma di esattori, contabili e gabellieri. Un' evenienza quest’ultima, quella del contrabbando, che poteva diventare una certezza a Bassano dove le mura in molte parti non rappresentavano una barriera insuperabile[57]. Così, ancora una volta, il podestà Luigi Caffo e il deputato Giuseppe Bombardini fecero fronte comune per far fallire una misura che era avvertita come altamente pericolosa: «Quanto alla temuta esecuzione del decreto che dichiara Bassano città murata, non sono fuori di speranza. Io mi farò strettissimo carico delle sagge e avvedute delle di lei deduzioni nella memoria che, dietro di lei consiglio, sto per diriggere all’eccellentissimo Governo. L’astenersi dal suggerire confini finanziari è provvido ed io mi guardo bene dal proporre circondario alcuno. (…) Insomma non ometterò studio e diligenza perché la carta a riuscir abbia calzante. Ella farà il resto, che è il più, con il solito patrio interesse»[58].
Il «sottile ostruzionismo»[59] dell’Amministrazione bassanese, oltre che le proteste dei privati possidenti, non avrebbero probabilmente potuto nulla contro le posizioni contrarie del Governo e della Centrale, se in loro favore non fosse intervenuto l’influente consigliere Francesco Galvagna il quale, nel corso di una seduta del Senato di Finanza, aveva dichiarato che la riforma avrebbe fortemente penalizzato le attività economiche di quei comuni. Così, nel 1820, Rovigo fu l’unica città in cui fu introdotto il dazio murato, anche se con scarsi risultati.

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