Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’andamento di lungo periodo della popolazione va messo in rapporto in primo luogo con le condizioni dell’agricoltura bassanese e con la sua evoluzione nel corso dell’età moderna. Per quanto la vita economica di un centro urbano di età preindustriale potesse essere animata dallo sviluppo di un fiorente settore manifatturiero, il mantenimento di livelli di popolazione relativamente elevati comportava l’esigenza di garantire un approvvigionamento costante e sicuro di generi di prima necessità. Non si deve poi dimenticare come molte delle materie prime impiegate dalle manifatture urbane, la lana, la seta, il lino, la canapa, le pelli, erano prodotti dell’agricoltura e dell’allevamento, e che il legname, ed il carbone di legna che da esso si otteneva, erano le principali fonti di calore. La terra costituiva inoltre uno dei principali componenti dei patrimoni aristocratici e borghesi, era comunemente considerata la forma di investimento più solido e sicuro sul quale fondare la prosperità e la continuità nel tempo di una casata, quella che meglio si adattava alle esigenze di chi voleva dedicarsi senza troppe preoccupazioni alla vita pubblica, mantenendo uno stile di vita nobiliare. Sulla base di queste considerazioni si può comprendere l’importanza di ricostruire le condizioni dell’agricoltura nel bassanese, nel duplice aspetto della distribuzione della proprietà fondiaria e delle tecniche di coltivazione del suolo. È purtroppo impossibile delineare un quadro d’insieme della distribuzione della proprietà fondiaria nell’intero distretto bassanese, perchè per la zona mancano fonti simili agli estimi generali del vicentino e del trevigiano, in cui erano registrati sia gli immobili urbani che i terreni posti all’interno dei comuni del distretto. Dalle scarse notizie di cui si dispone sulle comunità sottoposte alla giurisdizione del podestà di Bassano si può ritenere che vi fossero enormi differenze nelle condizioni dell’agricoltura e negli assetti proprietari tra la zona pianeggiante formata dai comuni di Cartigliano e Rossano e da parte di quelli di Pove e Cassola, e la valle del Brenta, con le ville di S. Nazario, Primolano e Cismon. Mentre in pianura il bosco e l’incolto produttivo erano stati gradualmente eliminati nel corso del Quattrocento e del primo Cinquecento, nella vallata essi si estendevano sulla maggior parte del territorio e rappresentavano una risorsa fondamentale per la sopravvivenza delle popolazioni del luogo, ridotte a coltivare più spesso con la zappa che con l’aratro le piccole estensioni di terreno poste sul fondovalle. Gli estimi bassanesi, rinnovati a più riprese nel corso del Cinquecento, tengono conto solo degli immobili e dei terreni che si trovavano all’interno dei confini del comune urbano. Si tratta quindi di una fonte che non può essere utilizzata per ricostruire la distribuzione della ricchezza e della proprietà all’interno della società cittadina, perchè non prende in considerazione zone come Angarano nel vicentino e Mussolente nel trevigiano, dove i bassanesi detenevano una quota consistente della proprietà fondiaria e possedevano impianti produttivi, quali gualchiere da panni o torcitoi da seta. Si assiste così all’apparente paradosso di casate che svolsero per secoli un ruolo di primo piano nella vita politica e sociale bassanese, partecipando ai consigli cittadini e ricoprendo le cariche più importanti nell’amministrazione comunale, come i Ronzoni, i Bellavitis, i Da Romano o gli Stecchini, ma che stando agli estimi non risultavano possedere ampie estensioni di terreno all’interno del territorio urbano. L’estimo del 1604 registra una superficie complessiva di poco inferiore ai 13.800 campi bassanesi (pari a circa 5.700 ettari) e dispone di sommari che distinguono i beni posseduti dai diversi gruppi di contribuenti di abitanti del centro urbano, del territorio e veneziani[19]. A quest’epoca poco più della metà dei terreni apparteneva ai bassanesi, poco più di un quarto ai rurali dell’Università di Rosà - che, bisogna ricordare, era molto più estesa del comune attuale, comprendendo l’intero territorio di Bassano posto all’esterno della cinta murata e dei borghi - mentre la fonte assegna circa un quinto del totale ai patrizi e ai cittadini della capitale.TABELLA5Poichè i sommari dell’estimo del 1604 riportano anche il valore complessivo attribuito a questi beni, secondo le stime eseguite a fini fiscali, se ne può ricavare un’indicazione approssimativa sulla qualità dei terreni posseduti da ciascun gruppo di proprietari. In media i terreni dei bassanesi erano valutati 28,8 lire d’estimo al campo, solo poco di più rispetto a quelli posseduti dagli abitanti della Rosà, in stima per 28,7 lire d’estimo, mentre era nettamente superiore il valore assegnato alle proprietà dei veneziani, descritte nell’estimo sebbene la maggior parte di esse non fosse sottoposta alle imposte dirette locali, ma a quelle specifiche per gli abitanti della capitale. Le 32,7 lire d’estimo al campo attribuite in media ai beni dei veneziani rimandano alla maggiore disponibilità di diritti d’acqua, e quindi alle estensioni di prato e arativo irriguo, che i patrizi si erano accaparrati nel corso del Quattrocento e che avevano ulteriormente incrementato nel corso del secolo successivo con l’allargamento della rosta Rosà e lo scavo di nuove derivazioni dal Brenta. All’interno di ciascuno dei gruppi presi in considerazione dai sommari dell’estimo del 1604 - bassanesi, rurali e veneziani - la proprietà fondiaria si distribuiva in modo del tutto diverso. Pochi tra gli abitanti di Bassano possedevano più di una cinquantina di campi all’interno del territorio del loro comune e solo quattro superavano il centinaio. L’assenza di una grande proprietà cittadina faceva risaltare ancor più le dimensioni delle tenute dei principali possidenti veneziani. Dalle dichiarazioni presentate ai Dieci Savi alle decime di Rialto, la magistratura responsabile della ripartizione delle imposte dirette dovute da loro, si ricava che la maggior parte dei beni posseduti dagli abitanti della Serenissima era concentrata nelle mani di un numero ristretto di famiglie patrizie e cittadine. Radicalmente diversa si presentava la distribuzione della proprietà tra i rurali, caratterizzata da un’estrema frammentazione, al punto che gli 882 capifamiglia dell’Università di Rosà si dividevano poco più di un quarto dei terreni del bassanese. Ma nel 1601 ben 634 famiglie risultavano possedere beni per un imponibile inferiore alle 100 lire d’estimo, il valore di quattro campi di terreno di media qualità, una superficie inadeguata a far fronte al consumo di una famiglia anche in anni di buon raccolto[20]. Altra peculiarità degli assetti agrari bassanesi era la presenza di una consistente proprietà “forestiera”, che si concentrava nella parte meridionale del territorio, ai confini con le podesterie di Castelfranco e Cittadella. Si trattava per lo più dei possedimenti di famiglie nobili di origine padovana che si erano stabilite a Bassano al tempo della signoria carrarese. Parecchie di queste casate avevano svolto un ruolo di primo piano nella amministrazione del centro urbano nel corso del Quattrocento e del primo Cinquecento, ma in seguito si erano progressivamente estraniate dalla vita pubblica locale - o ne erano state messe ai margini - per rivolgere i loro interessi e le loro ambizioni verso le città di pianura, Padova o Treviso, dove avevano fissato la loro residenza principale. Nonostante ciò alcune di queste famiglie mantenevano la cittadinanza bassanese e quindi nell’estimo le loro proprietà erano incluse tra quelle degli abitanti del centro urbano. Dall’esame degli assetti agrari del territorio bassanese nei primi anni del Seicento si possono ricavare alcune considerazioni di carattere generale. La divisione dei beni posseduti dai cittadini, nel complesso oltre la metà dei terreni del bassanese, tra numerosi medi e piccoli proprietari, l’importante presenza di famiglie della nobiltà padovana e trevigiana non più integrate nel contesto locale e soprattutto l’elevata concentrazione della proprietà patrizia contribuivano a ridurre l’influenza che il notabilato del centro urbano poteva esercitare sulla popolazione del territorio, formata per la maggior parte da coltivatori diretti che lavoravano piccole estensioni di terreno parte di proprietà e parte in affitto. Una situazione, quindi, del tutto diversa da quella prevalente nelle campagne del Vicentino e del Veronese, dove la nobiltà cittadina e gli enti ecclesiastici e laici urbani controllavano la maggior parte, se non la totalità, delle risorse accessibili alla popolazione rurale ed esercitavano, sia direttamente che indirettamente attraverso i loro dipendenti ed aderenti, un forte condizionamento sulle scelte delle singole comunità[21]. Come nel resto d’Europa, anche nel bassanese del Cinquecento la crescita della popolazione portò ad un aumento della domanda di generi di prima necessità che ebbe l’effetto di spingere verso l’alto i prezzi agricoli, primi fra tutti quelli dei cereali, e con essi la rendita fondiaria[22]. Queste dinamiche, ben documentate dalle ricerche di Giuseppe Lombardini sugli acquisti e vendite del Fontico dei grani, trovano riscontro per quanto riguarda il valore dei terreni in una serie di stime raccolte all’inizio del Seicento[23]. Stando al materiale presentato nel corso delle trattative tra il Comune di Bassano e l’Università della Rosà sulla redazione dell’estimo del 1604, una superficie di due campi di media qualità veniva stimata a fini fiscali 30 ducati negli anni trenta e quaranta del Cinquecento, per aumentare di valore a 50 ducati nel periodo compreso a 1554 e 1566, quindi ad 80 ducati tra 1574 e 1590 e raggiungere infine la valutazione di 100 ducati all’inizio del Seicento, con un incremento superiore al triplo del livello iniziale[24]. Si può ben capire, quindi, la forte attrazione esercitata dagli investimenti fondiari su quei cittadini che avevano accumulato dei capitali con l’esercizio delle manifatture, del commercio, delle arti liberali o prestando denaro ad usura. Non bisogna inoltre dimenticare che gli immobili urbani e rurali, oltre ad assicurare un’entrata indipendente dagli alti e bassi della domanda di manufatti, potevano essere utilizzati dai mercanti come garanzia per ottenere credito a tassi di interesse moderati. Si spiega così l’aumento delle proprietà dei cittadini nei comuni del distretto, che già nella seconda metà del Quattrocento era fonte di lamentele da parte dei rurali, che denunciavano il calo delle entrate fiscali delle comunità in seguito agli acquisti compiuti dai bassanesi, che sino al 1460 godettero del privilegio di pagare le tasse nel centro urbano[25]. I terreni della pianura bassanese, grossolani e sassosi, sono molto permeabili e incapaci di trattenere a lungo l’umidità delle piogge. Neppure facendo ricorso all’irrigazione i proprietari riuscivano a compensare del tutto la scarsa fertilità dei suoli, dai quali ricavavano ben poco frumento, il cereale più pregiato e richiesto sui mercati urbani, e quantità decisamente superiori di segale, miglio, spelta, grano saraceno. Attraverso le dichiarazioni fiscali presentate dai proprietari veneziani alla magistratura dei Dieci Savi alle decime si può disporre di informazioni piuttosto dettagliate sulle condizioni dei terreni e sulla natura ed entità della rendita fondiaria. Comune a tutti i veneziani, grandi o piccoli proprietari che fossero, era l’insistenza sulla cattiva qualità dei suoli del bassanese. Gerolamo Novello definiva i nove campi che possedeva a Rosà «luoghi magri e giarosi, sottoposti a cattive acque», terreni dai quali non era possibile ricavare frumento, ma solo segale, miglio, sorgo, formenton e spelta[26]. Simile il giudizio di Biagio de Freschi sui trentadue campi «giarosi, cativi et mal videgati» di Rossano concessi a colonia parziaria per un terzo del raccolto di cereali e metà delle uve, che gli rendevano tre staia di frumento a fronte di venti staia di segale e trentadue staia tra miglio, sorgo e grano saraceno[27]. Il divario tra la produttività dei terreni del bassanese e quelli posti più a valle nella pianura risalta in modo chiaro facendo in confronto tra la rendita dichiarata dai patrizi Nicolò e Gerolamo Dolfin per i loro beni a Rosà e a Villa del Conte[28]. Mentre dai 480 campi posseduti nel territorio bassanese i patrizi ricavavano 70 staia di frumento e 300 di segale, i 164 del padovano davano 140 staia di frumento alla misura locale, oltre a 48 di ingranata (una mistura di frumento e segale). Tenuto conto delle diverse misure usate a Bassano e nel distretto padovano, si può calcolare che le entrate dei Dolfin raggiungessero 0,21 ettolitri di frumento e segale per ettaro nelle terre di Rosà e 0,33 ettolitri per ettaro in quelle di Villa del Conte. Per procedere ad un’analisi più approfondita dei rapporti agrari diffusi nel territorio bassanese dell’età moderna e per penetrare nel mondo sfuggente delle pratiche e degli usi agricoli bisogna abbandonare le fonti fiscali per rivolgersi ai contratti di conduzione che si conservano, sia pure in scarso numero, negli atti dei notai cittadini e rurali. In questi documenti è frequente trovare richiami impliciti, come l’obbligo «fare tutto ciò che spetta ad un buon agricoltore», a norme di carattere consuetudinario e ad usi locali, in alcuni casi specifici di zone ristrette del territorio quali «la usanza de quella contrada» cui faceva riferimento Giovanni Franzogia in un atto del 1560[29]. Com’era comune in questa tipologia di contratti, erano spesso famiglie composte da numerosi uomini adulti, in genere un padre e diversi figli, oppure più fratelli e nipoti, ad assumersi collettivamente l’obbligo di lavorare il terreno che veniva loro concesso in affitto o colonia dal proprietario. Talvolta l’esigenza di mantenere stabilmente un numero adeguato di lavoratori sul fondo veniva esplicitato con una clausola che fissava il requisito minimo che, in caso di inadempienza, avrebbe giustificato la rescissione del contratto e la cacciata degli affittuali (fig.5).

5ContesedellaComunita

5. Contese della Comunità di Bassano contro li daciari della seda.Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, 2. Bassano, vol.110, fasc. 2 .Il contadino aveva per esempio l’obbligo di conservare tini e botti, ripararle e lavarle prima della vendemmia e quindi consegnare al proprietario la parte a lui spettante del vino ottenuto.

Tra la metà del Cinquecento e la fine del Seicento i proprietari di terreni nel bassanese manifestarono una netta preferenza nei confronti dell’affitto a canone fisso in denaro per la conduzione di parcelle di piccole possessioni, mentre la colonia parziaria era la scelta più comune, ma non esclusiva, per estensioni di terreno superiori ad una quindicina di campi. Questi erano organizzati in possessioni, cioè in poderi dotati di casa colonica, di annessi e generalmente con una dotazione di prati per mantenere il bestiame da lavoro. Tra le colture la vite era, ancor più dei cereali, il principale prodotto dell’agricoltura bassanese. Non a caso il nobile trevigiano Giuseppe Orsenigo imponeva ai suoi coloni di consegnare il vino di parte padronale alla sua casa di Bassano o, in alternativa, di portarlo in riva al Brenta, perchè fosse imbarcato sulle zattere che l’avrebbero trasportato a Padova o a Venezia[30]. In tutti i contratti di conduzione reperiti nei protocolli dei notai bassanesi la suddivisione del raccolto della vite avveniva per parti eguali tra proprietario e coltivatore. Quest’ultimo aveva l’obbligo di conservare tini e botti, ripararle e lavarle prima della vendemmia e quindi consegnare al proprietario la parte a lui spettante del vino ottenuto, con l’eventuale aggiunta di una quota variabile dei diversi sottoprodotti della spremitura dell’uva. Particolare cura era riservata alle prescrizioni sulla coltivazione della vite: i conduttori dovevano aprire e chiudere ogni anno le piantate di vite sorrette da alberi che scandivano ad intervalli regolari i terreni seminati, zappare il terreno alla base delle piante e concimarlo, badando a non avvicinarsi troppo con l’aratro per non danneggiare le radici, e dovevano attendere la fine della vendemmia prima di potare gli alberi. Nei poderi era comune che una o più aiuole dell’orto fossero adibite a vivaio dove far attecchire i polloni della vite, detti rasoli, degli “orni” , frassini da trapiantare sui campi in sostituzione delle piantate troppo vecchie e non più produttive. Dalla lettura dei contratti si ricava che i seminativi erano sottoposti ad un regime triennale di rotazione delle colture, fondato sull’avvicendamento tra cereali a semina invernale (frumento e segale), a semina primaverile (miglio, sorgo, grano saraceno, spelta) e maggese. Alcuni patti contengono però degli accenni alla possibilità di sostituire in tutto o in parte il periodo di riposo dei campi con la semina di leguminose[31]. La divisione del prodotto tra proprietario e conduttore poteva variare tra un terzo e due quinti di quota padronale per il raccolto del frumento e della segale, mentre di regola due terzi dei cereali a semina primaverile restavano al coltivatore. In alcuni contratti riguardanti intere possessioni i proprietari introdussero l’obbligo di mantenere sul fondo un numero minimo di animali. Era indispensabile disporre di almeno una coppia di buoi per portare a termine le arature e gli altri lavori preparatori e successivi alla semina, mentre era meno frequente la presenza di altri capi bovini che, incrementando la produzione di stallatico, avrebbe contribuito a ricostituire la fertilità dei suoli. Per il mantenimento del bestiame grosso il proprietario concedeva, in genere a titolo gratuito e solo di rado dietro il pagamento di un modesto canone d’affitto, non superiore a qualche lira all’anno, alcuni campi di terreno adibiti a prato permanente ed esclusi dalle rotazioni. In aggiunta al foraggio ricavato dai due tagli annuali cui erano sottoposti questi prati, l’arziva e il mazadego, i conduttori potevano riservare una superficie di dimensioni relativamente ridotte, da un “largo” (lo spazio intercalare tra due piantate) ad uno o due campi, alla coltivazione di sorgo, veccia o più raramente erba medica, che avrebbe fornito agli animali un alimento più nutriente. In aggiunta a qualche maiale e agli animali da cortile, i poderi ospitavano un piccolo gregge di pecore, formato da qualche decina di animali, che avrebbero pascolato sul maggese e sulle stoppie, fornendo formaggio e carne e oltre alla lana che i contadini avrebbero provveduto a filare. La scarsa dotazione di bestiame ed il mancato inserimento dei prati nelle rotazioni rendevano indispensabile sfruttare al massimo la ridotta quantità di concime prodotta sul fondo. I contratti imponevano al conduttore di consumare all’interno del podere tutte le paglie e le stoppie raccolte, insieme ad ogni altro materiale che potesse essere utilizzato come lettiera, dalle erbe e dalle canne che crescevano lungo i fossi alle frasche degli alberi, vietando in modo categorico la loro asportazione. Il concime doveva essere riservato innanzitutto alle colture del soprassuolo, le più pregiate e soggette ad un più elevato prelievo padronale: così Baldissera Gentile, proprietario di un terreno posto a Pove, ordinava al suo conduttore di zappare e ledamare gli olivi prima di ogni altra pianta[32]. All’interno del podere trovavano spazio anche colture non alimentari. Era comune che le famiglie contadine adibissero piccole estensioni di terreno alla coltivazione del lino e della canapa per poi svolgere in casa le operazioni, la maceratura e la sfibratura, necessarie per ottenere il filato. Il prodotto che se ne ricavava non poteva in alcun modo competere con la pregiata canapa bolognese o del basso padovano di cui si serviva l’Arsenale di Venezia, e ancor meno con il lino finissimo delle tele fiamminghe, ma veniva tessuta a domicilio o facendo ricorso ad artigiani per ricavarne biancheria, tovaglie ed altri capi di abbigliamento o per la casa. Diverso il caso della lana ottenuta nel podere, che in genere non veniva tessuta in famiglia, in quanto la produzione dei panni richiedeva operazioni complesse, al di fuori dalla portata del singolo contadino. La foglia dei gelsi, necessaria per allevare i bachi da seta, era riservata al proprietario, ma si può ritenere che fosse oggetto di accordi separati, rinnovati di anno in anno, con i conduttori. Un esempio di questi patti, conservato negli atti del notaio Giulio Caffetto, mostra il cittadino bassanese Sebastiano Gosetti nell’atto di mettersi in società con i lavoratori delle sue terre, Giuseppe e Marco Busnardi di Casoni di Mussolente, per comperare il seme-bachi e condurre l’allevamento, dividendo a metà il raccolto dei bozzoli[33]. I contratti di conduzione prevedevano la consegna al proprietario di una varietà di prodotti a titolo di onoranza. Poteva talvolta trattarsi di quantità significative, il nobile Giulio Novello esigeva due corvè di trasporto sino alla sua dimora a Treviso, un maiale da 150 libbre, un agnello da 15 libbre, tre paia di polli ed altrettanti di capponi e galline, un paio d’anatre, un’oca, un secchio di vin santo e uno d’aceto, 11 libbre di pecorino, 110 uova[34]. Ma si trattava di un’eccezione, perchè nella maggior parte dei casi le richieste del padrone erano più modeste e non dovevano costituire un aggravio sostanziale al canone o alla quota padronale prevista dal contratto. Diversamente da quanto sarebbe accaduto nell’Ottocento, il conduttore non era tenuto a pagare un affitto per l’uso della casa colonica e le spese di riparazione degli immobili erano a carico del proprietario. Al conduttore poteva però essere chiesto di trasportare sul fondo il materiale che il proprietario avrebbe acquistato a questo scopo, mattoni, tegole, legname e calce. Ai contratti per la conduzione di piccole parcelle di terreno o di poderi, articolati in numerose clausole ricche di informazioni sulle pratiche agricole e sui doveri dei coltivatori, si contrappongono i patti di grande affittanza, dalla lettura dei quali risulta chiaro che il conduttore non si sarebbe dedicato di persona alla coltivazione dei terreni che gli venivano affidati. Questa forma di conduzione si adattava alle esigenze di proprietari che risiedevano lontano da Bassano e non avevano la possibilità, o la volontà, di trascorrere parecchi mesi in loco a sorvegliare l’operato di coloni e fittavoli. È il caso, ad esempio, del cittadino veneziano Camillo Formenti che nel 1589 affidava al vicentino Gerolamo Bozzato la gestione di tutti i suoi beni in Angarano, un complesso che comprendeva terreni arativi, vigne, prati, boschi, versanti di colline e aree ghiaiose in riva al Brenta insieme a numerosi immobili, tra cui una colombara e un mulino dotato di cinque ruote[35]. Il canone d’affitto in questo caso ammontava a 250 ducati all’anno, una somma fuori dalla portata di un semplice contadino. Il contratto con cui i patrizi Gerolamo e Nicolò Dolfin affittavano per cinque anni la maggior parte delle loro estese proprietà nel bassanese a Nicolò Compostella e Marco Cortellotto porta alla luce uno dei limiti dei rapporti di conduzione tipici delle campagne venete dell’età moderna[36]. Nelle clausole del contratto, che prevedeva la corresponsione di un canone fisso in natura, composto da vino, cereali e legumi, si fa riferimento a più riprese alla presenza sulle terre di lavoranti soggetti alla prestazione di onoranze e di obblighi di trasporto, segno che i due conduttori firmatari del contratto non avrebbero diretto in prima persona i lavori agricoli sulle terre dei Dolfin, ma si sarebbero limitati a controllare l’operato di coloni che occupavano i poderi in cui era divisa la grande tenuta, svolgendo un ruolo di intermediari tra il proprietario e gli agricoltori. L’esame della dichiarazione presentata dai Morosini ai Dieci Savi alle decime nel 1581 dimostra che anche in questo caso alla grande proprietà non corrispondeva la grande conduzione, al contrario gli estesi possedimenti dei patrizi erano divisi in poderi di dimensioni e con dotazioni non diverse da quelle che si ritrovavano nelle molto più piccole proprietà dei cittadini bassanesi[37]. Si trattava quindi di un assetto agrario che se rispondeva bene all’esigenza di accrescere la produzione dei prodotti del soprassuolo, vino, gelso e, ove possibile, olio, nel lungo periodo avrebbe finito per ostacolare gli investimenti e la crescita delle rese cerealicole. A differenza delle comunità della valle del Brenta, il territorio del comune di Bassano nel Cinquecento non comprendeva più estese superfici boscose. Alcune famiglie del centro urbano, come i Gardellini, erano coinvolti nello sfruttamento delle risorse della montagna, ma in questo campo era più importante il ruolo svolto dai patrizi veneziani e dai mercanti valligiani, in grado di fornire alle comunità dei capitali necessari a soccorrere i loro membri in tempo di carestia, strappando in cambio l’affitto a lungo termine dei diritti di sfruttamento di boschi e pascoli comuni. Bassano si limitava ad attingere al commercio del legname che si svolgeva lungo il Brenta per soddisfare le sue necessità di consumo, particolarmente significativi nel caso di manifatture come la fabbricazione di ceramiche, di calce e mattoni, per la tintura di panni e sete. Ad avere maggiori interessi nella valle del Brenta erano le famiglie cittadine originarie di quelle terre, quali i Sartori, i Carraro, i Perli e gli Scolari solo per elencarne alcune, che pur disponendo di un palazzo a Bassano mantenevano residenza e proprietà nei paesi in cui avevano costruito le basi delle loro fortune. Nel corso dell’intera età moderna gli assetti agrari del territorio bassanese non subirono radicali trasformazioni, a fianco delle grandi tenute patrizie e alla media possidenza formata in gran parte da cittadini continuò a sopravvivere, sia pure tra crescenti difficoltà, la piccola proprietà contadina. In seguito alla redazione dell’estimo del 1604, definito “perpetuo” perchè in base ad esso venne stabilita la quota di imposte spettanti rispettivamente all’Università della Rosà e al comune di Bassano, e si procedette alla separazione in campo fiscale delle due comunità, i passaggi di proprietà da rurali a cittadini vennero registrati in modo da poter adeguare la ripartizione del carico fiscale. Da allora diventa possibile seguire l’andamento della crescita della proprietà cittadina attraverso il saldo tra acquisti e vendite compiute dai contadini di Rosà. A questi ultimi era stato attribuito nel 1604 un imponibile complessivo di 294 lire d’estimo, che in una prima fase si ridusse rapidamente sino a toccare le 252 lire d’estimo nel 1617, con una perdita del 14%. In seguito la quota, o carato, dell’Università si stabilizzò a 244 lire 8 soldi e 6 denari d’estimo tra il 1652 e il 1680 e a 230 lire 6 soldi e 4 denari tra il 1681 e il 1730, con un allungamento degli intervalli tra i successivi aggiornamenti che è di per sè indicativo della minor pressione sulla piccola proprietà contadina nel periodo successivo alla peste del 1631. Che in questa fase l’erosione della proprietà contadina fosse avvenuta a ritmi relativamente lenti lo si ricava anche da un computo presentato nel corso di una causa tra Bassano e Rosà a fine Settecento, secondo il quale tra il 1669 e 1681 passarono di mano dai rurali ai cittadini 105 campi e 3 quarti, tra il 1682 e il 1700 183 campi e un quarto e tra il 1700 e il 1713, anni segnati da cattivi raccolti e carestie, altri 156 campi e due quarti. Perdite nel complesso consistenti, ma non tali da alterare in misura determinante la ripartizione della proprietà fondiaria attestata dall’estimo del 1604. Gli ultimi due secoli del dominio veneziano in Terraferma videro l’introduzione nell’agricoltura bassanese di importanti innovazioni. Il cambiamento di maggior portata fu senza dubbio la diffusione del mais, che nel Settecento si affermò come la principale coltura destinata all’alimentazione dei contadini e dei ceti popolari, soppiantando gli altri cereali usati in precedenza per la preparazione di farinate, quali il miglio, il sorgo e il grano saraceno. Prendendo il posto di queste piante all’interno del tradizionale ciclo delle rotazioni cerealicole, il mais si inserì nel sistema della colonia parziaria poderale prevalente nel territorio bassanese, garantendo da un lato un consistente aumento delle rese rispetto alle colture che andava a sostituire, dall’altro portando ad un peggioramento qualitativo nella dieta dei contadini le cui conseguenze si sarebbero manifestate appieno col dilagare della pellagra nel tardo Settecento e nell’Ottocento. Un'indagine condotta nel 1782 sul raccolto del territorio bassanese rileva la produzione di 49.711 staia di mais a fronte di sole 7.553 di sorgo, miglio e grano saraceno[38]. Documenta inoltre una forte crescita della produzione di frumento a fronte di quella della segale, 18.291 e 22.707 staia rispettivamente, quando invece a fine Cinquecento dalle dichiarazioni di decima dei proprietari veneziani risulta un rapporto tra i due cereali molto più squilibrato a favore del secondo. La tendenza a coltivare frumento anche su terreni che per le loro caratteristiche erano più adatti alla segale dovette proseguire negli ultimi anni della Repubblica e durante la prima dominazione austriaca ed il periodo napoleonico, perchè gli estensori degli atti preparatori del catasto austriaco per Bassano deplorarono l’insistenza dei proprietari bassanesi nell’imporre ai loro coloni la semina del cereale più pregiato, nonostante questo avesse rese molto basse[39]

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