Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Se il dopo Ezzelino implicò nel Veneto un generale rilancio del disciplinamento dei contadi da parte dei comuni cittadini restituiti alla loro libertas, Bassano rappresentò a ben vedere una variabile del tutto singolare di questo processo. Non è certo il caso di ripercorrere qui il documentatissimo iter per cui tra l’autunno del 1259 e l’estate del 1268 Bassano, dall’iniziale protettorato dei Padovani “liberatori”, attraverso il ritorno sofferto e patteggiato all’obbedienza a Vicenza, finì per soggiacere politicamente a Padova. I momenti cruciali di questo trapasso, assieme al dossier relativo, sono da tempo noti[136] e non merita indugiarvi più di tanto. Ma sussistono aspetti rilevanti della vicenda che neppure i più recenti e seri lavori specialistici hanno adeguatamente evidenziato; aspetti da cui peraltro non si può prescindere per una corretta valutazione del tasso di effettiva libertà di movimento - certo non esaltante ma pur sempre singolare nel contesto di questo e altri ordinamenti politico-amministrativi comunali - lasciata dai nuovi domina­tori o aspiranti tali alla terra bassanese. L’episodio del caparbio sindaco del comune bassanese Ottolino di Ventura che il 22 novembre 1262 si rifiutava di ottemperare al comando del podestà di Vicenza di costruirvi una casa assume in proposito un valore emblematico che merita d’essere richiamato. Ecco la scena. Il pio e dotto vescovo Bartolomeo da Breganze sulle prime prega invano il podestà di recedere dal suo ordine; costui si adatta ad ammettere che la controparte possa dire d’aver fatto unam domum pro comuni Baxani quod erit honor comunis Baxani e non pro suo precepto; puntuale, il procuratore bassanese chiede che si metta nero su bianco per simile affermazione: il podestà, stizzito, replica che uno scritto del genere non ci sarà mai e, se mai ci fosse, ponemus lutum super preceptum et pro nichilo reputarem et reputo. Solo la rinnovata paziente preghiera del vescovo aggiusta le cose, ma con riserve e infingimenti fin troppo chiari: la casa si farà ma solo pro gratia et amore ipsius domini episcopi e non pro precepto vel ratione precepti[137]. Al di là dell’episodio e del suo valore, è difficile sostenere che l’honor comunis Baxani fosse allora e sia stato nello spazio di due o tre secoli solo un guscio del tutto vuoto di significato politico. Era una prospettiva viva allora, e destinata a vivere. Probabilmente, ancora all’arrivo di Venezia esso suonava nelle contrade del Veneto prealpino come squillo a richiamare, nella perfetta coscienza di una impossibile indipendenza, almeno una collaudata tradi­zione di prestigio collettivo, di privilegi e di volontà di autonomia. Ma torniamo alla seconda metà del XIII secolo. Anzitutto si ha la sensazione che fin da quando fu accolta «sotto la benigna protezione del comune padovano»[138] o - secondo altra più realistica formula - «nelle mani e in forza» del podestà e della comunanza di Padova[139], Bassano ebbe perfetta consapevolezza, al di là d’ogni possibile illusione da parte vicentina, del prevedibile esito della questione «utrum Baxanum ipsum Padue vel Vicentie subesse deberet».[140] Nella ridda di verba, consilia et tractatus intervenuti fin dal 1260 è già evidente che Bassano seppe scegliere e sviluppare con tempestività un piano di dirette trattative coi nuovi aspiranti padroni, eludendo contro le aspettative vicentine il mortificante appiattimento sull’indistinta pletora di villaggi e castelluzzi del territorio vicentino. Il cronista padovano Rolandino, infatti, con un pizzico di ipocrita legalismo riferisce che, con l’insorgere delle diatribe e delle recriminazioni, a Bassano il «comune padovano concesse volentieri che fosse suo diritto scegliere a quale delle due città soggiacere»[141]. Di fatto sappiamo che, tornata a giocare il suo vecchio ruolo di perno del guelfismo nella regione veneta col pieno appoggio del papato e dei marchesi d’Este ormai signori di Ferrara, Padova non fece che presentare i conti a Vicenza, città più debole e soprattutto assai più compromessa col passato regime ezzeliniano. Dietro il nobile simulacro dei pacieri e dei protettori, i governanti padovani non fecero che riprendere e perfezionare in un contesto di relazioni politiche generali favorevolissimo quelle ambizioni di egemonia sulla città berica che solo la dominazione di Ezzelino aveva sventato[142]; e una analoga utilitaristica politica attuarono nei fatti anche verso Bassano, pur rivestendo paradossalmente i panni dei garanti del suo spirito di autonomia e dei suoi tradizionali privilegi. In questo senso, indubbiamente, la «conversio a Vicentia ad Paduam» di Bassano - in una situazione resa ancor più complicata dalla riviviscenza delle rivendicazioni signorili degli episcopi padovano e vicentino rispettivamente su Solagna e la stessa Bassano - può oggettivamente considerarsi un fatale corollario della realpolitik perseguita dalle città venete all’indomani della caduta del “tiranno” e in particolare del patto-capestro di aiuto e protezione stretto da Vicenza nel 1266 con Padova e deprecato fino alla fine da Venezia. Ma, appunto, le forme e i tempi in cui essa avvenne mostrano ancora una volta non solo la lucida percezione che il centro pedemontano ebbe dei margini di manovra consentiti dal momento storico, ma anche la sua energica capacità di strappare, pur fra travagli interni e qualche sbandamento, il massimo possibile di garanzie economiche e amministrative su tutti i fronti. Una analisi incrociata della normativa statutaria di Vicenza, Padova, Bassano degli anni sessanta[143] che sia attenta a distinguere, attraverso il raffronto con gli atti diplomatici e i documenti privati, il livello delle intenzionalità da quello dei dati oggettivi, mostra ad esempio che nel faticoso raggiungimento del nuovo assetto politico le sollecitazioni di parte bassanese (una trascurata fonte parla chiaramente di petitio)[144] non furono men forti dei crudi calcoli di parte padovana. Gli statuti approntati da Bassano già nel 1259 e arricchiti da uno strato quasi decennale di riformagioni e aggiunte difficilmente si possono definire - secondo un vecchio lessico - “giurisdizionali”[145], cioè prodotto di un ente politicamente indipendente. Ci pare chiaro invece che essi riflettono una situazione in movimento e, almeno dalla prospettiva bassanese, tendenzialmente evasivi sulla cruciale questione del potere che imponeva e garantiva il dato normativo. La premessa del 1259, redatta quando nella cittadina era ancora presente in qualità di rettore straordinario con poteri militari il giudice padovano Tommaso dell’Arena[146], è, effettivamente, di un imbarazzante silenzio che sembra mascherare volutamente troppi arrière-pensées delle parti. Bisogna aspettare gli anni successivi per veder comparire - conforme­mente al lodo del podestà padovano Marco Quirini del 9 settembre 1269[147] - parchi, isolati passaggi che riflettono al contrario un orientamento già ligio al rispetto delle leggi vicentine, all’accettazione di occasionali servizi militari verso quel comune, e comunque al mantenimento del «bonum statum inter civitatem Vincentie et terram Baxani»[148]: un orientamento confermato da fonti d’altra natura, che accertano la presenza di podestà vicentini a Bassano tra il 1261 e il 1267 e il contemporaneo versamento da parte dei Bassanesi del canone mensile forfettario pattuito come contropartita del riconosciuto diritto di imporre ed esigere a proprio beneficio dazi, collette e telonei[149]. D’altra parte, mentre si ha per altra via l’impressione del contestuale perdurare di un contenzioso con Vicenza che è stato giustamente letto come segno d’una “illusione di realizzare un ampliamento della propria autono­mia”[150], la confusa sedimentazione degli stessi statuti bassanesi non impedisce di cogliere disarmonie con le volontà e le dichiarazioni pubbliche di Vicenza. Qui infatti in due liste ufficiali del 1262 e 1264 si continuava a inserire senza esitazione Bassano tra le ville Vicentini districtus.[151] Ma è altrettanto chiaro come da un’iniziale almeno dichiarata volontà di soggiacere «cum omni mansuetudine et reverentia sue civitati Vincencie in hisque tenentur» e dalla censura verso chi nel 1263 era acceso fautore della rottura con Vicenza, nel consiglio comunale bassanese si sia passati ben presto a una sua esplicita riabilitazione[152]. Le tappe successive del passaggio di fatto di Bassano sotto il controllo diretto di Padova datano dell’estate del 1268[153]. il 13 giugno 1268 si incameravano d’ufficio i beni vicentini posti a Bassano e Fontaniva, stabilendo che gli abitanti della prima località «accipiant potestatem de civitate Padue, obediant comuni Padue in omnibus et per omnia, secundum quod faciebant comuni Vincencie» e «veniant ad rationem ad cìvitatem Padue» e quelli della seconda invece «ad Citadellam»[154]. Dal 9 marzo 1269 è certificato il pagamento ai nuovi padroni delle collecte e dacie mensili già corrisposte a Vicenza; nel 1270 è notizia di cavalieri bassanesi già in servizio del comune padovano in Fridollis [Friuli?][155]. Nel giugno 1272 la città euganea decise il formale scorporo del Bassanese dal distretto vicentino[156]; e la diretta annessione a quello padovano assieme al comparto di villaggi e terre circonvincini già ezzeliniani suggeriscono ugualmente l’idea di una colossale beffa ai danni di Vicenza. Nel nuovo complesso politico-territoriale messo in piedi dai governanti padovani essa entrò infatti nella veste di città “satellite” o “custodita”, ma senza poter rappresentare Bassano come parte organica di un suo proprio, unitario corpo territoriale. Quest’ultimo centro vi ebbe riconosciuta una collocazione propria ed ebbe buon gioco nel patteggiare e veder accolte le stesse garanzie strappate a Vicenza col patrocinio padovano: la conferma della sua posizione di terra con un proprio hinterland e con ville ad essa soggette, cioè capoluogo comprensoriale con un podestà (padovano) provvisto di giurisdizione anche su Fontaniva, Cartigliano, Santa Lucia del Brenta, Pove, Solagna, S. Nazario, Cismon; la facoltà d’imporre ed esigere in casa propria le contribuzioni ordinarie dietro versamento di 400 lire annue; una sostanziale equiparazione alla città dominante in materia di imposte straordinarie, servizi militari, cavalcate e lavori pubblici intorno ad argini, strade, ponti[157]. Un altro fatto di assoluta evidenza è che appellandosi a tale pacchetto di garanzie originarie Bassano continuò a resistere con uguale tenacia per mezzo secolo a ogni tentativo padovano di “livellarla”. Le posteriori redazioni legislative sia padovane, sia locali del 1295 (anche se dichiaratamente sintonizzate sull’inevitabile frequenza d’onda dell’«honor comuni Padue», sono infatti specchio eloquente di queste premesse. Fin dall’esordio del nuovo corpus statutario si precisa che «omnia ordinamenta sint ad honorem civitatis et populli et comunis Padue»[158]. Basti pensare, tra gli aspetti che meriterebbero ben altro approfondimento, alla speciale posizione del podestà, appartenente sempre a casate prestigiose[159], equiparato per dignità a quello di Vicenza e nettamente staccato, per quest’aspetto e per il salario (ben 500 lire annue) da quelli degli altri maggiori centri dello stato territoriale padovano, ivi compreso Lonigo, castello confinario con Verona scaligera anch’esso disaggregato per motivi strate­gici nel 1281 dal distretto vicentino; alla conferma del diritto a propri ufficiali, proprie misure e proprie ammende, alla delega delle minori funzioni giudiziarie (fino all’entità di 25 lire e limitatamente a cause insorte fra Bassanesi); al diritto d’esigere una aliquota dei proventi delle condanne dei paesi viciniori incardinati nella propria podesteria; al diritto di sconfinamento oltre il proprio distretto per la cattura dei malviventi; al permesso di mantenere localmente attiva sotto il controllo del comune una vivace attività laniera; alla facoltà di commerciare liberamente nel distretto vicentino nonostante l’opposizione del comune berico; alle vantaggiose concessioni derogatorie de gratia alla normativa monopolistica vigente nello stato (per cui ad esempio, nell’essenziale settore della produzione e del commercio vitivinicolo quello con Angarano, e dunque con il distretto vicentino, divenne di fatto un confine aperto e s’arrivò perfino a escludere con apposito ordinamento che i Bassanesi fossero «quantum ad hoc, Paduani districtus»)[160]. Vero è che nelle scelte politiche decisive, come la nomina del podestà annuale, e in tutte le questioni riguardanti la difesa e il presidio armato di Bassano e delle fortezze vicine, non ci fu storia. Fu sempre e solo Padova a decidere. E non fu facile, in questo contesto, rintuzzare i ricorrenti tentativi padovani di imporre interpretazioni restrittive degli accordi stabiliti fin dagli anni sessanta o addirittura di prescinderne. Sappiamo infatti di numerose richieste periodiche fatte alla comunità bassanese di sottoporsi ai lavori pubblici comandati[161]; di tentativi di addebitare anche ai Bassanesi l’onere del salario alle truppe a cavallo che svolgevano funzioni di polizia nell’Oltrebrenta[162]. Sappiamo pure che si battagliò a lungo per introdurre, quantunque in via temporanea e per far fronte a necessità finanziarie eccezionali, una imprevista tassa sul macinato (dacium angarie macinarie, dacya masinature), definitivamente imposta solo nel 1306[163]. Altrettanto si verificò per altre gabelle, tra cui quella sul sale[164]. Ma una documentazione straordinariamente ricca ci conferma che in tutti questi casi la discrezionalità della città dominante fu spesso vittoriosamente frenata con puntigliose battaglie giudiziarie, anche mediante una rappresentanza accreditata permanente di due advocati e due sindici nella città euganea[165].

moneta ezzelini

9. Milano. A nome di Enrico Imperatore. Grosso. Prima metà del XIII secolo. D/ + IMPERATOR nel campo H/ RIC/ N/. Venezia, Museo Civico Correr.
Moneta in corso in epoca ezzeliniana.

Già nel 1276 il podestà padovano Roberto Roberti era costretto a ritirare l’ordine impartito ai Bassanesi di far riattare la rocca di Cismon, riconoscen­do che «ipsum preceptum esse et fuisse contra pacta et condiciones»[166]. L’anno successivo un consilium di esperti decretava il diritto di Bassano all’esenzione dal versamento del dazio dei carri cui la si voleva soggetta come tutti i villaggi del territorio[167]. Di un biennio più tardi è una analoga sentenza giudiziaria favorevole al procuratore dei Bassanesi, «quia iustam causam habuerunt litigandi» coll’esattore del dazio del sale padovano[168]. Nel 1280 il sindaco della comunità bassanese otteneva che le autorità di Padova intervenissero a diffidare ufficiali troppo zelanti che molestavano i Bassanesi a causa di certe opere in corso sulla strada Vicenza-Padova[169]. E si potrebbe continuare colle esemplificazioni. L’usuale refrain bassanese in simili controversie fu che «in base agli statuti di Padova e alla sentenza e alla interpretazione della sentenza data» tra le parti le esazioni padovane erano da considerarsi illegittime[170]. Tra il 1294 e il 1295, ad esempio, Padova dovette rimangiarsi una di queste pretese con una sentenza in base alla quale i Bassanesi «non sono tenuti e non debbono mandare nessuna guardia in nessun porto o villaggio del distretto padovano, essendo ciò contrario ai patti, ai diritti, agli statuti intervenuti tra il comune di Padova da una parte e il comune di Bassano dall’altra»[171]. Naturalmente tali «carte et omnia iura pactorum que sunt inter comune Padue et Baxani» venivano per obbligo inseriti negli stessi statuti della comunità[172]. Un punto su cui le parti s’accanirono con particolare durezza fu quello dell’amministrazione della giustizia, come ci conferma un interessante dossier conservato negli archivi bassanesi e risalente al 1281[173]. Netta - e prevedibile - la posizione di Bassano: la propria «iurisdictio et ius cognoscendi tam in civili quam in criminali» riposava, da sempre su «certa pacta, modi, condiciones et conventiones» intercorsi con Vicenza e recepiti da Padova; solo tardi, unilateralmente e illegalmente, questa avrebbe emanato uno statuto che impegnava anche Bassano, come le altre «terre, ville e castelli del distretto» a far denuncia entro tre giorni di eventuali atti criminosi al podestà di Padova, demandando al suo tribunale il relativo giudizio. Irremovibile sulle prime la posizione del governo padovano, anche a costo d’essere tacciato di «far ingiuria e negare giustizia». Il compromesso finale fu, come s’è detto, una divisione tutto sommato abbastanza empirica e non priva di contestazioni fra giustizia penale e civile e tra alta e bassa giustizia’. Per altre possibili materie controverse si trovarono accomodamenti che restano comunque a sottolineare non solo i rapporti di forte integrazione con la realtà economica e giuridica della città egemone, ma anche l’interesse di questa a non alienarsi simpatie e fedeltà in uno scacchiere importante del proprio stato territo­riale. E lo dimostrano chiaramente vari episodi che chiamano in causa anche singoli magistrati o esponenti della classe dirigente del comune padovano. Lo provano, per esempio, certi interventi volti a correggere gli abusi degli ufficiali padovani attivi a Bassano, o ancora i riguardi usati nel 1302 verso Bassano in tema di rappresaglia da un grande magnate come Nicolò da Lozzo proprio «de speciali gratia et amore comunis et hominum terre Baxani»[174]. Nel complesso si ha insomma la sensazione che fin dove potè Bassano continuò a impostare i suoi rapporti col comune dominante più da alleata (debole) che da semplice suddita. E che pertanto rivendicò sempre il suo diritto a patteggiare, senza unilateralmente subire, gli inevitabili costi della propria inferiorità politica. Tutto ciò fino al temporaneo, breve distacco da Padova intervenuto nel 1320. È intuibile peraltro, anche se esula dai propositi di questo contributo un esame delle strutture economico-sociali della comunità bassanese, che simili risultati fossero principalmente frutto dell’iniziativa di un nucleo significativo di piccola aristocrazia locale destinato a mantenersi e a consolidarsi fino alle soglie dell’età moderna: di quei «viri probi et strenui in terra Baxani» nonché «opere et sermone potentes» che, realizzando una perfetta convergenza di sentimenti municipali, tra il 1295 e il 1306 la spuntavano anche nel disegno di sgravare definitivamente Bassano, contro le resistenze accanite di nobili padovani e parenti di prelati di curia, dall’onere d’essere feudo decimale in mano altrui. Il Trecento si sarebbe incaricato di evidenziarne il consolidamento[175]

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