Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

In molte regioni dell’Italia centro-settentrionale, la dinamica politica sviluppatasi nel Trecento fu caratterizzata da una progressiva polarizzazione territoriale intorno ai centri urbani maggiori. In questo processo, si registrarono successi (in Lombardia e in Toscana, segnate irreversibilmente dall’egemonia milanese e fiorentina) e insuccessi (in Emilia col fallimento del progetto politico bolognese); ma la tendenza fu generalizzata[1]. Nel territorio della Marca Trevigiana i punti di riferimento furono evidentemente Padova e Verona, con Venezia che svolse un ruolo incisivo di reagente esterno, ma coinvolto in misura crescente nel processo politico in atto, in particolare a seguito della cruciale guerra contro gli Scaligeri del 1336-1339[2]. Lo schema “bipolare”, imperniato sulle due città, si era già venuto definendo, in buona sostanza, dopo la fine della dominazione ezzeliniana (e in realtà anche un signore eminentemente “rurale” come il da Romano, che pur aveva proprio nelle masnade delle campagne bassanesi – i «sui de Pedemonte» delle fonti cronistiche – una salda base del suo potere, non aveva potuto realizzare i suoi progetti senza un robusto rapporto con le società urbane, e innanzitutto con Verona). Nel sessantennio che la storia politica generale definisce «grande interregno» per la latenza dell’autorità imperiale (1250-1311), grazie anche alla sostanziale marginalizzazione degli Estensi (gravitanti sempre più su Ferrara) gli spazi egemonici di Padova e Verona, le due sedes regie della Marca, si erano venuti definendo con precisione via via maggiore. Le due città contavano d’altronde in quella congiuntura – all’apice dello sviluppo demografico italiano ed europeo – tra i 30 e i 35.000 abitanti (forse più del doppio di Vicenza, pomo della discordia; sicuramente il triplo di Treviso, il terzo e più marginale punto di riferimento nell’area regionale, e cinque o sei volte più di Belluno e Feltre). La dialettica continuò poi per larga parte del Trecento: sia nel trentennio dell’egemonia e del successivo ridimensionamento scaligero (1311-1339 ca.), sia nella successiva fase di preminenza di Padova carrarese. Le motivazioni e i fattori di questo processo furono molteplici. Da un lato, le grandi casate aristocratiche che nel secolo precedente, soprattutto sin al 1260 ma non solo, avevano fatto politica su spazi sovracittadini, sfruttando la rendita di posizione di chi controllava castelli e fortezze al confine tra due territori cittadini, iniziarono a gravitare su una ed una sola città. I Sambonifacio già nella seconda metà del Duecento, i Camposampiero e i Tempesta (signori di Noale e avvocati del vescovo di Treviso) a partire dagli anni Trenta del Trecento, videro inoltre ridurre il loro protagonismo ed entrarono in una crisi politica talvolta irreversibile. Altre famiglie signorili resistettero, ma furono costrette a emarginarsi dalla vita urbana, come accadde per i trevigiani conti di Collalto. Quelle sin qui citate sono famiglie titolari di signorie “zonali”, organizzate su più castelli. Quanto alle famiglie titolari di signorie “puntiformi” (un solo castello), furono spesso obbligate a trasferirsi in città (passando “dal castello al palazzo”) e a cercare spazio nella corte signorile dei da Carrara, o degli Scaligeri (peraltro più propensi, gli uni e gli altri, a dare spazio a parvenus e a immigrati, piuttosto che a famiglie dell’aristocrazia locale). Toscana a parte (ma solo la Toscana fiorentina, perché per la Toscana senese e montana il discorso è diverso), in nessuna regione dell’Italia centro-settentrionale, in ogni caso, la marginalizzazione dell’aristocrazia di castello fu nel Trecento tanto marcata come nel Veneto: non in Lombardia, non in Emilia, non in Piemonte[3]. Dall’altro lato, e contestualmente, questo rafforzamento dei poteri urbani generò a Verona e Padova (oltre che a Vicenza, soggetta per larga parte del Trecento [1311-1387] al dominio scaligero; diverso il caso di Treviso) un disciplinamento dei distretti cittadini e una gerarchizzazione politico-istituzionale tra città capoluogo e centri minori che ebbe pochi riscontri nell’Italia centro-settentrionale. Vicenza e Padova crearono nel corso del Trecento quei distretti cittadini relativamente ordinati e coesi, disciplinati intorno a podesterie e vicariati, che saranno poi ereditati dalla Repubblica Veneta ai primi del Quattrocento; e non troppo diverso è il caso di Verona. In questo ambito rientra anche l’assestamento istituzionale dei centri minori: sedi di podesteria o di vicariato, che faceva capo all’autorità cittadina, ovvero (nel caso del distretto trevigiano dopo il 1339) direttamente all’autorità della Dominante, cioè di Venezia. È in questo quadro segnato da forti presenze urbane che va inserita la parabola politica e istituzionale di Bassano nel Trecento: una Bassano che dal canto suo aveva metabolizzato, nei decenni precedenti (1260-1311), la profonda trasformazione indotta dalla scomparsa del “modello sociale” di età ezzeliniana. A prima vista, i ripetuti cambiamenti di dipendenza politica ai quali la cittadina posta sul Brenta va incontro lungo il secolo possono lasciar pensare a una vicenda particolarmente tormentata e problematica: Bassano fu soggetta al comune di Padova sino al 1320, poi agli Scaligeri dal 1321 al 1339, poi alla Padova dei Carraresi sino al 1387, infine alla dominazione viscontea (1387-1404). In realtà i periodi di guerra guerreggiata furono pochi, e la pressione che i poteri esterni esercitarono su Bassano si manifestò soprattutto sul piano fiscale. Dell’uno e dell’altro aspetto – guerre e fisco – si darà in ogni caso conto in queste pagine. Ma la “cifra” complessiva del Trecento bassanese appare comunque quella di una progressiva stabilizzazione. Le vicende politiche regionali sopra evocate perimetrarono uno spazio, all’interno del quale le gerarchie sociali si assestarono, in Bassano; e fu nel Trecento che taluni meccanismi istituzionali destinati a una lunghissima durata e già percepibili durante la prima soggezione a Padova (come le relazioni con le autorità politiche delle città “capitali”, mediate dalla figura del podestà o del rettore) si definirono. Bassano è insomma un borgo che costituisce “periferia” e “confine” per due formazioni politiche sovracittadine (come fu il caso degli Scaligeri, signori anche di Vicenza, sino al 1339) o che sovracittadine diventeranno, come fu il caso di Padova, per la politica ambiziosa e imperialistica che Francesco il Vecchio da un certo momento in poi porterà avanti. Ma sul versante interno è anche un borgo posto al centro di un suo pur circoscritto territorio, a vocazione (in questo periodo) quasi esclusivamente agricola, ed è anche un borgo che ebbe un suo ruolo (pur se certamente non grande) nello scacchiere commerciale veneto in conseguenza del controllo della via fluviale del Brenta. Di conseguenza, il comune è provvisto di pur modesti margini di autogoverno, attorno ai quali si struttura un “nuovo” ceto dirigente. Non mancano nel territorio dell’attuale Veneto centri semi-urbani dalle caratteristiche simili a quelle di Bassano, come Monselice o Montagnana nel distretto padovano, o su scala un po’ minore Legnago nel Veronese[4]: rispetto a Bassano peraltro esse risultano più organicamente inserite, e ab antiquo, in un territorio cittadino. Soltanto Conegliano Veneto, nella Marca trecentesca, tentò con convinzione anche superiore a quella di Bassano la strada dell’autonomia[5]. Il confronto tra queste due “quasi città” è legittimo, se si pone mente alle dimensioni demografiche e alla posizione strategica, nonostante che le vicende e l’evoluzione storica siano notevolmente differenti. Ma se nel XII-XIII secolo Conegliano aveva avuto a che fare con l’espansionismo del Comune di Treviso e lo aveva subito, manifestando peraltro talvolta velleità di autonomia (seppe cercare alleanze lontane, collegandosi con Padova; aspirò a diventare sede episcopale), nel corso del Trecento poté approfittare del disfacimento del dominio scaligero (1337) e della crisi politica del comune di Treviso, assoggettandosi precocemente a Venezia e organizzando un suo piccolo contado alla fin fine di dimensioni non irrilevanti. Ben diverso il contesto politico nel quale si mosse il comune di Bassano, che dovette fare i conti più da vicino con la capacità espansionistica delle due capitali della Marca, tanto più “forti” di Treviso. E solo alla fine del secolo, nel contesto politicamente più ampio della dominazione viscontea e poi veneziana, trovò uno spazio di manovra maggiore, conseguendo (e poi in età veneziana conservando) qualche margine di autonomia in più. In conseguenza di questa ipotesi interpretativa, abbiamo diviso nettamente (in modo un po’ forzato) questo saggio in due parti: da un lato, la narrazione delle vicende militari e stricto sensu politico-territoriali (rinviando alla cronologia storica posta all’inizio del volume per una intelaiatura di storia generale); dall’altro, l’esposizione (nei limiti concessi dalla documentazione esistente) dell’assetto istituzionale (organizzazione del Comune cittadino, rapporti con il territorio e le ville circostanti) e delle dinamiche economiche e sociali (l’affermazione di una “nuova” élite borghigiana, l’immigrazione e il ricambio sociale).

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