Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Una data d’inizio degli studi naturalistici nel bassanese può essere fissata attorno alla metà del secolo XVI, quando, come avvenne altrove, anche qui i primi “cultori di cose naturali” ed i primi “cacciatori di piante” si avventurarono fuori dai luoghi abitati secondo il nuovo credo esplorativo che caratterizzò il Rinascimento. Si guardava in modo nuovo alla natura, ci si rendeva conto che le erbe non solo erano utili o necessarie, ma erano anche bellissime, e valevano la pena di essere guardate con piacere. Tutte le erbe, quindi, e non solo quelle che potevano avere una qualche utilità. Di qui la spinta a spingersi oltre i confini abituali, a salire le montagne finora ritenute orride e inospitali, perché magari lì c’era qualcosa di nuovo da trovare. E’ un primo capitolo ancora in buona parte da ricostruire per il Bassanese, ma almeno due fatti sono sufficientemente chiari e meritano d’essere ricordati perché portarono a due scoperte di piante che in quegli anni erano del tutto ignote a chi si occupava di scienza. In un giorno di maggio, presumibilmente attorno al 1560, il “gentiluomo” Giacomo Antonio Cortuso (1513-1603), arrivato a piedi a Valstagna da Padova, salì lungo la tenebrosa Val Frenzela verso Gallio e nella strettissima forra del “Buso” raccolse un grazioso fiorellino di color ciclamino che subito, a prima vista, gli sembrò sconosciuto. Rientrato nella città del Santo (sempre a piedi, naturalmente), osservò e confrontò nel suo studiolo gli esemplari raccolti ed arrivò alla conclusione di aver trovato un fiore che nessuno finora aveva mai descritto. E’ l’atto di nascita di una specie che poi, con gli studi dei secoli seguenti, si sarebbe rivelata davvero rara tra Europa ed Asia: la Cortusa matthioli. La seconda scoperta avvenne quattro decenni dopo, nei primissimi anni del 1600, ed ebbe come protagonista il medico e botanico marosticense Prospero Alpini (1553-1616). L’escursione avvenne in un luogo altrettanto aspro ma stavolta alle pendici del Grappa: Valle Santa Felicita. Qui, salendo un sentiero che solca quei contrafforti rupestri e solo apparentemente desolati, l’Alpini individuò una insolita pianticella recante fiori azzurri foggiati a campanella. Anche lui dovette rimandare un esame più approfondito con i libri della sua biblioteca, ma alla fine arrivò alle stesse conclusioni: era una pianticella finora sconosciuta che, dopo vicissitudini nomenclaturali, sarebbe stata battezzata Adenophora liliiflora. Due fatti, due tasselli tra i tanti che nei secoli hanno contribuito a catalogare le innumerevoli specie che popolano il continente. Per noi però due tasselli di grande importanza poiché hanno iniziato a svelare e a dare lustro alla natura bassanese. Le due scoperte vennero pubblicate su lavori a stampa creando una sorte di tam tam che spinse altri studiosi a venire nel nostro territorio ed a percorrere quegli stessi sentieri per andare a vedere “dal vivo” le due nuove rarità. Da cosa nasce cosa, ed ecco che Antonio Tita, dopo aver risalito la Val Frenzela in un giorno del 1712, si spinge oltre il “Buso” e va fino alla piana di Marcesina dove a sua volta, in quelle zone umide e torbose così insolite per un altopiano calcareo, si accorge della presenza di un fiorellino che finora nessuno aveva mai trovato sui monti italiani: l’Andromeda polifolia. Non c’è spazio per citare altri fatti o persone di questo primo periodo. Ma già il fatto che sia il Grappa che l’Altopiano siano sede di un locus classicus, ovvero di un luogo dove una specie è individuata per la prima volta in assoluto al mondo, è, in campo scientifico, di grandissima rilevanza.    

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