Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Un ruolo propulsivo per l’insediamento degli Eremitani fu esercitato da un importante cittadino bassanese, Francesco Normanini, che nel suo testamento redatto alla fine del secolo XIV espresse la volontà di far costruire una chiesa dedicata alla Madonna e un ospedale ad essa connesso[110]. L’intenzione del nostro mecenate, trasferitosi a Padova dopo l’avvio della dominazione viscontea su Bassano e successivamente legatosi alla signoria carrarese, era quella di far erigere la nuova chiesa grazie a un suo consistente lascito testamentario destinato a tale scopo e di farla poi officiare dagli Eremitani di Padova; ma il ricco legato, come spesso accadeva, originò una vivace controversia fra la suddetta comunità eremitana e il comune di Bassano. Di fatto il desiderio del Normanini si poté realizzare soltanto a partire dagli anni Quaranta, quando le autorità bassanesi, contrarie in modo manifesto alla costruzione di un nuovo edificio, concessero ai frati il locus ormai in disuso di Santa Caterina (fig.8).

10 mappa-prato santa caterina

8. Francesco e Leandro Dal Ponte, Pianta della città di Bassano (1583-1610) (part.). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Mappe, n. 10. Il particolare evidenzia la chiesa di Santa Caterina, costruita a partire dagli anni '40 del Quattrocento per volontà di Francesco Normanini.

L’avvio della nuova comunità – cresciuta in poco tempo fino a quasi una decina di confratelli – fu reso possibile grazie all’attività e alla presenza autorevole del primo priore eremitano di Santa Caterina, Ludovico Savonarola, alla guida del monastero dal 1453 al 1471[111]. Anche in questo caso le ultime volontà dei fedeli ci ragguagliano con chiarezza sul gradimento del nuovo insediamento, presso il quale cominciarono ben presto le richieste di sepolture, le tradizionali forme di “dedizione” e naturalmente i lasciti devoluti ai fratres per via testamentaria. Se il testamento del Normanini, lo si è visto in modo inequivocabile, fu all’origine dell’insediamento agostiniano di Santa Caterina, la regía delle vivacissime dinamiche religiose che caratterizzarono l’ambiente bassanese nel primo Quattrocento è sicuramente da attribuire ad alcuni ben noti protagonisti della storia religiosa veneta, meritevoli di risalto e di indagini assai più approfondite di quelle che è possibile effettuare in questa sede. I nomi di Ludovico Barbo, di Pietro Malerba e di altri sacerdoti come Nicolò Fiesso da Ferrara e l’arciprete Marco da Venezia – tutti a loro volta in relazione con l’abate di Santa Giustina e con la sua ampia cerchia di riformatori[112] – si presentano assai di frequente nella documentazione dell’epoca e consentono la ricostruzione di una fitta rete di legami, ancora da ricostruire del dettaglio, che coinvolse l’intera società bassanese del XV secolo. Una profonda rivitalizzazione delle istituzioni ecclesiastiche, non disgiunta da un’intensa attività di recupero e ristrutturazione delle chiese interne ed esterne all’agglomerato urbano, prese avvio a partire dai primi decenni del secolo e continuò in quelli centrali, coinvolgendo sia la pieve di Santa Maria, gravemente danneggiata a causa dell’incuria[113], sia la chiesa di San Giovanni, divenuta progressivamente il principale polo religioso della cittadina. Tale rinnovamento coinvolse altresì numerose altre chiese e chiesette della circostante area rurale, trasformate da antichi romitori, in sedi temporanee di esigue comunità femminili trecentesche e infine in comunità monastiche e sacerdotali con una forte propensione alla vita contemplativa. Anima di molte di queste iniziativa fu, come si diceva poc’anzi Ludovico Barbo, responsabile della rinascita di San Fortunato e ispiratore delle vicende di San Pancrazio e Santa Felicita. A San Fortunato (fig.9),

Chiesa San Fortunato

9. Chiesa di San Fortunato. Bassano del Grappa.  Monastero benedettino, venne recuperato da Ludovico Barbo nel 1411 e posto sotto il controllo della Basilica di Santa Giustina di Padova. La costruzione attuale è successiva al 1450.

il Barbo agì in prima persona; ricevette il desolato monastero nel 1411 dalle mani del vescovo di Vicenza Pietro Emiliani[114] e vi spedì immediatamente un piccolo gruppo di monaci, tutti professi di Santa Giustina di Padova. Terminati i disagi causati dalla guerra e dalle razzie degli Ungari, che rappresentavano un grosso pericolo per un edificio situato al di fuori del “fortilizio” bassanese, la comunità, in un primo tempo fortemente legata alla numerosa “famiglia” da cui proveniva, poté articolarsi meglio e organizzare la propria vita, anche economico-amministrativa «con la limpida pienezza dei poteri propri di un priorato e con ritmo regolare»[115]. Purtroppo le difficoltà degli eventi bellici non furono le sole a influire sugli esiti di San Fortunato; vi si aggiunsero anche quelle interne di carattere economico, così tenaci e persistenti nel tempo da indurre il Barbo ad abbandonare il monastero, per cederlo nel 1438 alla comunità di un altro personaggio di rilievo nel tessuto religioso di Bassano: il sacerdote Nicolò da Fiesso di Ferrara, animatore di una comunità clericale ugualmente dedita alla contemplazione, secondo una regola che disciplinava la vita di tutto il gruppo[116]. L’abate di Santa Giustina mantenne tuttavia una sorta di controllo su San Fortunato, ricevendo dal pontefice Eugenio IV il compito di valutare l’idoneità del priore e quello assai più delicato di visitare e riformare annualmente il monastero, riservandosi la possibilità di assumere tutti provvedimenti atti a migliorarne la gestione e il “tono” spirituale.
Anche in questo caso la comunità, arrivata a contare al massimo otto sacerdoti, si sfaldò rapidamente assottigliandosi fino a due socii dello stesso Niccolò. Così il 4 novembre 1450 il sacerdote ferrarese, lucidamente consapevole se non posse obsequi honorem Dei cum predictis duobus sociis suis in dicto monasterio Sancti Fortunati restituì la chiesa alla congregazione di Santa Giustina[117]. Oltre a queste due esperienze condotte presso San Fortunato – “sfortunate” nell’esito ma certamente di forte impatto sulla vita religiosa di Bassano –, gli storici hanno ravvisato l’apporto del Barbo anche nella parabola quattrocentesca dei “monasterioli” di San Pancrazio e di Santa Felicita; entrambi i luoghi, lo si è già evidenziato, erano stati lasciati in uno stato di semi-desolazione alla fine del XIV secolo, ma avevano un passato intensamente segnato da forme di vita eremitica e da tentativi di fraternità monastica al femminile. Normale dunque che le correnti religiose quattrocentesche, attratte dalla dimensione ascetica e contemplativa, per dare vita a nuovi insediamenti prendessero in considerazione, oltre all’amenità dei siti e al loro isolamento, la tradizione di spiritualità che da essi promanava. Sia a San Pancrazio che a Santa Felicita è documentata a partire dagli anni Trenta del secolo l’attività di un colto sacerdote di origine veneziana, Pietro Malerba, e della societas che da lui prese il nome: la societas dei pauperes eremite presbiteri Petri de Malerbis. Coloro che ne facevano parte praticavano una forma di povertà volontaria, conducevano una vita ascetica e pia e si tenevano assai distanti da attività illecite e mondane. Il collegamento con il Barbo non è stato chiaramente dimostrato, ma non è un caso che la comparsa di Pietro Malerba a Bassano sia avvenuta contemporaneamente a quella di altri personaggi vicini alla cerchia dei riformatori veneziani, ovvero Nicolò da Fiesso di Ferrara (di lui abbiamo già detto) e l’arciprete Marco da Venezia, di cui torneremo a parlare. Di fatto, la presenza del Malerba non passò inosservata nella società bassanese, all’interno della quale, in diverse occasioni, il rector di San Pancrazio e di Santa Felicita fu chiamato a compiere opera di pacificazione nelle liti fra cittadini. Il suo prestigio è dimostrato anche dal rifiorire dei centri religiosi che gli furono progressivamente affidati dai pontefici – non solo San Pancrazio, ma anche altri romitori estesi fino all’area del lago di Garda – e dalla decisione di molti fedeli di effettuare lasciti per tali eremi o di farvisi seppellire dopo la morte[118].
Va rilevata inoltre la sua partecipazione alla confraternita di Santa Maria della Pace e di San Paolo, ove il Malerba compare in posizione di assoluto rilievo come “padre” dei soci del sodalizio. Le vicende della piccola società di pauperes eremite si intrecciarono, non senza code polemiche, con quelle degli Eremiti del beato Gambacorta da Pisa e con quelle di un’altra congregazione, ugualmente di stampo eremitico, guidata da Beltrame da Ferrara, cui il Malerba appare maggiormente legato. Non inseguiremo qui nel dettaglio le relazioni minute e talora anche conflittuali fra queste diverse “correnti religiose”, a tutt’oggi prive di indagini puntuali e di scavi documentari di più ampio raggio; ci limitiamo a far emergere in questo contesto l’ampia ricettività della società quattrocentesca di Bassano ad accogliere proposte di vita spirituale di forte intensità.
Tale disponibilità – che ha autorizzato Giovanni Mantese, non senza qualche venatura di campanilismo apologetico, a definire Bassano un’ «oasi spirituale riformistica» – si ravvisa non solo nelle scelte dei singoli (l’indicazione frequente della sepoltura presso questi “nuovi” luoghi religiosi, il reclutamento di padri spirituali all’interno di tali comunità, che pertanto si configuravano come importanti centri di “cura d’anime”) ma anche nei provvedimenti espressi dal ceto dirigente della città, il quale, riunito in seduta nel consiglio comunale, manifestò in diverse circostanze la volontà di affidare la carica di arciprete a un sacerdote che fosse idoneo, bonus e anche optimus pastor.
La scelta cadde in diverse occasioni su personaggi certamente rispondenti ai canoni sopra esposti, ovvero Bartolomeo da Roma[119], nominato nella primavera del 1409 e conosciuto per la sua riforma dei canonici regolari attuata nella canonica di Frigionaia presso Lucca, e Marco di Demetrio da Venezia[120], succeduto nel 1432 al discusso arciprete Lazzarino da Parma e legato anch’egli a doppio filo al cenacolo riformatore che da Venezia e da San Giorgio in Alga aveva esteso il suo influsso in tutta la Terraferma veneta. Tuttavia a nessuno dei due fu data la possibilità di operare con continuità a Bassano, benché avessero ottenuto un gradimento assai elevato da parte dei fedeli. Bartolomeo da Roma rinunciò quasi subito all’arcipretura e Marco da Venezia, pur avendo acquisito fama di optimus pastor, dopo lunghi e reiterati contrasti (per la soluzione dei quali si costituì mediatore l’amico Pietro Malerba), fu addirittura espulso dal Comune una decina di anni dopo. La documentazione emessa dal consiglio comunale lascia intravedere, all’origine di questa drastica decisione, dinamiche di natura squisitamente politica che opponevano i ceti dirigenti bassanesi al vescovo di Vicenza, in relazione all’annosa e mai risolta questione del giuspatronato del comune sull’antica pieve di Santa Maria. Tuttavia, almeno nel secondo caso, viene alla luce, tra le righe delle disposizioni comunali, anche una sorta di malcelato imbarazzo dei consiglieri, costretti a rinunciare a un personaggio di così elevato prestigio e fama e incapaci di proporre un sostituto di uguale gradimento alla popolazione. Ancora una volta si decise di far gestire tutta la delicata situazione al rettore di San Pancrazio, Pietro Malerba, «l’uomo che ormai si era conquistato Bassano» e che godeva altresì della fiducia delle gerarchie ecclesiastiche vicentine. Neppure a seguito di questa ennesima mediazione la questione ebbe un esito definitivo. Il sostituto proposto dal Malerba nel 1442, Matteo da Zara, non trovò accoglienza favorevole da parte del ceto dirigente di Bassano e negli anni a seguire il comune continuò a cercare una soluzione autonoma, proponendo come arciprete presbiterum Benedictum beneficiatum in Valdagno. Benché privo del consenso del vescovo di Vicenza, Benedetto mantenne la carica di arciprete per una decina d’anni, ovvero fino al 1462, quando alla presenza dell’onnipresente rector di San Pancrazio rinunziò ad omnia et quecumque iura ipse … habebat in beneficio suprascripte plebis[121].
Con sapiente regía e con la forza del prestigio universalmente riconosciutogli, il Malerba fu in grado di tessere la tela della vita religiosa di Bassano nei decenni centrali del secolo, mantenendosi in stretta e costante relazione con gli arcipreti che progressivamente si avvicendarono, pur tra mille difficoltà, alla guida della pieve cittadina. Al suo fianco prete Benedetto diede il proprio sostegno concreto all’attività della confraternita di Santa Maria della Pace e di San Paolo (così come aveva fatto nella vicina Valdagno, ove era stato sacerdote negli anni della giovinezza, nei confronti del sodalizio dedicato al Corpo di Cristo, che rivela sorprendenti analogie con quello bassanese[122]), contribuendo alla nascita di una importante iniziativa – la fondazione di un ospedale – realizzata nel 1451 con il lascito testamentario del pellettiere Zambello. Se ne è già parlato altrove e non vale dunque la pena richiamare l’attività di tale associazione. Interessa semmai porre in evidenza il ruolo congiunto dell’arciprete Benedetto e di Pietro Malerba nell’orientare la carità e la beneficenza dei fedeli, dal momento che entrambi i sacerdoti assunsero il ruolo di esecutori testamentari del benefattore dell’ospedale e presenziarono alla cerimonia religiosa durante la quale fu posta la prima pietra dell’ente assistenziale bassanese; ma interessa ancor di più porre in rilievo, con il viatico delle relazioni emerse, l’influenza delle correnti riformistiche dell’epoca, di cui il Malerba fu senz’altro esponente di primo piano, sulla cura d’anime dell’intera Bassano. Pietro Malerba, come hanno messo in luce gli studi di Giovanni Mantese, terminò i suoi giorni sulle rive del lago di Garda, a San Faustino di Torri del Benaco, uno degli eremi che gli erano stati concessi per essere riformati[123]. La piccola congregazione da lui creata, fortemente debitrice del suo personale carisma, non ebbe una vita lunghissima. Tuttavia Bassano continuò ad essere teatro di esperienze di vita religiosa, femminili e maschili, connotate fortemente dalla ricerca di vita ascetica. Alcune donne, infatti, al termine del secolo si ritirarono a vivere in Borgo Lion lungo la via Nova che conduceva a Padova; assunsero la regola benedettina e nello stesso luogo, seppur tra mille traversie, eressero una chiesa dedicata a San Gerolamo, potendo contare sull’assistenza spirituale di un sacerdote vicentino, Ludovico Ricci, la cui vita, trascorsa fra il paese di Rosà, Crespano e infine a Bassano, si caratterizzò per il forte accento eremitico-pauperistico[124]. L’incontro con tale personaggio fu all’origine di un’altra esperienza di vita religiosa, singolare e intensissima: quella di Antonio di Giovanni Teutonico[125]. Figlio adottivo di un pellizzaro di Bassano, decisamente benestante, abbandonò casa e bottega per una vita da eremita, che da San Vito lo condusse a Santa Felicita e poi di nuovo a Bassano per svolgere una sorta di insegnamento pubblico, mai disgiunto dalla testimonianza personale, fatto di esortazioni moraleggianti a «spogliarci di noi stessi» e «rinunciare a fare la propria volontà per fare quella di Dio». Il clima però era cambiato. Gli ultimi anni di vita di Antonio furono quelli che videro l’apertura del concilio di Trento, un aspro conflitto fra la città di Bassano e il vescovo di Vicenza ed anche il suo allontanamento coatto da San Vito. Con pochi stracci, quel po’ masserizie e di libri che gli appartenevano e due compagni fedeli, il “vecchio” Antonio finì i suoi giorni in un luogo al cui nome – Selvadeghe – niente si deve aggiungere per coglierne lo spirito e le caratteristiche.

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