Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

La lavorazione della seta costituì ancora in questa fase il principale comparto produttivo del bassanese, ma risentì pesantemente dell’aperto protezionismo napoleonico che fece propendere la bilancia in favore dell’industria francese: Napoleone cercò di favorire le esportazioni di seta greggia e filata italiana e di penalizzare i prodotti finiti. Né le scelte economiche del periodo della Restaurazione, che pur faticosamente reinserirono nei nuovi circuiti economici il lanificio, riuscirono a porvi rimedio. Anzi: filatura e tessitura serica uscirono distrutte dalla globalizzazione del mercato serico e dalla nuova divisione internazionale del lavoro sorta dalle ceneri dell’avventura napoleonica, che ridusse la tradizione protoindustriale a qualche torcitoio ad energia idraulica, mentre la specializzazione si limitò alla trattura del filo e solo in alcuni casi alla produzione di trame e organzini[192]. L’involuzione del Veneto a produttore di materia prima e di filati si espresse altresì nella larga diffusione dei fornelli da seta utilizzati per una rozza trattura, condotta a livello domestico, che furono numerosi anche a Bassano, come attesta la documentazione conservata nell’Archivio Comunale[193]. La soppressione del dazio che aveva fino ad allora colpito il singolo fornello spiega solo in parte tale aumento, causato più che altro dall’assenza di filande moderne che avrebbero introdotto quell’innovazione, fondamentale sullo scorcio del XIX secolo, che era il vapore. Le filande, aperte solo durante i mesi estivi, non passavano alla fase continua del processo di produzione perché non riuscivano a scindere i legami con il mondo agricolo. L’elevato prezzo dei bozzoli incentivava inoltre la tendenza da parte degli allevatori a vendere le gallette, e non il prodotto filato, ai mediatori, che le rivendevano ai mercanti. Le attività si concentravano sull’esportazione della materia prima e sulle primissime lavorazioni, condotte in regime di sussidiarietà con le province e le regioni limitrofe[194]. Le incertezze del mercato e la forte incidenza del clima sulla produzione non impedirono ai proprietari del bassanese di introdurre innovazioni nel sistema di allevamento dei bozzoli. Sulla buona qualità della seta prodotta abbiamo la testimonianza di Francesco Gera, il quale non mancò di elogiare alcuni produttori del territorio bassanese quali Comello Angelo e Chemin Giovanni Battista[195]. A Bassano nel 1832 si produssero 13.310 chilogrammi di bozzoli, mentre 23.850 furono quelli prodotti nel distretto, venduti al prezzo di lire 2,5 al chilo[196]. Il podestà di Bassano nel 1834 scriveva al delegato provinciale che alla coltivazione dei gelsi ed all’allevamento del baco si dedicavano maggiori cure e che i bachi erano diventati uno dei più importanti prodotti del territorio[197]. Ad «intiepidire lo zelo del villico» nell’allevamento del baco intervennero negli anni dal 1836 al 1837 le conseguenze della crisi commerciale che colpì gli Stati Uniti e che si propagò all’Inghilterra e ad altre zone d’Europa. Alle difficoltà del mercato si aggiunsero quelle derivate dall’epidemia di colera che già nei primi giorni di luglio si propagò a tutto il distretto di Bassano, mietendo in quel mese nel solo capoluogo ben 341 vittime[198]. Il prezzo medio dei bozzoli subì un sensibile ribasso scendendo, nel decennio dal 1837 al 1846, da 2 a 1,42 lire, un lieve aumento segnò invece il prezzo della seta greggia e di quella lavorata[199]. La caduta dei prezzi fu anche una conseguenza del trattato di Nanchino concluso nel 1842 con la Cina, grazie al quale l’Inghilterra abbandonò le tradizionali piazze in cui era solita approvvigionarsi di bozzoli, quelle di Francia e d’Italia, per acquistarli a prezzi assai più convenienti dalla Cina, in questo modo non solo rifornì le proprie fabbriche, ma li rivendette nei mercati europei, causando la caduta dei prezzi dei prodotti. In particolare fra il 1845 ed il 1846 si accumularono grosse partite di bozzoli che rimasero invendute. Oltre alla speculazione ed alla concorrenza del prodotto estero, il mancato investimento nell’acquisto dei bozzoli va ricercato nell’interesse da parte degli investitori a impiegare il denaro in azioni per le strade ferrate[200]. Nel 1847 si verificò una ripresa che faceva segnare un aumento della produzione dei bozzoli dal 10 al 12 per cento, fra città e distretto vennero prodotti complessivamente 95.400 chili di bozzoli di buona qualità che furono venduti al prezzo di 2,8 lire al chilo. Di questi se ne filarono 85.860 nel distretto, mentre gli altri 9.540 vennero lavorati nelle filande di Cittadella e di Castelfranco[201]. Il presidente della Camera di commercio di Venezia, nella relazione inviata nel 1847 alla Delegazione provinciale, al fine di rendere più remunerativo il prodotto dei bozzoli nel Veneto, che produceva un quarto dei 50 milioni di bozzoli annuali prodotti nella penisola, propose la riduzione del dazio, almeno di quello in uscita[202]. Dopo il difficile periodo dei primi anni Cinquanta il settore serico subì un’ulteriore gravissima battuta d’arresto a partire dal 1854, anno in cui si diffuse la pebrina, che, nel volgere di breve tempo, portò a dimezzare i raccolti e provocò una profonda crisi del comparto. Nel 1856 si verificò un aumento delle vendite di bozzoli dovuto alla scarsezza di quelli lombardi che condusse in Veneto molti acquirenti forestieri ad incettare significanti partite. La maggior parte delle gallette nostrane venne lavorata nelle duecento filande della provincia vicentina nelle quali, nello stesso anno, si produssero 99.900 chili di seta filata[203]. L’approvvigionamento di seme bachi dalla Cina venne seriamente compromesso dalla rivolta dei Tai’ Ping, scoppiata nel 1851 ed estesa anche alle zone produttrici di seta come Shangai. Fu quindi necessario ricorrere a nuovi mercati, il comune di Bassano nel 1858 deliberò l’acquisto di cinquanta once di seme bachi dal Giappone anticipando la metà del costo dell’operazione ai signori Freschi e Castellani che erano stati incaricati dell’acquisto[204]. Alla crisi dovuta alla pebrina alla quale non si riuscì a trovare alcun efficace rimedio, si aggiunsero la guerra del 1859, la divisione politica dalla Lombardia, con il conseguente innalzamento di barriere doganali, ed infine la guerra di Secessione americana, che ebbe ripercussioni sui mercati internazionali. La difficile congiuntura degli anni Cinquanta ebbe inevitabili e pesanti conseguenze anche sulla lavorazione che come ricordato in precedenza rimase circoscritta alle fasi iniziali. La prima era la trattura, lavorazione nella quale il distretto bassanese era divenuto area di elezione già nel Cinquecento[205], chiamata talora impropriamente filatura, la trattura richiedeva competenze modeste, era praticata dalle famiglie contadine sia per la facile deperibilità dei bozzoli sia a causa dell’intensità di lavoro manuale che essa richiedeva. Le operazioni a cui la fibra tessile doveva essere sottoposta per diventare filato consistevano nel dipanare il filamento di seta, estratto dai bozzoli immersi in bacinelle di acqua calda, e nell’unire più bave in un solo filo. Il prodotto così ottenuto si differenziava in base allo spessore, quello della seta reale, che era la più sottile delle sete gregge, andava dai 16 ai 22 denari, quello della mediocre o della grossa superava i 24. I fili avvolti in matasse erano pronti per la successiva lavorazione, la torcitura: questa consisteva nel torcere il filo prima su se stesso, successivamente più fili che avevano subito lo stesso tipo di torcitura potevano essere uniti assieme e sottoposti ad una nuova torcitura, inferiore per intensità alla prima. Il tipo e il numero di torsioni che i fili subivano consentivano di ricavare due diverse tipologie di filati: le trame e gli organzini. Nelle manifatture bassanesi venivano prodotte prevalentemente trame per le quali si utilizzava seta mediocre o grossa che serviva alla fabbricazione dei tessuti, mentre per gli organzini (semilavorati) si utilizzava la seta reale. Già nel 1651 le favorevoli condizioni ambientali, la presenza di risorse idriche e di materia prima avevano favorito l’insediamento a Cartigliano del primo filatoio alla bolognese; nel Settecento, a Bassano, i filatoi erano ventiquattro[206]. Con l’arrivo delle truppe napoleoniche si aprì una lunga ed irreversibile crisi che portò prima alla ruralizzazione del comparto e poi alla progressiva dismissione dell’intera attività. Nel 1824 nel bassanese erano attive ventisei filande con 390 addetti nel complesso, negli stabilimenti vennero lavorati 43.290 chili di bozzoli dai quali se ne ricavarono 4.660 di seta grezza. Nei tre filatoi, con 120 addetti, si produssero 7.992 chili di seta grezza dai quali se ne ricavarono 4.660 di trama e orsoglio[207]. Dieci anni dopo si verificò una contrazione e probabilmente una concentrazione dell’attività nel capoluogo. A Bassano si contavano nove filande con 340 addetti, nelle quali venivano filati 17.316 chili di bozzoli dai quali se ne ottennero 1.332 di seta greggia, e un filatoio con 100 addetti nel quale si produssero 1.000 chili di seta ritorta e trame[208]. Una decina di anni più tardi il numero di opifici rimase invariato, ma il numero degli addetti subì una riduzione scendendo a 215, il contingente lavorativo maggiore era costituito dalla manodopera femminile, le donne erano 207, e la produzione di seta greggia fu in quell’anno di 2.787,21 chili. Di questa il maggiore quantitativo venne prodotto nella filanda di Chemin Giovanni Battista, discendente da una famiglia di mercanti di seta presenti a Bassano già nel primo Settecento[209], questa manifattura primeggiò sia per forza lavoro impiegata, 86 donne e 5 uomini, sia per quantità annuale di filato prodotto: 1.265,4 chili di seta grossa. Tutte le gallette filate appartenevano alla provincia ad eccezione di piccolissime quantità che venivano vendute in quella di Treviso. In media la lavorazione avveniva durante i mesi estivi e le giornate per ogni filanda oscillavano fra le 60 e le 70. Il salario di un capo assistente andava da 2 a 4 lire, a seconda se includeva o meno il vitto, quello di un assistente da 1,50 a 3 lire; la paga di un operaio andava da 1 lira a 2,50, quello di una «filiera» a 1,28 lire e di una «menaressa», addetta a girare la manovella dell’aspo, a 0,86 centesimi[210]. La maestranza proveniva dalla provincia e fra le donne impiegate si annoveravano 12 ragazze minori di 14 anni. Questi dati ci inducono ad aprire una breve parentesi sul fenomeno del lavoro minorile, che il Governo austriaco aveva cercato di regolamentare con il decreto del 7 dicembre 1843[211]. E’ proprio a qualche anno di distanza dall’emanazione di questo provvedimento che Bombardini, podestà di Bassano, inviò alla Cancelleria Aulica una relazione che ci consente di conoscere la condizione dei minori occupati nelle manifatture cittadine: «In questa città non vi sono grandi fabbriche e le poche manifatture in cui siano impiegati ragazzi lavoranti a prezzo non ne contengono forse più di 20 in complesso è nessuno minore di anni 12. Si dirà tuttavia che in queste fabbriche o manifatture d’ordinario il travaglio incomincia poco dopo il sorgere e finisce col tramonto del sole e solo nelle brevi giornate d’inverno e dopo conveniente riposo sulla sera in qualche fabbrica viene proseguito il lavoro nelle prime due o tre ore della notte. Che si suole d’ordinario concedere un’ora per la colazione e due per il pranzo e nelle lunghe giornate d’estate anche un’altra ora per il riposo o la merenda secondo la qualità del lavoro più o meno penoso, che non si usa ricevere nelle fabbriche giovanetti minori di 12 anni ed i più ne hanno 15 almeno, che non i proprietari delle fabbriche ma i genitori se conoscono l’importanza dell’obbligo proprio hanno cura dell’istruzione scolastica e religiosa dei giovani lavoranti i quali possono approfittare nei giorni festivi in cui ogni travaglio manuale è proibito; che d’altronde ammettendosi nelle fabbriche come lavoranti solo ragazzi di anni 12 almeno questi possono avere compiuto il corso elementare; quantunque a dire il varo l’infima classe del popolo sia poco sollecita di mandare i figli alle scuole d’onde aviene che questi assai di raro manchino di questa istruzione religiosa cui ricevono in chiesa nei giorni festivi ma bene spesso siano privi della pure utilissima istruzione letteraria elementare; che i giovani occupati nelle fabbriche come lavoranti sono trattati con umanità e dolcezza nè sono esposti a percosse e mali tratti, la qual cosa è indubitabile tanto più che non essendo obbligati a servire per un dato tempo come forse costuma presso altre Nazioni, se vengono maltrattati ricusano di ritornare al lavoro e i genitori li collocano altrove, e che finalmente non essendo malsane queste fabbriche e non essendo troppo faticoso il lavoro, le condizioni igieniche e la mortalità dei ragazzi in esse occupati non sono punto diverse da quelle dei giovani occupati altrove. Del resto le sapientissime discipline del decreto furono comunicate ai proprietari delle poche fabbriche esistenti in questa città ora se da un canto puossi assicurare che non vengono trascurate e violate dall’altro devesi soggiungere che non si poteva aspettarsene e non si è derivato alcune effetto appunto perchè qui e in tutta la provincia non regnarono i disordini e gli abusi a togliere i quali era diretta. Presso quelle nazioni in cui le manifatture sono la fonte principale della publica ricchezza, dove l’industria deve ricavare il maggior partito possibile e dove l’avidità del guadagno sacrifica ogni altro riguardo e trae profitto fin anco dalla miseria e dai vizi dell’infima classe del popolo, l’umanità dei governi è costretta a intervenire a tutela dei fanciulli. Ma qui almeno per ora tali abusi non si praticano, qui il popolo non è nè indolente nè misero a senso tale da permettere il sacrificio dei suoi figli; nè i padroni delle fabbriche sono liberi di appagare i loro capricci o tanto avidi e disumani da maltrattare i ragazzi lavoranti esigendo da loro un travaglio troppo aspro e pericoloso»[212]. Seta grossa veniva prodotta anche da filande di minori dimensioni rispetto a quella di Chemin, i cui proprietari, Luigi Colbacchini, Francesco Brocchi e Giovanni Jonoch, erano spesso imprenditori che avevano concentrato in altri settori l’attività principale, ma che dimostravano una certa propensione ad investire in un comparto che avrebbe consentito loro di ottenere un reddito a breve. Nel decennio dal 1837 al 1847 la produzione di seta greggia e di trame fece registrare complessivamente nel vicentino una crescita sensibile, aggirandosi fra i 140 ed i 170.000 chili. La vendita all’estero segnò un aumento costante mentre la produzione in loco subì una contrazione, segno questo che si vendettero più gallette che seta greggia o lavorata. Nel Lombardo Veneto in particolare subì un duro colpo la produzione delle sete reali, per poter sostenere la concorrenza degli altri stati italiani si fece quindi più pressante la richiesta di abolire, o almeno di ridurre, il dazio in uscita per la seta greggia, che ne ostacolava fortemente la commercializzazione all’estero, sia nelle piazze di Londra che di Lione. Il ribasso o l’abolizione vennero indicati come una panacea contro il contrabbando e quale incentivo per incoraggiare gli investimenti dei coltivatori[213]. La drammatica congiuntura degli anni Cinquanta costrinse il comparto serico ad una ristrutturazione, solo alcuni processi di trasformazione riuscirono a sopravvivere, mentre altri declinarono definitivamente. Soprattutto l’introduzione del vapore provocò la scomparsa della torcitura e un forte ridimensionamento della trattura. Nella provincia vicentina, fra il 1851 e il 1852, erano attivi dieci torcitoi, quattro di questi si trovavano nel distretto di Bassano[214]. La produzione di seta greggia subì una progressiva diminuzione passando dai 166.667 chili del 1847 ai 102.300 del 1854. I miglioramenti introdotti nella trattura dai filandieri permisero di ottenere un prodotto in grado di rivaleggiare con quello lombardo, soprattutto se prodotto dalle manifatture che avevano introdotto l’uso del vapore, metodo che, riscaldando il filo in maniera più uniforme, consentì di ottenere una produzione qualitativamente migliore. Inoltre l’impiego del metodo della “tavella”, garantì una migliore asciugatura del filo, che veniva avvolto su rotelle, ed una maggiore saldatura delle bave, si ottenne così un filo più unito e compatto ed un aumento della produttività. Nel distretto di Bassano, fra il 1854 ed il 1856, si registrarono diciotto filande, azionate da settanta caldaie funzionanti a metodo ordinario[215]. A causa della crisi pebrinica l’attenzione dei produttori si spostò dalle fasi iniziali della lavorazione a quella finale, cioè alla torcitura. Nel 1862 nel filatoio Crotta di Belvedere, una frazione del comune di Tezze, la lavorazione di trame e di organzini avvenne durante tutto l’anno, per dodici ore al giorno. La seta lavorata, 2.400 chili, proveniva dalla provincia e dai paesi limitrofi, la produzione annuale ammontò a 2.250 chili di trama e a 250 di organzino[216]. Dal 1863 al 1866 si verificò un decremento delle filande e un aumento del prezzo della seta greggia, se prima dell’atrofia questo si aggirava sulle 607,81 lire per miriagrammo nel 1866 ascese a 908,96, l’aumento è stato attribuito oltre che alla penuria del prodotto alle maggiori spese sostenute dagli allevatori dopo la malattia del filugello. Nel 1866 nel Regno d’Italia la trattura si esercitò in 4.092 filande, di queste 3.706 funzionarono a metodo ordinario e solo 386 furono azionate dal vapore. Nel Veneto queste furono ventiquattro su un numero complessivo di 1.319, segno che le loro dimensioni erano ancora ridotte e che era ancora diffusa la lavorazione a domicilio: per ottenere un chilo di seta greggia erano necessari 16 chili di bozzoli filati a metodo ordinario, al prezzo medio di 40 lire al chilo[217]. Nelle 224 filande della provincia di Vicenza, tutte funzionanti con 884 bacinelle a metodo ordinario, si produssero 650.000 chili di bozzoli dai quali se ne ricavarono 40.627 di seta greggia, la spesa in lire fu di 2.600.000 per i primi, mentre dalla vendita della seconda se ne ricavarono 3.250.160. Il distretto di Bassano occupò il quarto posto, fra gli otto della provincia di Vicenza, per la produzione ottenuta da ventuno filande funzionanti con novanta bacinelle a metodo ordinario, attive per tre mesi all’anno, non si era ancora passati alla fase continua del processo di produzione. Furono filati 66.000 chili di bozzoli dai quali se ne ricavarono 41.250 di seta grezza, per un costo di 264.000 lire per i primi ed un ricavato di 330.000 per la seconda. Alla fine degli anni Sessanta la bachicoltura segnò una lenta ripresa grazie ai molti sforzi posti in essere dai produttori.   

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)