Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Del grandioso progetto di Ponce de Melgueil, di creare a Campese una nuova abbazia sul modello di Cluny, arrivò a conclusione solo la grande chiesa, dedicata alla Santa Croce[1]. Con questo atto, nel 1124, il fondatore voleva probabilmente far memoria del suo viaggio in Terrasanta, da cui tornava, ma anche ribadire che era Cristo, più che Pietro (o meglio i suoi successori, spesso troppo distratti dai contenuti evangelici), il punto di riferimento dei cristiani. A S. Pietro era dedicata la sua grande abbazia di Cluny e quindi la nuova assumeva un chiaro significato polemico[2]. Il resto della costruzione -conseguentemente al fallimento dell’iniziativa campesana del pio abate- rimase perennemente incompiuto, in un’alternanza di “restauri” e demolizioni. Il monastero della Santa Croce, rimasto incompleto e declassato al rango di priorato dipendente dai benedettini di San Benedetto Po (Mn), soffrì per molto tempo dell’immagine del luogo isolato, di cura o di “punizione”, riservato a monaci irrequieti.[3] Ma, dopo tre secoli di vita anonima, Campese rientrò nel circuito della grande storia nel ‘500 e ancora una volta per questioni legate al ripristino dello spirito evangelico nella vita della Chiesa. Certo, di monaci dall’intelletto vivace e anticonformista, il cenobio ne ospitò molti. Tra questi, il più noto e l’unico ricordato è Teofilo Folengo, che qui visse dal 1543 fino alla morte, sopraggiunta l’ anno successivo[4]. A lui toccò d’avere un privilegio che divenne oggetto di imbarazzo e persino di scandalo, non solo a causa delle sue opere macaroniche, scritte sotto lo pseudonimo di Merlin Cocai, ma anche per quelle in volgare, a soggetto più strettamente religioso. Diversamente da quanto stabilisce la Regola di San Benedetto, egli non venne sepolto nella fossa comune riservata a tutti i monaci (situata solitamente nella sala capitolare), ma alla destra dell’ altar maggiore. Un onore assolutamente inusitato, che i monaci stessi sottolinearono, specificando che il luogo era situato “in cornu evangeli”, dalla parte in cui si legge il Vangelo. Il singolare privilegio non era quindi rivolto solo al poeta, ma anche all’uomo di fede, celebrato nell’interezza della sua opera e persino come depositario di verità inequivocabili. Così, esplicitamente, riferisce la lapide: “Cecini ludicra, sacra, sales”, ho cantato cose giocose, sacre, salaci. Evidentemente, solo monaci di grande intelligenza (e coraggio, considerati i tempi) poterono rendere ad un “emarginato” un tale onore, includendo nell’elogio persino i “sales(fig.1).

1TombaTeofiloFolengo

1. Tomba di Teofilo Folengo, “Merlin Cocai”. Bassano del Grappa, fraz. Campese, chiesa di Santa Croce. Alessandro Tassoni ricorda il sepolcro del Folengo in Santa Croce: la sua “...fama / a’ termini d’Irlanda e del Catajo/ stende il sepolcro di Merlin Cocajo”.

Da questo momento inizia per Campese una grande storia: la sua “...fama / a’ termini d’Irlanda e del Catajo/ stende il sepolcro di Merlin Cocajo”, scrisse nel ‘700 Alessandro Tassoni, dopo che il poeta napoletano G.B. Marino, “ re del secolo, il gran maestro della parola”,[5] aveva già lasciato nel ‘600 uno fra i più famosi epitaffi dedicati al Folengo[6]. Gli storici definiscono Campese come “priorato di confino”, ma non si trova nella storia monastica un effettivo riscontro a una tale definizione. Anche la marginalità geografica o culturale del cenobio può essere discussa[7]. Dobbiamo mettere assieme alcune situazioni che riguardano Bassano in quegli anni: la città era luogo natale e residenza di Lazzaro Bonamigo, segretario ed esecutore testamentario del filosofo mantovano Piero Pomponazzi, maestro di molti spiriti irrequieti, compreso il Folengo, a quanto egli stesso dichiara. L’umanista bassanese era anche amico di personaggi di punta dello schieramento religioso a cui il Folengo stesso apparteneva: il cardinale inglese Reginald Pole e la marchesa di Vasto Vittoria Colonna, a loro volta amici di Giambattista, fratello di Teofilo. Tutti costoro erano impegnati nel movimento del cosiddetto evangelismo italiano, rivolto a raggiungere una riforma interna della Chiesa romana. A Bassano agiva già in questa direzione un confratello di Jacopo dal Ponte, il “pellipario” Antonio Grande -noto come Antonio Eremita- i cui atteggiamenti richiamano quelli del Folengo del Chaos del Triperuno (1527) e dell’ Humanità del Figliuolo di Dio (1533): denuncia della vanità di una religiosità esibita, farisaica; condanna della pretesa di ricercare una giustificazione scientifica dei misteri riguardanti la sfera del divino e della fede; condanna dei libri, in quanto espressione di una scienza diventata fonte di presunzione e di ostentazione. La fama dell’eremita era tale da attrarre a Bassano già nel 1537 un personaggio come Ignazio di Loyola, che fu molto segnato dalla visita[8]. Leggendo le opere folenghiane e osservando le tele dei Da Ponte numerose sono le rispondenze che si possono ritrovare, in particolare riguardo una comune polemica anticlassicistica, più che mai esplicita nell’ultima opera del Folengo, il poema Palermitana, iniziato durante il suo soggiorno in Sicilia (1540-1543), trovato incompiuto tra i suoi libri a Campese[9]. La famiglia di Jacopo da Ponte era frequentatrice del monastero della Santa Croce, dove il Folengo giunse all’apice della sua fama. Da pochi mesi era uscita in Spagna una versione - o meglio, un rimaneggiamento - in castigliano del suo Baldus[10] e Rabelais aveva già dichiarato da tempo i suoi debiti verso questo poema in Gargantua et Pantagruel[11]. Bassanese era anche Francesco Negri, scolaro a San Benedetto Po come i Folengo e passato presto ai protestanti, in Svizzera. Fu noto più tardi specialmente come autore della Tragedia del libero arbitrio (1550), argomento di fondamentale importanza nelle discordie fra cristiani delle diverse tendenze e nella cui discussione il Folengo fu certo di gran lunga un precursore. Insomma, se don Teofilo era da isolare, non era certo Bassano il posto più giusto. D’altra parte, il luogo in cui fino ad allora era stato si trovava in Sicilia, in una località pressoché disabitata e soggetta al controllo delle severissime autorità spagnole: il piccolo monastero di Santa Maria delle Ciambre, presso Borgetto, dove egli svolgeva le funzioni di priore. Che motivo ci sarebbe stato di fargli ripercorrere tutta l’Italia per trasferirlo a Campese? Sappiamo, da quanto egli stesso affermò nel sonetto Dulce solum, scritto sul muro della sua cella giusto prima di partire dalla Sicilia, che da lì era stato costretto ad andarsene, in una vera e propria fuga. Eppure, egli vi si trovava sotto la protezione di Ferrante Gonzaga, fratello del suo grande estimatore Federico II, duca di Mantova[12]. A Palermo il Folengo aveva scritto e diretto una spettacolare sacra rappresentazione sulla creazione del mondo e la redenzione, l’ Atto della Pinta[13], che viene considerata come la prima opera del teatro siciliano moderno. In precedenza aveva pubblicato La Humanità del Figliuolo di Dio (Venezia, Aurelio Pincio, 1533)[14](fig.2)

2TeofiloFolengoLaHumanita

2. Teofilo Folengo, La Humanita del Figliuolo di Dio, Venezia, Aurelio Pincio,1533. Poema sacro in ottava eroica, nel quale al centro della fede cristiana venivano posti il Presepe e la Croce, modelli per una religiosità  rinnovata.

. Per la prima volta, in un poema sacro, veniva usata una metrica riservata ai poemi cavallereschi: l’ottava eroica. Erano però i contenuti a creare disagio: anche qui, come in Palermitana, al centro della fede cristiana venivano posti il Presepe e la Croce, lo spirito dei quali avrebbe dovuto diventare il modello per una religiosità rinnovata[15]. Folengo continuava così quel suo accorato messaggio, già espresso anche con Orlandino (1526) (fig.3),

3TeofiloFolengoOrlandino

3. Teofilo Folengo,  Orlandino (1526) . Poema epico è una delle satire piu feroci contro il clero corrotto e ignorante, chiudendo con l’esortazione al mondo laico di impegnarsi direttamente e con vigore per il rinnovamento della Chiesa.

poema epico sulla scia del contemporaneo Ariosto, che inizia con una situazione burlesca e ridanciana e si evolve in una delle satire più feroci contro il clero corrotto e ignorante, chiudendo con l’esortazione al mondo laico di impegnarsi direttamente e con vigore per il rinnovamento della Chiesa[16]. Anche il Chaos del Triperuno (1527), opera autobiografica assai complessa, conclude additando non nella scienza ma nella fede la via per la salvezza. [17] Sono tutti testi assai importanti, ma il loro interesse è stato eclissato dalla genialità dell’ opera macaronica, passata purtroppo per molti solo come opera comica e parodica, finalizzata a burlarsi di tutto e di tutti, specialmente di Virgilio Marone, punto di riferimento fondamentale per qualsiasi poeta dell'età umanistica. La comicità è però solo apparente ed appartiene ad una divertita lettura di superficie. A chi legge con attenzione non può sfuggire il valore allegorico di quei versi che nascondono nel riso la maggior parte delle drammatiche questioni che Lutero aveva esposto con la nota violenza a Wittemberg (1517)[18]. Si tratta di una lingua d’invenzione, creata con gustoso innesto di diversi idiomi volgari, con la prevalenza del Mantovano e del Veneto, che aveva apprezzato Teofilo presso gli ambienti goliardici padovani. Sino ad allora era usata come parodia del latino pedantesco. Folengo capì che questa lingua gli avrebbe dato una possibilità nuova: quella di crearsi le parole una per una, per rendere al meglio l’espressione delle proprie emozioni. Nessun altro poeta, prima di lui, aveva intuito questa possibilità, che gli permise di primeggiare in un ambito in cui trovò numerosi imitatori, mai rivali. Il rimescolamento delle lingue, ma anche dei generi letterari, dell’eroico e del comico, somigliava all’impasto dei macaroni, gnocchi fatti con diversi ingredienti, rozzi e magari malfatti, ma di una sapidità unica e capaci di dare ottimo nutrimento. Questo cibo popolare, tipico della cucina dei veneti d’allora e prediletto dagli studenti, ben rappresentava quel linguaggio pepato e grassoccio in tutte le sue accezioni, che perciò veniva chiamato macaronico. Il Folengo ne aveva già percepito il sapore da tempo. Nella sua Mantova, dove era nato nel 1491, seguiva l'attività del padre notaio, anche presso i Gonzaga. Buffo gli sembrava il lessico dei documenti notarili, in cui era normale intrecciare latino e volgare: “macaronica verba”, lo definiva Teofilo. Diventato monaco benedettino a Santa Eufemia di Brescia, e dopo gli studi a San Benedetto Po, egli aveva completato la sua formazione a Santa Giustina di Padova. Scuole monastiche di grande prestigio, in cui il modello di riferimento era il grande abate veneto Ludovico Barbo, che aveva rimesso in piedi la Congregazione nel secolo precedente. Quando la politica e gli intrighi si fecero strada nell’Ordine, di fronte ai tentativi dell’abate fiorentino Ignazio Squarcialupi di stravolgerne le Regole e lo spirito, sia Teofilo che il fratello Giambattista si ribellarono, venendo costretti, uno dopo l’altro, ad uscire dalla comunità monastica. Giambattista andò in Liguria, a commerciare legname, mentre Teofilo venne accolto da Camillo Orsini, condottiero al servizio della Serenissima. Al suo seguito sarebbe rimasto dal 1525 al 1530, come precettore del figlio Paolo, giovanetto avviato al mestiere delle armi. Desideroso però di rientrare, dopo la morte dello Squarcialupi, nella vita monastica, egli si recò a Sirolo (sul Conero, presso Ancona), per iniziare un triennio di eremitaggio, proseguito in Abruzzo e nella penisola sorrentina. Lo seguì anche Giambattista. I due fratelli, in questo periodo, ebbero la possibilità di produrre assieme nuove opere, in latino: Pomiliones, Varium Poema e Ianus, pubblicate un po’ dopo il 1534, in un unico volume[19]. Il loro rientro nell’Ordine avvenne su sollecitazione di Federico II Gonzaga, duca di Mantova, da sempre amico e sostenitore di Teofilo[20]. Dopo il rientro a Santa Eufemia, egli venne inviato a Sulzano (BS), a reggere il piccolissimo cenobio di Santa Maria del Giogo, posto in luogo isolatissimo e impervio. Ciò non gli impedì di produrre una nuova opera, sui primi martiri cristiani: diciannove Passiones, raccolte con il titolo di Hagiomachia[21]. Nel ‘39, probabilmente su richiesta di Ferrante Gonzaga, vicerè di Sicilia, Teofilo riprese il viaggio verso sud, con destinazione Palermo. Il successivo trasferimento dalla Sicilia a Campese parrebbe dettato, più che dalla necessità di isolarlo, di porlo in un luogo in cui avrebbe potuto godere di una maggiore sicurezza; forse, date le sue idee, il più lontano possibile dal potente clero inquisitore spagnolo. Il monastero della Santa Croce era poi l’ultimo del territorio veneto (vicentino), prima di entrare in “Terra d’Alamagna”. Non è particolare di poco conto. Dal 1537 era a Vicenza, ospite del patriarca di Venezia Girolamo Querini, il primate di Svezia Giovanni Manson con il fratello Olaf, già arcivescovo di Uppsala. Assieme ad altri cardinali, essi stavano lavorando per preparare il Concilio a Vicenza. Venne poi scelta Trento, e Folengo era stato mandato in un luogo vicino sia all’una che all’altra sede, in posizione che appare strategica e non certo emarginata. La via da Vicenza per Trento passava proprio davanti al monastero e i delegati benedettini vi avrebbero potuto o dovuto far tappa per andare al Concilio. La Regola di San Benedetto, infatti, consigliava loro di pernottare solo presso le comunità monastiche dell’Ordine[22]. Il Folengo venne mandato alla Santa Croce in Campese proprio nel 1543, in un momento in cui i lavori per la preparazione del Concilio fervevano. Verrebbe da pensare alla possibilità di un suo coinvolgimento? Di certo si può dire che alla sua apertura, nel 1545, la delegazione benedettina che si presentò a Trento era formata quasi solo dai suoi migliori compagni della scuola monastica di San Benedetto Po, nomi annoverati fra i più dotti benedettini del secolo XVI: erano i tre abati Isidoro Cucchi da Chiari, Marco Croppelli da Chiari e Luciano degli Ottoni. Con loro stava il loro maestro, l’illustre benedettino Gregorio Cortese, creato da poco cardinale da papa Paolo III Farnese (1542). Una squadra molto omogenea e con idee ardite, le stesse professate dal Folengo nei suoi scritti. Si può parlare ancora, per il Folengo, di un’emarginazione? Sembra che la sua collocazione a Campese potesse invece aver potuto in qualche modo giovare ad una sua fisica vicinanza ai vecchi compagni di lotta e al comune maestro. Purtroppo egli venne a mancare giusto un anno prima dell’apertura del Concilio, il 9 dicembre del 1544. L’autorevole gruppo benedettino, completato da Crisostomo Calvini, era propenso a proporre un sereno confronto con le istanze del movimento luterano ed è da considerare precorritore dell’ecumenismo moderno. Con questo spirito i coraggiosi monaci non esitarono a chiedere, nel 1546, la convocazione a Trento di Filippo Melantone, personaggio di punta tra i protestanti moderati. Lo stesso Paolo III era orientato a favorire un tentativo di recupero di almeno una parte dei luterani e proprio per questo aveva nominato cardinale il Cortese[23]. Già nel 1536, su consiglio del veneto Gaspare Contarini, questo papa aveva convocato come membri della commissione per la preparazione del Concilio un significativo gruppo d’ intellettuali: oltre allo stimatissimo Gregorio Cortese, Reginald Pole, Jacopo Sadoleto e Federico Fregoso, esponenti di spicco dell’evangelismo italiano e autori di un famoso documento, il Consilium de emendanda Ecclesia, che chiedeva direttamente al papa un cambiamento di rotta. I personaggi coinvolti erano molto vicini ai fratelli Folengo, in particolare a Giambattista che tuttavia, nonostante la sua appartenenza al gruppo, non venne coinvolto nel Concilio: la sua posizione critica, all’interno della Congregazione, lo aveva affiancato al fratello Teofilo, che con la violenza dei suoi attacchi si era troppo sbilanciato. Eppure bisogna dire che molte tra le pagine più vigorose delle Macaronee precorrono le istanze del Consilium. Giambattista Folengo è il primo di questo gruppo che troviamo a Campese, nel 1538. Proprio qui egli aveva scritto una grande opera, il Commentario ai Salmi, che mandò a stampare a Basilea da Michele Isingrin, editore di grandissimo prestigio, attivo in una città posta in posizione focale per la cultura europea. Non si trattava di un’opera di pura erudizione, ma un segnale chiaro che rispondeva alla necessità -sollevata ormai tanto da Erasmo da Rotterdam quanto da Lutero- di poter riesaminare le traduzioni, partendo da testi greci o ebraici. Giambattista era andato alla fonte, traducendo dall’ebraico. D’altra parte, la lettura dei Salmi rientrava negli “uffici divini” che ogni benedettino praticava nel corso di ogni notte, in ossequio alle raccomandazioni della Regola, che a questo esercizio dedicava ampio spazio, dal cap. VIII al XX[24]. Ecco quindi che il volume di Giambattista venne richiesto con grande interesse, tanto che furono necessarie più ristampe. Nel 1538 egli aveva scritto anche la prefazione per la Lettera di Giovanni Crisostomo a San Paolo di Luciano degli Ottoni (Brescia, L. Britannico, 1538). Alla stessa edizione Teofilo aveva aggiunto un breve commento elogiativo in latino. Se si dovesse dar credito alla tanto discussa prefazione Vigaso Cocaio alli lettori dell’ultima edizione di Macaronicorum Poemata, quando Teofilo morì a Campese, il 9 dicembre del 1544, Giambattista era con lui e lo avrebbe assistito mentre soccombeva ad un forte stato febbrile. Sarebbe stato lui, con il “Vigaso” (ormai identificato in Ludovico Domenichi), a raccogliere e a riordinare i suoi scritti, fra cui la Palermitana rimasta incompleta e così lo stesso Macaronicorum Poemata,che stava revisionando, arrestandosi all'VIII libro. Il loro testo sarebbe stato poi portato a Venezia agli eredi di Pietro Ravani per la stampa, che avvenne nel 1552. Questa era la quarta revisione del testo originale, il Liber Macaronices, pubblicato da Paganino Paganini a Venezia nel 1517, in contemporanea alla “protesta” luterana di Wittemberg. La seconda edizione, con un testo pressoché raddoppiato, aveva visto la luce presso Alessandro Paganini a Toscolano sul Garda, nel 1521, con il titolo Opus Merlini Cocaii macaronicorum(fig.5);

5TeofiloFolengoMerliniCocaii

5. Teofilo Folengo, Opus Merlini Cocaii poetae mantuani Macaronicorum...Venetis, apud Bevilacquam. 1564. Edizione veneziana dell'opus pubblicata a Toscolano sul Garda, nel 1521.

la terza edizione, collocabile al 1539, s’intitola Macaronicorum Poema. Di queste edizioni, assai diverse tra loro, viene purtroppo utilizzata quasi sempre l’ultima, la più stampata. Nelle ultime tre di queste raccolte sono compresi il Baldus, la Zanitonella e la Moscheide, oltre ad una serie di Epigrammi[25].   Le iscrizioni epigrafiche sul sepolcro del Folengo insistono sul suo valore di poeta nei confronti di Virgilio, e sulla sua religiosità. Su questo secondo aspetto è importante seguire le vicende dei monaci che gli furono più vicini, poiché di lui potremo farci un’opinione molto diversa dalla sua fama corrente, impostata sull’ immagine del “pinguifero poeta”. Luciano degli Ottoni, autore di un Dialogo sul libero arbitrio, aveva probabilmente avuto modo di discutere su questo argomento -ritenuto di fondamentale importanza per il mondo cristiano- con il confratello Teofilo molti anni prima. Il Baldus, già nella redazione del 1517, sotto le spoglie del poema eroicomico altro non è che una narrazione criptica basata su questo argomento, e anticipa sia Erasmo, che interviene nel 1524 con il De libero arbitrio, sia Lutero, che gli contrappone il De servo arbitrio nell’anno successivo. Anche l’espressione Beneficio di Cristo trova il suo esordio con il Folengo e compare nel suo caustico poema Orlandino (1526). Si ritrova più tardi con il titolo di Beneficio di Cristo una delle opere più scottanti per quel periodo, scritta da Benedetto Fontanini, altro compagno di studi del Folengo. Il libro esce anonimo con l’appoggio di Gregorio Cortese e diventa uno dei testi principali per le discussioni religiose dell’epoca. Fontanini, Luciano degli Ottoni, Isidoro da Chiari sono tutti presenti come interlocutori nei Pomiliones di Giambattista Folengo, opera che egli aveva elaborato nel periodo di eremitaggio in Campania assieme a Teofilo. Isidoro da Chiari, suo confratello, pubblicherà più tardi due opere di grandissima attualità: nel 1540 l’Adortatio ad Concordiam, una vigorosa esortazione a placare le ostilità fra i cattolici e il mondo luterano; poi, nel 1542, aveva realizzato una sua traduzione della Bibbia. I legami del gruppo erano quindi molteplici e molto intensi. Nella Chiesa d’allora esso stava conquistando ampio spazio, tanto che nella città di Trento, a rinforzare il gruppo dei benedettini, era andato anche l’autorevolissimo cardinale Reginald Pole, che per pura banalità non diventò papa nel conclave del 1555.[26] Giambattista Folengo cercò d’essere in qualche modo presente sin dall’inaugurazione dei lavori conciliari, pubblicando un Commento alla prima lettera di San Giovanni che aveva dedicato al cardinale inglese, cugino di re Enrico VIII. Nell’opera egli auspicava il rinnovamento della Chiesa e l’apertura alla discussione, alla tolleranza e alla concordia[27]. Queste idee gli valsero poi l’invito del Pole a recarsi a Londra per riorganizzare la presenza benedettina nell’abbazia di Westminster, cosa che non ebbe luogo per il successivo irrimediabile disaccordo del cardinale verso il re sulla questione del suo divorzio dalla regina. Il gruppo benedettino a Trento doveva fare i conti con una forte ostilità degli altri ordini religiosi e tra mille difficoltà aveva anche quella di poter usufruire di un solo voto; per giunta ebbe anche la sventura di perdere la sua guida, Gregorio Cortese, che morì nel 1548. A complicare ancor più le cose, emerse in modo clamoroso la posizione di un monaco che era stato compagno del Fontanini e di Teofilo nel monastero palermitano di San Martino delle Scale, giusto prima della sua partenza per Campese. Si trattava di don Giorgio Rioli, detto Siculo, personaggio che si era spostato vivacemente nel campo dell’eresia. Tutti coloro che con lui avevano avuto un dialogo e un confronto ne uscirono compromessi, poiché egli li citò nel processo come elementi a suo favore. La conseguenza fu che, dopo la sua condanna avvenuta a Ferrara nel 1551, si apriva la nuova fase del Concilio senza gli autorevoli benedettini che l’avevano inaugurato. Una dieta straordinaria dei monaci di San Benedetto Po aveva esautorato in primis il suo abate Luciano degli Ottoni per “cause di salute”, ma in realtà per aver assecondato il Siculo, avendo tradotto in latino il suo Trattato di iustificatione, al fine di presentarlo nella lingua ufficiale ai padri conciliari[28]. L’ abate venne destinato a Campese. Nell’anno successivo, dopo aver patito il carcere per la vicenda del Siculo, lo raggiungeva l’amico Benedetto Fontanini, che gli fu vicino sul letto di morte, avvenuta nel 1552. Anche l’illustre e coraggioso abate Luciano degli Ottoni sarebbe quindi stato sepolto a Campese, in un luogo mai individuato. La sepoltura di don Teofilo, fortunatamente, fu resa ben visibile: il benedettino Pietro Calzolai Ricordati è il primo che menzioni l’esistenza, nel 1561, del più antico epitaffio sul suo sepolcro e scrive, nella sua Historia monastica distinta in cinque giornate: “quivi fu messo in un sepolcro con un bello epitafio, il quale insino a hoggi si può vedere”[29]. Arnold Wion, benedettino d’origine fiamminga, specifica nel 1595 (in Lignum Vitae ornamentum et decus ecclesiae), che ne furono autori don Nicolò da Salò e don Colombano da Brescia. Il testo dice: “Hic cineres Theophili monachi, tantisper dum reviviscat, asservantur: et in Domino quievit felicissime die 9 decembris 1544[30]. Viene così ribadita e sottolineata la viva fede e l’ortodossia del Folengo. Nello stesso anno, essendo invece le Macaronee messe all’indice, don Colombano si prende cura di emendarle dai passi più compromettenti. Una copia con le sue correzioni e cancellature è conservata presso il monastero di San Faustino di Brescia[31]. Alla riapertura del Concilio la nuova rappresentanza benedettina fu orientata ad abbandonare ogni velleità di ecumenismo. Le idee del gruppo dei “valorosi campioni di Cristo e del Padolirone abitatori”, come li aveva chiamati Teofilo Folengo, non si erano però assopite.[32] La continuità veniva assicurata da un autorevolissimo personaggio che troviamo rivestire la carica di priore a Campese nel 1562. E’ don Andrea Pampuro da Asola, che l’anno prima, in veste di abate di San Benedetto Po, era stato in visita al cenobio, in cui già erano onorate le spoglie del Folengo. Era allora priore di Santa Croce un altro monaco scomodo, don Antonio da Bozzolo, che già aveva rivestito questa carica nel 1557 [33]. Il Pampuro è uno dei maggiori abati del ‘500, grande committente del Veronese e del Palladio. Il suo soggiorno a Campese, evidentemente, non fu un’emarginazione ma, scrive Zaggia, gli consentì di “tenersi vicino per un lato a San Benedetto Po, per l’altro ai centri monastici veneti”[34]. Infatti il Pampuro venne eletto due anni dopo a capo dell’intera Congregazione Cassinense di Santa Giustina. Egli si era impegnato a dare alle stampe tutta la raccolta delle Orationes di Isidoro da Chiari, di cui furono realizzati solo i primi due tomi. Il suo orientamento era quindi molto preciso: si chiuse invece con lui definitivamente la vivace epoca della scuola polironiana e veneziana di Gregorio Cortese. L’ultima epurazione nell’Ordine Benedettino venne fatta nel 1568 in seguito alle forti insistenze di papa Pio V. A diciassette anni dalla morte del Siculo le inquietudini delle coscienze non erano ancora assopite e la persistenza delle sue idee compromise sia il Pampuro che Antonio da Bozzolo, che venne processato e incarcerato essendo stato riconosciuto come uno fra i maggiori seguaci di Luciano degli Ottoni e del Fontanini.[35] Il fatto che troviamo tanti benedettini in un’area religiosa che viene ritenuta eterodossa deriva da una loro fondamentale convinzione: essi ritenevano lecito il libero dibattito religioso anche attorno alle questioni più scottanti, restii a considerare il fatto come motivo sufficiente per lanciare accuse d’eresia. Fatto che, all’esterno dell’Ordine, comportava invece il rischio onnipresente di incorrere nelle accanite indagini dell’Inquisizione. La stessa Adhortatio del confratello di Teofilo, Isidoro da Chiari,“aveva sostenuto con vigore la tesi che nessuna questione dottrinale poteva impedire la concordia tra cattolici e luterani”[36]. Questo atteggiamento era un loro privilegio che talvolta si trovavano costretti a usare con prudenza; rimaneva tuttavia la forma mentis, che giustifica il fatto che, mentre le opere del Folengo venivano messe all’Indice dei libri proibiti, sul suo sepolcro si moltiplicassero le sue esaltazioni, proprio per iniziativa dei confratelli, ma anche di abati polironiani coraggiosi, come Angelo Grillo[37]. Proprio nel principale centro di formazione benedettina, a San Benedetto Po, Giambattista Folengo era spirato nel 1559 e la sua effigie venne onorata con un affresco monocromatico nel refettorio del grande monastero. Quattro anni prima egli era stato inviato dal papa Paolo IV in Spagna, per una missione presso la Congregazione Benedettina di Valladolid. Fra i priori di Campese Franco Signori elenca anche Dionisio d’Umbria (1547), che viene identificato con Dénis Faucher, anch’egli allievo fra i più insigni di Cortese, compagno del Folengo, e autore di un notevole numero di lettere e di carmi che furono pubblicati solo nel 1613 in Chronologia sanctorum et aliorum virorum illustrium dal benedettino Vincenzo Barrali Salerno[38]. Anch’egli è da annoverare tra “li valorosi campioni” di San Benedetto, in quanto il suo dialogo con il Cortese e con Giambattista Folengo era durato a lungo, specialmente durante la permanenza di questi al monastero ligure della Cervara. Qui era maturata anche la loro familiarità con il fratello del Doge di Genova, Francesco Fregoso, di cui abbiamo già visto il ruolo nella redazione del Consilium de emendanda Ecclesia[39]. La sua vicinanza ai Folengo viene sottolineata dal fatto che anch’egli aveva pubblicato una raccolta poetica intitolata Varium Poema, in cui tre carmi sono dedicati a Giambattista[40]. Vediamo quindi avvicendarsi nel monastero di Campese una lunga serie di autorevolissimi personaggi, intellettuali d’altissimo livello -e ai quali oggi dobbiamo guardare con particolare attenzione- che hanno in comune un preciso intento: tentare di ricondurre la Chiesa romana nella strada indicata dal Buon Pastore, mentre invece si andava facendo più forte il senso dell’autoritarismo e della conseguente repressione. Il ruolo di confino di Santa Croce potrebbe essere in qualche modo giustificabile solo dopo il trasferimento della sede conciliare a Bologna (1547-1549). E’ però lecito chiedersi come mai venissero indirizzati tutti lì i componenti di un preciso orientamento religioso. Probabilmente per tenerli lontani dal controllo dei grandi inquisitori. Non un confino, dunque, ma probabilmente un rifugio per i confratelli più coraggiosi e lungimiranti, autori delle più significative opere religiose del nostro Rinascimento. 

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