Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Per cercare di comprendere le peculiarità della storia socio-religiosa di Bassano nei secoli XIX e XX – una città nel cuore cosiddetto “Veneto bianco”, terra di radicate tradizioni cattoliche – è forse utile procedere nel modo in cui i vescovi, a partire dal Concilio di Trento, analizzavano la situazione delle parrocchie, informandosi anzitutto sullo stato de rebus, cioè sulla presenza e sullo stato di conservazione dei luoghi sacri, e quindi sulla situazione de personis, cioè sulle condizioni del clero e del popolo dei fedeli. Queste informazioni venivano date ai vescovi dai parroci, mediante la compilazione dei questionari che precedevano le visite pastorali e che rappresentano quindi una fonte preziosa per la nostra indagine: anche se le visite non venivano effettuate con cadenza regolare, tuttavia ci possono offrire una possibilità di analisi comparativa in un lungo arco di tempo[1]. Da queste fonti si possono desumere molti dati sulla presenza del sacro – chiese, cappelle, oratori, conventi, istituti religiosi – che costellava fittamente il territorio, nonché sui costumi della popolazione e sul numero e il comportamento del clero, sia secolare (quello cioè in cura d’anime nelle parrocchie), che regolare (i religiosi dei conventi). Nel 1819 il vescovo di Vicenza Giuseppe Maria Peruzzi (fig.1)

1vescovoGiuseppePeruzzi1816

1. Anonimo vicentino del XIX secolo. Ritratto del vescovo Giuseppe Maria Peruzzi, 1816. Vicenza, Chiesa di Santa Maria Annunciata. Nel 1819 il vescovo Peruzzi visitò quella che era allora l’unica parrocchia di Bassano, S. Maria in Colle: vi si contavano 9.680 anime, distribuite in più di 2.300 famiglie.

visitò quella che era allora l’unica parrocchia di Bassano, Santa Maria in Colle: vi si contavano 9.680 anime, distribuite in più di 2.300 famiglie, per lo più non numerose. All’interno del territorio parrocchiale vi erano ben ventiquattro chiese: oltre alla parrocchiale, esistevano cinque succursali, quattro chiese sacramentali, mentre le restanti erano «chiese e oratori pubblici»[2]. Come si può evincere dalla lunga serie di luoghi sacri posta in nota, le chiese e gli oratori avevano varia origine: spesso appartenevano a famiglie signorili, oppure venivano erette da alcune confraternite, come ad esempio quelle dei calzolai o dei filatori, che avvertivano l’esigenza di avere un luogo di culto particolare. La geografia del sacro, insomma, è un dato di per sé molto significativo di tutta una storia più che millenaria, nelle cui tradizioni la popolazione si riconosceva come comunità e avvertiva questi luoghi come parte integrante del paesaggio: chiese e cappelle erano infatti punti di incontro e di aggregazione strettamente collegati all’identità cittadina. In ognuna di queste chiese vi era un gran numero di altari – spesso con pale assai pregiate, come le pale dei Dal Ponte nella chiesa arcipretale di Santa Maria in Colle – e davanti ad essi il popolo andava ad invocare aiuto per tutti suoi bisogni, le sue sofferenze, le varie calamità, sia quelle meteorologiche come quelle legate alla salute dell’uomo e degli animali. L’analisi delle dedicazioni degli altari – che ovviamente esula dai limiti di questo studio – sarebbe tuttavia un indice interessante per cogliere, nel tempo, quali erano stati i bisogni, le malattie, le contingenze economiche e sociali che avevano indotto il popolo a dedicare un altare ad un santo anziché un altro, alla Maternità di Maria piuttosto che a San Rocco. Qui ci basta constatare, comunque, come un fitto mantello di pietà ricoprisse il territorio con chiese, cappelle, oratori, o anche con “capitelli” – così sono chiamate nel Veneto le edicole sacre che tutti possono ancora incontrare lungo le strade, nei vicoli o anche in campagna – anch’essi testimonianza, spesso trascurata nel censimento dei luoghi sacri, di un’avvertita esigenza di protezione e di aiuto divino: attorno ai “capitelli” gli abitanti delle contrade si riunivano per pregare, per recitare il Rosario nel mese di maggio, ma anche per aggregarsi, per intrecciare rapporti sociali, in una parola, per riconoscersi come gruppo legato al territorio e alla sua storia[3]. Nel primo ‘800 un numero davvero rilevante di sacerdoti prestava assistenza alla popolazione: oltre all’arciprete, che nel 1819 era Paolo Alvise Vittorelli (fig.2),

2SebastianoChemin

2. Sebastiano Chemin (Bassano 1756 – 1812), Ritratto dell’arciprete Paolo Luigi Vittorelli. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, inv. 96. Arciprete di Bassano dal 1809 al 1827, ricevette il vescovo Peruzzi nella visita del 1819, insieme ai numerosi sacerdoti, 55, due diaconi, un suddiacono e quattro chierici.

vi erano ben 55 sacerdoti, due diaconi, un suddiacono e quattro chierici. Considerando solo i sacerdoti, si può dire che ve ne era uno ogni 172 abitanti, un rapporto davvero molto alto che deve tener conto, però, del fatto che alcuni di questi erano stati espulsi dai loro conventi dopo la soppressione napoleonica. Dopo questo letterale “cataclisma” che investì i religiosi regolari, ci fu una dispersione di tutti coloro che formavano le varie comunità monastiche e religiose: alcuni di essi tornarono in famiglia, altri si riunirono in piccole comunità indipendenti, qualcuno si ridusse a vita privata, altri ancora andarono ad ingrossare le fila del clero a disposizione nelle parrocchie. Vi erano infatti, tra i sacerdoti presenti nella parrocchia di Santa Maria in Colle, 11 ex religiosi (ex cappuccini, ex riformati, ex conventuali): uno di essi, Bernardo Micheloni di Cavaso, era il cappellano dell’ospedale, ed era stato «benemerito assistente agli infermi di tifo nel 1817»; altri si dedicavano alla predicazione o all’insegnamento della dottrina cristiana[4]. Pochi erano i casi di sacerdoti privi di incarichi specifici e quasi tutti erano a disposizione della popolazione per molti e svariati bisogni: vi erano confessori, catechisti, cantori, maestri delle cerimonie, archivisti, predicatori, maestri e precettori nelle scuole private e pubbliche, prefetti e viceprefetti del ginnasio, cappellani nelle case signorili, istitutori negli orfanotrofi. Vi era persino un sacerdote, come Giambattista Gasparini di Nove, «correttore delle stampe remondiniane»[5]. Il clero era dunque saldamente inserito non solo nella vita religiosa, ma anche nella vita culturale e assistenziale della città. Qualcuno, tra il clero, era di nobile famiglia, come il conte Alessandro Roberti, qualcuno era dottore, come Paolo Gnoato. Una buona parte dei sacerdoti era originaria di Bassano o dalle zone limitrofe, ma alcuni provenivano da varie località dell’Italia settentrionale, come ad esempio Genova, Venezia, Ampezzo, apportando dunque alla cultura locale esperienze e conoscenze diverse. Si trattava inoltre di un clero molto controllato, giudicato positivamente, sempre nel 1819, dal vescovo Peruzzi, anche se non mancavano richiami a singoli sacerdoti perché non confessassero «le donne in casa», perché non si dedicassero a «negozi», oppure perché si dedicassero maggiormente all’assistenza dei malati e alle confessioni, oppure ancora perché non eccedessero nel bere[6]. A Bassano la nomina dell’arciprete spettava «al consiglio della città e al vescovo», secondo un’antica consuetudine per cui il sacerdote a capo della parrocchia doveva essere gradito anche agli esponenti del governo cittadino. Per la cura delle anime l’arciprete era coadiuvato da due curati per la città, da un curato per la zona di Santa Croce e da un altro per la zona dei Santi Vito e Modesto, più un cappellano per l’ospedale. Quanto ai mezzi economici di cui il clero doveva vivere, a Bassano «non esistevano benefici né curati né semplici» – asseriva il parroco – ed il sostentamento dei sacerdoti era così regolato: «A quelli della città il provento dal Battisterio, dai Matrimoni e dai Funerali e Benedizione delle Case; a quelli di Villa il provento dai Matrimoni, questue, funerali e Benedizione delle Case; a quello dell’Ospedale somministra il provento la Congregazione di Carità»[7]. Colpisce la dichiarata assenza di benefici parrocchiali – cioè di beni mobili, immobili, o di prodotti in natura derivanti da decime e quartesi – che potessero garantire al clero rendite sicure, per cui risulterebbe che il clero si doveva sostentare con i soli proventi di stola bianca o nera (battesimi, matrimoni, funerali, benedizioni). Il complesso dei dati sul clero bassanese del primo ’800 ci fa cogliere in definitiva una struttura numerosa, organizzata, laboriosa: oltre all’assistenza religiosa e materiale al popolo – con la presenza in orfanotrofi e ospedali – il clero era addetto sotto il dominio asburgico anche alla tenuta dell’archivio, memoria storica della comunità. A questo proposito l’arciprete rilevava la grande difficoltà del tenere nota delle anime, perché molte persone si spostavano da un quartiere all’altro, ed era difficile avere il controllo totale sulla popolazione: tuttavia, se non si potevano avere tutti i documenti in ordine, asseriva, bastava far ricorso alla memoria di un vecchio sacerdote, il rev. sig. Don Francesco Nalle, in cura d’anime da ben 23 anni, che ricordava con grande lucidità i dati sui fedeli della parrocchia[8]. Il risultato del lavoro svolto dal clero può essere colto nei dati relativi alla vita religiosa della popolazione: i servizi di culto erano «regolari», ma la presenza di troppe chiese e di troppi campanili sembrava essere controproducente: infatti l’arciprete di Santa Maria in Colle denunciava l’eccessivo suono di molte campane che distraevano i fedeli dall’andare a messa in parrocchia, tanto da essere costretto a chiedere al vescovo che fosse proibito il suono delle campane per un’ora intera, durante la messa parrocchiale, perché il popolo veniva distratto «or qua or là»[9], e disertava la “sua” messa e la “sua” spiegazione del vangelo. Insomma, c’era forse troppa abbondanza di chiese e di clero, a Bassano, e questo determinava, alla fin fine, qualche tensione all’interno dello stesso mondo cattolico. Nonostante tutta questa assistenza religiosa, vi erano tuttavia, nel 1819, ben 1500 «non confessati e non comunicati nella recente Pasqua», dunque circa il 21% delle anime da comunione che erano settemila: una percentuale assai elevata rispetto alle parrocchie rurali del vicariato di Bassano, una delle circoscrizioni ecclesiastiche in cui era suddivisa la diocesi: basti pensare che a Tezze sul Brenta gli inconfessi, cioè coloro che non si accostavano ai sacramenti nemmeno una volta all’anno, erano appena il 2%, a Rosà il 3%, a Cartigliano e a Cassola i parroci non denunciavano alcun grave distacco della popolazione dalla Chiesa[10]. Si delineano qui, nel primo ‘800, alcune caratteristiche che sembrano connotare la storia religiosa bassanese come storia di contrasti, con numerosi segnali di adesione alla chiesa, come di importanti indizi di distacco o di aperto dissenso. L’arciprete si rammaricava infatti moltissimo per questi 1500 «non messalizzanti abituali», alcuni dei quali ascoltavano forse di tanto in tanto la messa «Dio sa come», e chiedeva al vescovo di «passare all’autorità competente – all’epoca il governo austriaco – le doglianze amarissime prodotte dal parroco, ma in grado superlativo, dal vedere moltissimi sarti, calzolai, tenere lavoro in tempo di festa nelle proprie botteghe, obbligare anche i propri subalterni ad assistere i padroni nei lavori manuali e meccanici e di molti altri generi di officine. E in proposito di sarti – si sfogava ancora l’arciprete – si potrebbe dire che lavorando con essi anche ragazze, sentono, vedono, imparano, ciò che non si dovrebbe»[11]. Bassano dimostrava insomma una certa vivacità tutta cittadina, caratterizzata da un ceto artigianale che non seguiva ubbidiente e compatto le indicazioni del parroco, come si può invece notare, tranne qualche rara eccezione, nelle vicine parrocchie rurali[12]. Questa caratteristica determinava anche una notevole serie di cosiddetti “disordini morali”, per cui il parroco segnalava che vi erano «alcuni» concubinari, mentre gli adulteri erano «moltissimi» e pure «moltissimi» erano anche i trasgressori del precetto dell’astinenza dalle carni. Vi erano anche scandali che pervertivano la gioventù, ed i vizi dominanti, in definitiva, erano «senso e interesse». Circolavano anche «libri proibiti», che erano spesso consegnati alle fiamme dallo stesso arciprete. Qualche preoccupazione vi era anche per il vizio della bestemmia, assai diffuso nel Veneto: «Tra i nostri parrocchiani e nei magazzini e taverne si sente qualche bestemmia di lingua, ma non di senso e di cuore». Malefizi, o altre «simili enormità» non erano invece segnalati[13]. Accanto ai trasgressori delle regole morali, vi erano però anche molti cristiani zelanti e impegnati, e si segnalavano in particolare gli iscritti alla Congregazione della Dottrina cristiana, presente in 13 chiese, composta «in alcune da parte di soli uomini, in altre da parte di sole donne, e in altre ancora da parte di uomini e donne insieme». I maestri che appartenevano a questa confraternita vestivano l’uniforme, usavano «il testo stampato dal vescovo Zaguri, e ristampato dal vescovo Peruzzi»[14] e la catechesi era costituita in genere da nozioni di base da mandare a memoria, che rappresentavano però, specie per i ceti più umili, una sia pur modestissima forma di acculturazione. Un altro elemento molto caratterizzante la vita socio-religiosa bassanese è la presenza di numerose confraternite e pie unioni, indici di una notevole propensione della popolazione ad associarsi. Esistevano in Bassano nel primo ’800 le seguenti associazioni: Congregazione del Clero; Confraternita del SS.mo Sacramento; Confraternita della Dottrina Cristiana; Congregazione di San Luigi Gonzaga; Pia unione di Santa Maria in Colle; Pia unione della B.V. del Parto; Pia unione di San Pietro; Pia unione di Sant' Andrea Avellino; Pia unione «così chiamata adesso» del Rosario di M.V.; Pia unione di Sant' Anna (di sole donne); Pia unione di M.V. Addolorata; Pia unione di Santa Maria Vergine; Pia unione dei contribuenti; Pia unione detta dell’Oratorio di San Filippo Neri; Pia unione di M.V. detta del Monte Carmelo; Pia unione detta del Capitello all’Angelo; Pia unione di Santa Teresa di Gesù; Pia unione della B.V. della Salute in San Vito; Pia unione ossia Confraternita del SS. Sacramento in Santa Croce; Pia unione del Sacro Cuore di Gesù; Pia unione dei Servitori; Pia unione di Sant' Antonio. Gli scopi di queste forme aggregative erano di carattere devozionale, i soci si impegnavano a curare la manutenzione degli altari e portavano in processione i loro santi: un’usanza che si protrasse a lungo e a cui i bassanesi erano molto affezionati, come ricorda un articolo de «Il nuovo Prealpe» del 1959, che ci offre una efficace descrizione di queste tradizioni ormai in via di estinzione nel secondo ‘900. Un tempo, nella processione del venerdì santo, si ricorda: «Erano le Confraternite della città e dei sobborghi: erano le donne in testa che biascicavano le preghiere, e in mezzo al corteo preceduto dal gonfalone della propria confraternita, le Madonne di diverse curazie che gareggiavano fra loro nello allestimento della manifestazione. E le sacre immagini delle Madonne, portate in alto, come su un trono infiorato di ceri ardenti, erano portate a spalle dai cappati delle diverse confraternite, che si distinguevano per le diverse uniformi, quelli del Duomo con la cappa scura, quelli di San Francesco con la azzurra, quelli della chiesa della Misericordia l’avevano violacea; e compariva per ultima, come una regina, la Vergine Addolorata, ricca di oro e argento, i ricchi doni per grazie ricevute, sul piedestallo di pietra sormontato dalla croce portata da otto cappati che si scambiavano l’onore e circondata dai fanaloni d’oro con le luci rosse come quelle delle galee veneziane e che a noi bambini facevano un’impressione profonda, tale che ci è rimasta nei decenni e ancora nostalgicamente rievochiamo. E la Confraternita del Santissimo, tutti vestiti di seta rossa, che, con contegno regale, precedevano l’Addolorata, portando un grande cero, acceso, quale si conveniva a loro, parte eletta, gli aristocratici del tempo. E le dame in gramaglie di lusso, con lungo velo abbassato sugli occhi, gravi, solenni, che accompagnavano la Grande Madre. Era un popolo intero che sentiva una fede, che affermava un principio»[15]. La valenza di queste varie forme di aggregazione[16] non era solo religiosa, ma anche sociale perché la loro presenza numerosa dimostra una propensione a quella che i francesi chiamano “sociabilité”, ritenuta dai sociologi del ’900 un fattore molto importante per lo sviluppo del capitale umano e sociale. Attraverso le aggregazioni si creavano infatti occasioni di incontro, si sviluppava una qualche forma di scambio culturale, soprattutto si creava una rete di relazioni che sono alla base della fiducia reciproca, della propensione dell’individuo ad avere iniziative e a sviluppare quindi quello che viene chiamato “capitale sociale”. Venivano così potenziate la sicurezza e la coesione collettiva, e si creavano anche le premesse per un migliore sviluppo economico e culturale. Questa realtà aggregativa così variegata testimonia dunque una vitalità e una ricchezza organizzativa della popolazione bassanese davvero notevole.  

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)