Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Il governo provvisorio uscì così di scena. Tutti i suoi animatori e simpatizzanti tornarono alle occupazioni consuete, magari sotto la sorveglianza della polizia[104]. Diverso è il caso dell’ex presidente Luigi Caffo il quale, tornato a Bassano già ai primi di agosto, ben prima della fine dell’esperienza della Repubblica Veneta, attese l’arresto «senza dare per il suo contegno motivo ad alcun rimarco sfavorevole»[105]; come anche quello di Giuseppe Jacopo Ferrazzi che, per la sua adesione troppo manifesta e accesa, fu sospeso sia dall’insegnamento, sia dalla predicazione. Il palcoscenico della politica locale tornò ad essere così occupato dalla Congregazione municipale. Giuseppe Bombardini, ripresosi a malincuore la guida dell’Amministrazione, si trovò ad affrontare una situazione gravissima. Nei dintorni gli eventi bellici si erano chiusi ormai dal 16 giugno, con la capitolazione dei Comuni della Valle di Brenta, ma ancora ad ottobre la città continuava ad essere sotto occupazione militare, cavalleria e fanteria asburgiche ne avevano preso possesso. In questo contesto si registrarono i primi episodi di frizione tra militari e civili, anche a sfondo patriottico, con coccarde tricolori e scritte antiaustriache. Nonostante le timide proteste dell’amministrazione, il conte Montecuccoli, commissario plenipotenziario per il Lombardo-Veneto, pretese che le spese di mantenimento della truppa fossero a carico del Comune. In questo frangente, a rendere le circostanze se possibile ancora più difficili, intervenne il grave fatto di sangue del 7 gennaio 1849, che vide protagonisti guardie militari e giovani cittadini, con conseguenti arresti e richiesta alla città di un contributo di 30.000 lire, in aggiunta a quelle che già versava. A questo proposito il podestà scrisse: «Il 7 corrente mese rivolai a Bassano, dove trovai cavalleria e infanteria di sovraccarico giornaliero al comune e una deputazione ita a Padova e due ostaggi dei principali abitanti scortati dal comandante di piazza, tradotti in quella città ed ivi chiusi nel carcere militare, ecc… Aggiungasi che se non fossero illico sborsate lire 30.000 austriache, ogni giorno di ritardo formerebbe il castigo di lire 5.000 di più, e la congregazione municipale sarebbe stata richiamata a Padova, ecc…In tale frangente, io (…) come tutti i possidenti risolto allo stremo, non poteva far di più che dire a un amico: “Dammi lire 20.000 austriache. Sono nella stanza del podestà, ma il podestà non v’è: v’è Bombardini”. Con queste frasi ebbi le lire 20.000 che, congiunte ad altro fondo, vennero spedite a Padova, a redimere la povera città»[106]. Il pagamento di quanto chiesto e il ritorno a casa di Ambrogio Lugo[107] e degli altri notabili bassanesi posero fine all’increscioso episodio[108]. Il successivo omaggio al nuovo imperatore Francesco Giuseppe (fig.11),

11RitrattoFrancescoGiuseppe

11. Ritratto di Francesco Giuseppe. Giuseppe Bombardini si recò a Vienna per ricucire lo strappo causato dagli eventi rivoluzionari nei rapporti tra monarchia e amministrazione locale la quale restò nella maggioranza sostanzialmente legittimista.

reso da Bombardini nel corso di una visita a Vienna il primo agosto successivo, ricucì in qualche modo lo strappo causato dagli eventi rivoluzionari nei rapporti tra monarchia e amministrazione locale la quale restò nella maggioranza sostanzialmente legittimista[109]. La breve stagione del Quarantotto non era però trascorsa inutilmente. L’esperienza di autogoverno realizzata allora con un sostegno sociale più ampio, ma anche l’ostilità per la pesantezza e l’atteggiamento liberticida dell’occupazione militare austriaca fecero maturare un certo grado di simpatia, se non anche di adesione, per la causa liberale e nazionale in una parte della popolazione, la più giovane, la più istruita, liberi professionisti, medici, avvocati e ingegneri. Di estremo interesse il caso ad esempio del medico bassanese Giovanni Martinato perché potrebbe prefigurare quasi l’esistenza di una rete cospirativa nell’area bassanese. Egli, sospetto per essere stato «molto esaltato durante la rivoluzione»[110], fu arrestato nel 1853 a Cismon per aver espresso pubblicamente ostilità verso il Governo e condotto a Verona per subire il giudizio del tribunale militare. Egli fu in seguito rilasciato perché a suo carico non furono rinvenute prove sufficienti. La polizia però lo sapeva in relazione sospetta con due colleghi delle stesse sue idee, Alessandro Cappellari di Enego, nel ‘48 al comando dei locali crociati, e un tal Minotti di Grigno, in quello che era allora il Tirolo[111]. Questo episodio dimostra che le idee di rinnovamento attecchirono maggiormente negli ambiti urbani, dove era anche più avvertita la durezza dello stato d’assedio, intensificatasi dopo la svolta neoassolutistica del 1851, mentre in quelli rurali i tempi e le traiettorie del cambiamento furono più lunghi, anche a causa del forte dominio ancora esercitato dal ceto dirigente nobiliare sulla popolazione. Di qui anche le osservazioni dei delegati provinciali vicentini i quali rilevavano con una qualche soddisfazione, nei rapporti periodici alla Luogotenenza, come «in luoghi di campagna» fosse presente un «migliore spirito pubblico», cioè ci fosse un minor interesse per la politica rispetto alle città. Anche a Bassano si verificarono infatti nel corso degli anni Cinquanta, seppur in forma isolata, manifestazioni pubbliche di protesta, spesso in occasione di celebrazioni patriottiche o di importanti eventi nazionali e internazionali. Nel marzo del 1854, per ricordare la morte di Giulio Maello nello scontro di Fastro, fu fatta trovare sulla sua tomba un’iscrizione “rivoluzionaria”[112]; tra l’aprile e il maggio del 1856, essendosi sparse voci di un’imminente guerra con il Piemonte, vennero ritrovate coccarde tricolori e scritte sui muri dal contenuto antiaustriaco, mentre “canzoni antipolitiche” risuonarono tra le strette vie, con conseguente arresto dei sospettati[113]; nel 1858 si verificarono altri fermi per discorsi sovversivi e, per protesta contro l’aumento dei sigari Virginia, «si videro in buon numero fumatori di sigari a seguire la moda di altre città, fumando con pipe a forma di stivale ed altri con quelle dette chiozzotta»[114]. Si trattò di «dimostrazioncelle»[115], da considerarsi del tutto fisiologiche in un luogo di transito e d’incontro come Bassano, dove si svolgeva tre volte alla settimana un mercato tra i più affollati della provincia. Indici però di un dissenso che si stava diffondendo come osservò nello stesso 1858, in occasione del ritrovamento di una scritta anonima, il delegato provinciale Benedetto Barbaro: «E’ vero che un fatto isolato, non preceduto né susseguito da verun altro, né da qualsiasi altra dimostrazione può ritenersi il parto di una sola mente esaltata, ma d’altronde (…) la niuna cura dei cittadini per coadiuvare in ciò l’autorità medesima, onde possa forse avere un mezzo di scoprire l’autore (…) dimostra che se non s’applaude, s’approva»[116]. Altra forma di dissenso fu quella dell’emigrazione clandestina all’estero. L’esodo messo in atto dopo il ’48 da personalità politicamente compromesse con gli eventi rivoluzionari non interessò gli elementi del governo provvisorio bassanese. Mentre, in occasione della Seconda Guerra d’Indipendenza, anche degli elementi della gioventù bassanese attraversarono la frontiera per arruolarsi nell’esercito sardo o poi in quello garibaldino[117]. A questo proposito, il 18 agosto 1860, il delegato provinciale di Vicenza Giovanni Battista Ceschi comunicò alle autorità centrali veneziane che il fenomeno dell’espatrio, scemato negli ultimi tempi, aveva ripreso vigore, fomentato dalla spedizione dei Mille e, soprattutto, dagli emissari esteri che scorazzavano per il contado[118], mentre, per quanto riguardava l’area bassanese, dichiarò che, «liberata questa città, per forza di detta emigrazione, da buon numero di giovinastri oziosi malintenzionati e di sentimenti ostili al governo nostro, la tranquillità pubblica sarebbe meglio garantita»[119]. A questa misura estrema si fece ricorso anche per non incorrere nei rigori del servizio militare, soprattutto dopo che la nuova legge sulla coscrizione aveva privato i figli unici del diritto della posticipazione se non anche, e questa forse era la maggioranza della classe più popolare, per trovare quel lavoro che in patria non si riusciva a trovare[120]. Per impedire questa emorragia demografica il governo di Vienna introdusse nel 1860 la cosiddetta “tassa di supplenza” o tolse il titolo di nobiltà, e di conseguenza la titolarità sui propri beni, ai fuoriusciti di lunga durata[121]. Gli istituti di cultura, per il potenziale ruolo di diffusori di idee politicamente pericolose, soprattutto tra le fasce socialmente più alte della popolazione, furono sottoposti a particolare controllo da parte delle autorità. Si pensi al Gabinetto di lettura, chiuso il 23 agosto 1852 perché il governatore militare De Gorzkowski, lo considerava composto «di molti individui di principi esaltati ed avversi al legittimo ordine di cose, e perché mancante di sorvegliante politico»[122], anche se poi una commissione, appositamente nominata dal governo civile, ebbe modo di rilevare che nessuna delle pubblicazioni sequestrate fosse passibile di censura, se non la Enciclopedia popolare stampata a Torino, per il cui acquisto era necessario un permesso speciale. Stessa sorte sarebbe occorsa anche all’Ateneo, se la fama di legittimisti a tutto tondo di Giovanni Battista Baseggio fu Basilio (fig.12)

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12. Busto di Gian Battista Baseggio, gesso. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, S 117. Chiuso il 23 agosto 1852, il Gabinetto di Lettura per ragioni politiche, stessa sorte sarebbe occorsa anche all’Ateneo, se la fama di legittimista del Baseggio non avesse tacitato qualsiasi sospetto.

e di Giovanni Battista Roberti fu Tiberio non avessero tacitato qualsiasi sospetto[123]. Ad attirare l’attenzione della polizia su queste due istituzioni fu la figura di uno dei fondatori ed animatori, l’abate Giuseppe Jacopo Ferrazzi. Egli, amnistiato e reintegrato nelle funzioni dopo le traversie succedute al ‘48, anche per l’intervento dell’amico e maestro Zacaria Bricito, fu reputato nel 1852 dal commissario distrettuale di Bassano Pietro Reggiani nella cerchia dei «non pochi pentiti apparenti»[124]. Questa opinione non ebbe però conseguenze concrete perché egli continuò a svolgere la sua attività di professore presso il locale ginnasio, sotto la direzione del più volte ricordato Giuseppe Bombardini. Fu proprio nell’istituto diretto da uno dei più legittimisti e fedeli al governo della città che, ironia della sorte, si concentrò, e trovò modo di crescere e maturare, uno sparuto gruppo di religiosi che continuavano a coltivare un comune sentimento patriottico, liberaleggiante, più o meno scopertamente anti austriaco ancora nel corso degli anni Cinquanta, nonostante fosse nella maggioranza del clero sfumato ormai il mito di Pio IX capo spirituale della nazione[125]. A partire dalla fine degli anni Trenta, e quindi anche poi con l’inizio degli anni Quaranta, in concomitanza quasi con il trasferimento della sede a San Francesco, la classe insegnante dell’istituto fu rinnovata. Ad un primo nucleo formato da Ferrazzi, che insegnava umanità, dal già citato Ferracina, oltre che da Pietro Bonvicini e da Jacopo Gnoato, si aggiunsero, nelle aule del futuro ‘Giovanni Battista Brocchi’, anche Antonio Marini e Giovanni Battista Malucelli[126]. «La pattuglia di preti liberali» fu composta anche da Giovanni Pavan, pur esso religioso e insegnante, ma presso le scuole elementari maggiori maschili[127]. Già prima di Villafranca erano quindi attivi a Bassano, nel mondo dell’insegnamento, i futuri promotori della prima associazione politico culturale cittadina postunitaria, l’Unione Liberale, divenuta poi Società democratico-progressista: esperienze di grande rilievo per la città che portarono alla fondazione de «Il Brenta», giornale che partecipò attivamente ai primi anni del dibattito politico dell’Italia unita. Il loro nume tutelare fu Giuseppe Roberti, sacerdote e letterato bassanese, che aveva subito per due volte il carcere austriaco, nel 1844 e nel 1851, per le posizioni ostili al governo austriaco[128]. Posizioni che riemersero anche nel 1862, quando egli diede alle stampe il Lunario civile italiano[129](fig.13),

13GiuseppeRoberti

13. Giuseppe Roberti, Lunario civile italiano, 1862 Sacerdote e letterato bassanese, aveva subìto nel 1844 e nel 1851 il carcere austriaco per le posizioni ostili al governo austriaco e nel Lunario civile italiano, fece propria la linea contraria al potere temporale del Papa.

nel quale fece propria anche la linea contraria al potere temporale del Papa, questione questa divenuta di scottante attualità nel dibattito all’interno al cattolicesimo veneto dopo la pubblicazione degli scritti di Alessandro Schiavo e di Angelo Volpe, entrambi abati e predicatori. Roberti prese la loro parte, schierandosi a favore dell’ala liberale e conciliatorista dello schieramento cattolico, contro quello intransigente e legittimista che aveva tra i suoi rappresentanti anche il nuovo vescovo vicentino Modesto Farina. La raccolta di firme, promossa da quest’ultimo tra il clero diocesano per protestare contro lo scritto di Volpe, vide una netta prevalenza dei sottoscrittori. Tra i quindici che si rifiutarono di firmare la dichiarazione troviamo però alcuni componenti della ‘pattuglia’ bassanese, Giovanni Battista Malucelli, Giuseppe Jacopo Ferrazzi e Jacopo Gnoato. Giovanni Pavan, che pur l’aveva firmata, ma in ritardo, venne sospeso dall’insegnamento e per esservi riammesso dovette fare nell’ottobre del 1863 questa pubblica abiura: «Io non nego però, anzi schiettamente confesso, le mie esitanze nel sottoscrivere la protesta contro l’opuscolo del Volpe, impostami dal mio superiore ecclesiastico, e di averla sottoscritta solo dopo un lasso di tempo, per lo che, nel mio speciale incarico di direttore e catechista, non avrò potuto sfuggire una responsabilità e che per conseguenza ritengo non immeritato il biasimo inflittomi; io non nego che per avventura nel passato la mia condotta politica non sarà stata immune da una qualche censura, ma io ora me ne chiamo in colpa e mi fo a supplicare codesto ispettorato distrettuale onde voglia innalzare questa mia sommessissima replica all’illustrissimo e reverendissimo signor vescovo (…)»[130]. Il dissidio tra il vescovo e i preti liberaleggianti di Bassano assunse toni accesi, fino a sfociare quasi in una prova di forza[131]. Domenico Villa, l’arciprete bassanese, passato da tempo su posizioni vicine alla curia, tentò una mediazione probabilmente per ragioni di legame parentale[132], ma inutilmente perché Roberti, prima sospeso a divinis, fu indotto nel 1865, dopo ulteriori traversie, a emigrare in Lombardia. La condanna del liberalismo, avvenuta l’anno prima col Sillabo, aveva infatti fatto pendere l’ago della bilancia definitivamente dalla parte degli intransigenti. Anche don Pietro Bonvicini fece le spese di questo clima pesante, prima con uno sfregio infertogli in un caffè di Bassano da un deputato comunale di Rosà e poi con la sospensione, prima a divinis e poi dall’insegnamento[133]. A rinforzare l’organigramma del Ginnasio comunale, quale insegnante catechista supplente, venne chiamato dopo pochi mesi, don Andrea Scotton, il secondo dei tre fratelli simbolo del cattolicesimo intransigente vicentino, quasi un presagio della fine di una stagione e dell’aprirsi di un’altra[134]. Anche una parte del laicato liberal moderato si pose in contrasto con le autorità ecclesiastiche a causa dell’adesione a posizioni spiccatamente liberali e anti temporaliste. In quel clima di accesa contrapposizione, personalità come Giovanni Jonoch o Tiberio Roberti[135], animatori della Società di Mutuo Soccorso degli Artigiani, dedicata a San Giuseppe e ispirata ai migliori principi del mutualismo cristiano, furono considerati dall’arciprete Domenico Villa «contrari alla causa della cattolicità»[136] e, in consonanza con le autorità austriache, politicamente non adatte ad essere insegnanti della scuola serale che si stava per istituire. Anche a Bassano ebbero vasta eco le celebrazioni del sesto centenario della nascita di Dante. Nel corso della cerimonia, svoltasi all’Ateneo il 21 maggio 1865, tornarono protagonisti alcuni reduci del ’48. Valentino Berti lesse una poesia di Pasquale Antonibon e fu distribuita un’ode dell’abate Giovanni Battista Ferracina il quale, divenuto direttore del Ginnasio, presentò il poeta come il precursore dell’unità italiana. L’ulteriore guerra rischiava di risolversi in un nulla di fatto, come ebbe ad osservare il conte Giuseppe Roberti in una lettera inviata dieci giorni prima dell’armistizio di Cormons, il 13 agosto del 1866, all’omonimo abate che si trovava a Milano: «I nostri affari camminano così male da far temere che gli austriaci non vogliano più abbandonare il Veneto. E se non l’abbandonano volontariamente, saremo noi capaci di cacciarli? Non ho il coraggio di rispondere»[137]. Così, proprio quando il movimento liberale favorevole all’unificazione sembrava più debole, la monarchia si vide costretta da fattori esterni e da calcoli di politica estera a cedere il Veneto alla Francia. Il 7 novembre 1866, dopo il criticato referendum[138], Vittorio Emanuele fece il suo ingresso a Venezia, sancendo così in maniera ufficiale l’unione. Una rappresentanza di notabili bassanesi guidati dal podestà Francesco Compostella (fig.14)

14GiuseppeLorenzoni

14. Giuseppe Lorenzoni, Ritratto di Francesco Compostella, disegno per eliotipia. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, 87.F.3. Una rappresentanza di notabili bassanesi guidati dal podestà Francesco Compostella aveva presentato a Vittorio Emanuele II l’antica volontà della città di essere suddita della casa Savoia, espressa già col voto del 1848.

aveva reso omaggio al suo futuro monarca ben prima della cessione, il 4 agosto precedente a Padova, e gli avevano presentato un indirizzo nel quale la città rivendicava l’antica volontà di essere suddita della casa Savoia, espressa già col voto del 1848.

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