Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Bassano aveva da secoli un ruolo importante nella produzione artigianale e manifatturiera e, sebbene già a partire dagli ultimi due decenni della Repubblica Veneta si fossero fatti sentire i primi segnali di una flessione dei suoi commerci, essa era rimasta un punto di riferimento economico tra i principali della pedemontana veneta ancora in età napoleonica. Tuttavia, tra il primo e il secondo decennio del XIX secolo la contrazione del potenziale produttivo divenne sempre più evidente in tutti i comparti. Al momento del passaggio dalla dominazione austriaca a quella francese nel comune bassanese operavano diverse manifatture, numerose delle quali disposte lungo la riva sinistra del Brenta dal borgo Margnano fino al Porto di Brenta, che impiegavano da uno fino a qualche decina di lavoranti, con l’eccezione della stamperia e calcografia dei Remondini che dava lavoro a poco meno di quattrocento persone (trecento uomini, sessanta donne e venti bambini), alle quali si aggiungevano i trenta lavoranti della cartiera, che poteva vantare ancora, sebbene in crisi da qualche tempo, un importante mercato nazionale e internazionale. Le trentasette (ma quelle di cui ci sono pervenuti i dati sono trentacinque) ditte registrate impiegavano complessivamente 841 dipendenti (543 uomini, 268 donne e 30 bambini). C’erano, in ordine di grandezza per impiegati e produzione per ciascun settore, la manifattura di panni di Girolamo Marinoni, quelle di mezzelane di Lorenzo Folo (la maggiore con 21 dipendenti e 800 pezze annue prodotte), di Osvaldo Conte, dei fratelli Fabris, di Giovanni Battista Chemin, di Andrea Moranda, di Giuseppe Marcolin, di G. Ferraro, quella di mezzelane, "droghedine" tele e cotoni di proprietà di Andrea Brun. Le tre filande di tele, lino e canapa impiegavano solo manodopera femminile e appartenevano rispettivamente a Giacomo Rizzo e ai già citati fratelli Fabris e a Giovanni Battista Chemin, mentre la realizzazione di cappelli (di pelliccia e di feltro) era effettuata dalle ditte di Giacomo Medis, di Tommaso Gianese e di Gaetano Barbieri. Nutrito era il numero delle concerie attive e dove lavoravano solo uomini a partire da quella dei fratelli Jonoch e proseguendo con quelle di Bartolomeo Maello, della società Bombardini e Berti, dei fratelli Maello, di Michele Vendramin, di Antonio Barbieri, di Giuseppe Crescini, di Francesco Baggio e di Giovanni Miller. Quattro erano le manifatture di candele: la ditta Bortignon e Cimberle per quelle di cera e le ditte di Girolamo Locatelli, Domenico Scremin e Gaetano Gnoato per quelle di sego. La tradizionale produzione di terrecotte e ceramiche era svolta dalla manifattura di Giovanni Battista Fabris situata all’interno del dismesso convento di Santa Caterina, prospiciente al prato omonimo, e da quella di proprietà di Giuseppe Mattarolo. Trenta dipendenti aveva Giacomo Rizzo nella sua azienda che lavorava 46.00 libbre di ferro all’anno. Oltre a quelle dei Remondini, in città c’erano la stamperia di Basilio Baseggio che dava lavoro a otto persone e la calcografia di Antonio Suntach che ne aveva dodici. Alle attività elencate si devono aggiungere le filande citate in precedenza, le tintorie situate nei pressi del ponte. Produttore di mezzelane, "droghedine", tele e cotoni era inoltre il "Luogo Pio" (Istituto Pirani) che si manteneva anche col lavoro di ventiquattro sue ospiti. Nei documenti compaiono anche la manifattura di panni di Francesca Negri e quella di lavorazione del ferro di Giuseppe Nale, ma di nessuna delle due si hanno altri dati oltre alla indicazione della loro esistenza. Nel 1808 tutte queste attività erano in evidente sofferenza, dato che ciascuna di loro aveva ridotto la propria produzione annua spesso di un terzo o, in diversi casi, della metà, accompagnadovi il licenziamento di molti lavoranti. Il caso più eclatante fu quello della ditta Remondini che licenziò in un biennio 195 dipendenti, 170 dei quali erano uomini. In quell’anno, pertanto, erano ancora impiegati nelle aziende bassanesi 432 lavoranti, poco più della metà di due anni prima, suddivisi in 280 uomini, 156 donne e 26 bambini. La maggiore tenuta dell’occupazione femminile e minorile si spiega con il fatto che i salari di queste due categorie erano nettamente inferiori a quelli dei maschi adulti e determinate lavorazioni non era necessario che fossero affidate esclusivamente a uomini. Unica manifattura in controtendenza era la conceria di Giovanni Miller, che passò nello stesso periodo considerato da tre a otto dipendenti e da 1.000 pile annue lavorate a 1.600, divenendo la quinta del settore a fianco di quella dei fratelli Maello, mentre in precedenza era la più piccola. La crisi che colpiva le manifatture venne motivata dagli amministratori cittadini con l’imposizione voluta da Napoleone del cosiddetto Blocco continentale, che avrebbe dovuto danneggiare l’Inghilterra impedendole di commerciare con l’Europa, mentre sortì in buona parte l’effetto contrario di penalizzare i territori soggetti all’impero napoleonico, privando molti settori manifatturieri delle materie necessarie alla realizzazione della loro produzione. A Bassano si lamentavano, ad esempio, la mancanza del cotone grezzo da trasformare in tessuti, dei coloranti per le tintorie e per le stamperie e calcografie, del pellame per le concerie e quel poco che arrivava aveva prezzi nettamente superiori che in precedenza, facendo aumentare i costi di produzione e togliendo concorrenzialità ai manufatti bassanesi, soprattutto quelli legati a mercati popolari, nei confronti di quelli esteri a partire magari proprio dalle cotonine inglesi. A parziale compensazione delle difficoltà di approvvigionamento si sviluppò anche nel bassanese un fiorente contrabbando di prodotti vietati, nel quale si sospettava fossero in qualche misura coinvolti mercanti e imprenditori locali e che nel 1810 aveva portato all’arresto di alcuni dipendenti della dogana cittadina, facenti parte di una rete che attraverso la dogana di Verona giungeva al di là delle Alpi. Non è questa la sede per un’analisi più dettagliata delle dinamiche economiche bassanesi (e non solo) di quel periodo, ma si deve rilevare come, anche se non è l’unica, la guerra commerciale napoleonica sia una causa della stagnazione imprenditoriale locale, che si tradusse nella progressiva messa ai margini dal mercato della produzione bassanese. Al momento della riapertura dei mercati internazionali Bassano si trovò con un parco manifatturiero invecchiato e diminuito, con sbocchi commerciali più ristretti di un decennio prima e in buona parte occupati da centri produttivi più avanzati tecnologicamente. Il ceto imprenditoriale era andato inoltre orientandosi verso altre fonti di investimento e di guadagno e tutto ciò contribuì a condannare la città a ricoprire a lungo un ruolo secondario nello sviluppo industriale veneto, dal quale uscirà solo nel XX secolo. Un esempio noto di tale decadenza lo si trova nelle vicende della stamperia dei Remondini, che nel 1809 produsse un solo libro, dove già prima della crisi non si era avuta l’accortezza di tenere il passo con il rinnovamento dei metodi di produzione e di confezione della carta che si stavano diffondendo rapidamente in Francia e Inghilterra. Dopo il 1815 essa ebbe una lieve ripresa della produzione che tuttavia si andò spegnendo nel giro di pochi anni e, pur conservando ancora la sua fama internazionale, procedette stentatamente e miopemente fino alla presa d’atto della sua impossibilità di continuare a operare e alla liquidazione definitiva avvenuta nel 1861[12](fig.5).

5Prospettoprincipalifabbriche

5. Prospetto delle principali fabbriche…1808, in Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, 1808, Arti e commercio, fasc.7. Prospetto delle manifatture bassanesi nei primi decenni dell’Ottocento.

Al di fuori del circuito cittadino la base dell’economia bassanese era data dall’agricoltura, dei proventi della quale viveva la maggior parte della popolazione come era ancora la norma per tutti gli stati dell’epoca. La campagna bassanese si presentava in quel periodo in pianura suddivisa tra grandi e medi proprietari (in gran parte ex patrizi veneti e nobili locali), con la prevalenza nella gestione della concessione di fondi a mezzadria o della conduzione diretta su altre forme quali l’affittanza (anch’essa comunque ben presente) o l’affidamento ad agenti. Nella vallata del Brenta prevaleva invece la figura del piccolo e piccolissimo proprietario aggrappato alla propria terra, la rendita della quale veniva integrata prendendo "a livello" appezzamenti appartenenti ai beni comunali o con l’emigrazione stagionale in cerca di lavoro in località dei dintorni o più lontane. Le colture di pianura preminenti erano quelle miste della vite a filare alberato e del frumento, del mais e dell’avena, ai quali era associata la presenza di prati artificiali. I pendii montuosi erano lasciati a bosco o tenuti a prato e usati per il pascolo. La scarsezza d’acqua a cui, nonostante le rogge irrigue derivate dal Brenta, andava soggetta molta parte della campagna bassanese, rappresentava un problema sentito vivamente nel territorio e ostacolava la presenza di prati naturali.   Per avere il maggior raccolto possibile si faceva ampio ricorso a concimazioni ripetute, senza però tenere conto se la tipologia del terreno fosse o meno adatta a una determinata coltura. I maggiori proprietari (in prevalenza veneziani) come Girolamo Dolfin che possedeva oltre 234 ettari, Girolamo Ascanio Molin (poco più di 203), Elisabetta Corner Grimani (circa 190), Paolo Antonio Erizzo (126) erano adagiati nella tradizione della rendita assenteista, anche se bisogna dire che il maggiore produttore di grappa era in quel periodo il Dolfin. Esistevano tuttavia, tra quelli che possiamo definire possidenti medio grandi, alcuni che stavano sperimentando nuove tecniche agronomiche per ottenere rese migliori, che avevano introdotto la rotazione tarelliana al posto della concimazione indiscriminata, avviato la semina del trifoglio, dell’erba medica, del guado eliminando il "cinquantino" (secondo raccolto di granturco), diviso cerealicoltura e viticoltura ponendole ciascuna in terreni ad esse adatti, rompendo l’antico metodo della piantata mista che impoveriva progressivamente il terreno. Posero anche attenzione all’allevamento importando nuove razze bovine e ovine. Tra costoro ricordiamo Francesca Negri (proprietaria di 122 ettari e che tentò l’allevamento di una decina di pecore merinos fatte giungere dalla Spagna), Francesco Parolini (oltre 84 ettari), il podestà Leonardo Stecchini (49 ettari) e qualche altro nobile e borghese locale. Si era ancora ai primi passi del rinnovamento e ci sarebbero voluti molti anni prima che l’agricoltura bassanese iniziasse a porsi al passo degli esempi che provenivano da altre regioni italiane, uscendo poco alla volta dall’arretratezza in cui in gran parte si trovava. Un’integrazione ai redditi della popolazione rurale proveniva dalla presenza in quasi tutti i comuni del cantone dei cosiddetti beni comunali, ossia terreni di quantità variabile da un paese all’altro che appartenevano tradizionalmente da diversi secoli al patrimonio di ciascun comune per essere affittati, annualmente o per periodi molto più lunghi, utilizzati come pascolo del bestiame appartenente alle famiglie che da tempo risiedevano in paese (gli "antichi originarj"), lasciati alla libera raccolta di fieno o legna oppure destinati ad usi dettati dalle loro caratteristiche. Dopo le ingenti alienazioni a privati fatte dalla Repubblica veneta soprattutto nel XVII secolo, all’inizio dell’Ottocento in pianura tali beni erano ridotti ormai a poca cosa mentre quelli posti nelle zone montuose si erano maggiormente conservati, grazie soprattutto alla loro scomoda posizione o alla scarsa fertilità del terreno che li rendevano poco appetibili per i privati. Nel cantone era il distretto asolano ad averne conservato la quantità maggiore, formata da terreni sassosi e rocciosi ricoperti da boscaglie e cespugli, ripartita tra alcuni paesi che lo componevano e che estendevano il proprio circuito comunale sul Massiccio del Grappa (12.537 campi trevigiani nel 1807), mentre il Bassanese in pianura presentava 300 ipotetici campi bassanesi (238,5 campi trevigiani) a Cartigliano, che si calcolava potessero essere ricavati dal greto del Brenta con la costruzione di argini più resistenti di quelli esistenti. C’erano poi circa 700 campi bassanesi (556,8 campi trevigiani) a Pove parte prativi e parte boschivi e altri 200 campi (159 trevigiani) piantati a castagno a Solagna. A Bassano i beni comunali erano il Prato Santa Caterina ("della Fiera" secondo la definizione dell’epoca), il Viale delle Fosse e i bordi delle strade[13]. Eppure la proprietà terriera venne vista da molti degli imprenditori che stavano subendo la crisi delle attività manifatturiere come un investimento sicuro di capitali per ottenere dei buoni profitti. Questo perché le continue guerre che si susseguirono in Europa nel primo quindicennio del secolo fecero costantemente aumentare sia la richiesta di generi alimentari che di prodotti agricoli destinati ad altre lavorazioni, portando buoni guadagni ai produttori. Nonostante la complessiva arretratezza della conduzione agricola, non solo nel bassanese ma in generale in tutto il Veneto, era la terra una delle maggiori fonti di risorse finanziarie del Regno italico, che fece sempre gravare su di essa nel corso degli anni le sue continue richieste tributarie. Nel 1807 furono pertanto avviate le operazioni di proseguimento dell’aggiornamento del catasto territoriale veneto, iniziate qualche anno prima dagli Austriaci per creare un estimo provvisorio delle proprietà più aderente alla realtà del precedente risalente al 1740. Nell’estate del 1807 giunsero pertanto a Bassano l’ingegnere Zerbi e i suoi assistenti, per procedere alle operazioni di rilevamento necessarie alla stesura delle nuove mappe catastali. Tuttavia, il poco tempo a loro disposizione in relazione alla grande mole di verifiche e misurazioni da effettuare li spinse a fare riferimento sovente al citato catasto veneto settecentesco, divenuto ormai obsoleto e comunque viziato in origine da imprecisioni, ponendolo a confronto con le notifiche presentate dai proprietari di fondi e immobili nel 1805. Si fece ricorso alle perticazioni (ossia le effettive misurazioni dei fondi e degli immobili) solo nei casi dubbi o in mancanza totale di dati. Il decreto vicereale del 13 aprile 1807 stabiliva che tutti i comuni dei dipartimenti indicati dal decreto stesso, tra cui il Tagliamento, dovessero dotarsi di una mappa topografica in scala 1: 2000 che abbracciasse la loro intera estensione. Ogni comune doveva inoltre fornire alloggio e assistenza ai tecnici governativi, che a Bassano furono ospitati a Ca’ Rezzonico, e sobbarcarsi un decimo delle spese totali dell’operazione, ammontanti per tutto il distretto a 2.052 lire italiane e 89 centesimi. Alla metà di novembre il nuovo censimento fondiario era un fatto compiuto, tuttavia fu necessario giungere al 1809 perché l’imposta fondiaria non operasse più la tradizionale distinzione tra fuochi veneti ed esteri e al 1810 perché essa fosse calcolata sui dati del nuovo catasto provvisorio.          
I proprietari terrieri avevano costantemente manifestato una “sensibilissima renitenza” a notificare i propri beni, occultandone sovente ampiezza e rendita reale, costringendo la Commissione dipartimentale per il censo del Tagliamento, da cui il cantone continuò a dipendere fiscalmente dopo il suo trasferimento al dipartimento del Bacchiglione fino al 1811, a continui accertamenti e confronti. Inoltre, durante la guerra del 1809 in diverse località del Tagliamento le popolazioni insorte distrussero le mappe e i sommarioni catastali, ostacolandone ulteriormente l’opera. Infine, altri impacci e rifacimenti furono imposti dal decreto vicereale del 10 febbraio 1809, il quale stabiliva che tutti i fondi censiti fossero intestati ai possessori effettivi, che nel caso di terreni ceduti in affitto o a livello erano i conduttori.   A Bassano, per ogni 100 lire di rendita attribuita ai fondi, i proprietari dovevano pagare d’imposta 2 lire e 9 centesimi, ai quali si associava una sovrimposta censuaria introdotta a beneficio della casse dipartimentali. Il rinnovo del catasto comportò pertanto un aumento sensibile della tassazione prediale, il cui gettito passò dalle 3.259 lire e 995 centesimi del precedente periodo austriaco alle 19.564 lire e 61 lire del 1812 (ma bisogna anche tenere conto del costante ampliamento del territorio comunale avvenuto a partire dal 1807) e alle preventivate ma solo parzialmente raccolte (a causa della guerra e della fine del Regno italico) 36.502 lire e 88 centesimi del 1813. Si ebbero inoltre episodi di ulteriori imposizioni tributarie come il "Campatico Brenta Adige e Bacchiglione" per gli anni 1809-1810 che il dipartimento del Bacchliglione richiese ad alcuni proprietari terrieri, i quali dovettero versare per ogni campo arativo o prativo 38,4 centesimi per ogni lira di rendita e 9,6 centesimi per ciascun campo vallivo o di bosco. Il ritorno all’Impero asburgico non comportò all’inizio nessuna riduzione di tale peso fiscale, ma l’oggettiva constatazione delle gravi situazioni economiche del cantone bassanese, che nel solo periodo 23 ottobre - 17 novembre 1813 aveva speso 95.924 lire italiane e 96 centesimi per il mantenimento dei reparti austriaci di passaggio, indusse il prefetto provvisorio del Bacchiglione, il conte Tornieri, in occasione dell’imposizione il primo dicembre di quell’anno di un’ennesima tassa straordinaria, a concedere alla città a titolo di sussidio di trattenersi 50.000 delle 77.691 lire italiane e 41 centesimi (60.642 lire e 82 centesimi dei quali raccolti con l’imposta prediale) che la sua popolazione doveva pagare. Successivamente il Governo austriaco, tenendo conto della situazione in cui si trovava tutto il Veneto, ridusse il valore imponibile dei beni immobili della regione da 94.264.202 scudi milanesi a 81.591.285 nel 1814 e a 85.136.231 (392.292.059 lire italiane) nel 1815[14](fig.6).

6Avviso

6.  Avviso. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio. Imposte, 1813, fasc.33. Il governo austriaco riduce il valore imponibile dei beni immobili.

Il resto della tassazione diretta era costituito dall’imposta personale, da quella sulle professioni liberali e dall’imposta sulle arti e il commercio, introdotte nel 1807 in sostituzione delle colte dei dazi e delle dadie dell’età veneziana che erano state mantenute dall’Austria, il cui gettito rimase sempre nettamente inferiore a quello derivato dalla prediale[15].     

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