Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Si è accennato al “vuoto” lasciato nella società bassanese dalla scomparsa del ceto dirigente che aveva sostenuto Ezzelino III sino al 1259. Ma bastarono un paio di generazioni perché qualche famiglia si facesse luce, e provasse anzi a far politica con propri obiettivi, forzando la mano al comune locale, ponendo le basi di un prestigio che continuerà a consolidarsi lungo il Trecento. Ci limitiamo in questo paragrafo ad alcuni “medaglioni” familiari, costruiti sulla base della documentazione locale, da leggersi anche in riferimento al quadro politico complessivo proposto in questo volume dal saggio di Sante Bortolami e Federico Pigozzo. È il caso dei Blasi, discendenti di un Iohannes domini Blaxii documentato sin dal 1268; il padre di Giovanni era probabilmente un fornaio.[96] Giacomino e Clarello di Giovanni, coi nipoti Pietro, Perenzano e Martino, raggiunsero un notevole prestigio intorno agli anni Ottanta-Novanta e furono tra coloro che più di frequente prestarono denaro al comune.[97] Giacomino Blasi è costantemente indicato per primo nei consigli informali di maggiorenti che si occupano della spinosa questione delle investiture decimali da parte del vescovo di Vicenza; inoltre – grandigia tipica da casata rampante, in ascesa – coi nipoti Martino e Perenzano, figli del defunto Clarello, fonda nel 1308 l’ospedale e la chiesa di San Giovanni Battista, «extra portam a Leonibus, super viam per quam itur ad Campum Martium», di giuspatronato familiare ancorché cappella soggetta alla pieve di Santa Maria[98]. La politica attiva, del resto, era già entrata nel mirino dei Blasi: Perenzano fu per due volte (1301 e 1318) podestà a Belluno, circostanza che presuppone non banali legami politici esterni[99]. Non stupisce dunque che Cangrande I, seguendo uno schema applicato in molte città, cerchi il collegamento con la famiglia più ricca e più potente di Bassano e induca Perenzano a tradire la sua città (1319). Il tentativo fu sventato, e la repressione fu esemplare: Perenzano venne catturato l’anno successivo nel castello di Mussolente ove s’era rifugiato, e fu decapitato in piazza; il castello fu distrutto. Va osservato tuttavia che un secondo attacco contro le proprietà dei Blasi in Mussolente si svolse dopo che Bassano era passata sotto il dominio di Cangrande I della Scala: di conseguenza, la cattura e la decapitazione di Perenzano Blasi va inquadrata anche nella lotta senza quartiere in atto tra le famiglie bassanesi. Del resto, tra i principali protagonisti dell’episodio vi sono Bartolomeo Bovolini e Alberto Carezati, in quel momento capitani di Bassano per conto di Cangrande (e dunque titolari di un potere di comando con precisi risvolti militari); e allineati al nuovo signore sono gli Andolfi (Bovolino di Guido e Andolfo di Pace Andolfi), il giudice Guglielmo da Borgo e il maestro Castellano di Simone, il noto letterato. Lungi dunque dall’avere un significato ideologico, l’episodio ci riporta a quello spontaneo opportunismo che i ceti dirigenti delle città soggette adottano in occasione di un cambio di regime, e alla “punizione” dell’esponente di una casata che aveva tentato il colpaccio infrangendo la solidarietà di ceto (e aspirando forse a insignorirsi di Bassano?). Questa indimostrabile ipotesi è lecita perché l’unico a rimetterci davvero è Perenzano, in prima persona, pochi anni dopo (1323) alcuni Blasi appaiono nuovamente in sella,[100] stringono probabilmente un parentado matrimoniale con i Bovolini, e in generale restano a pieno titolo membri dell’élite dirigente, visto che Giacomo di Andrea Blasi è nominato per ben 9 volte tra i sapientes ad utilia del 1349-1350[101]. I Bovolini or ora citati – che alcune fonti menzionano attorno al 1320 come nobiles milites[102] – costituscono un esempio ulteriore di rapida affermazione sociale. Neppure la loro eminenza sociale derivava probabilmente da una tradizione di servizio vassallatico. Si tratta infatti in questo caso di immigrati, originari del Tesino: il capostipite Bovolino si autodefinisce qui fuit de Taxino et nunc habitat in Baxano. Commercianti e fornitori di vino al comune di Bassano, già nel secondo Duecento conoscevano la strada di Padova, ove si recarono per curare gli interessi del Comune di Bassano relativi all’incanto della tassa sulla macina dei grani[103]. Questa famiglia in seguito di provata fede carrarese, fu una delle più illustri della Bassano trecentesca. Donato Bovolini nel 1377 fece costruire perfino la tomba di famiglia nella cappella di San Giovanni Battista presso la chiesa di San Francesco, là dov’era il Crocifisso ligneo del Guariento, commissionato circa cinquant’anni prima da Maria di Giovanni Bovolini.[104](tav.15) La posizione sociale della casata risultò tuttavia indebolita per la sfortunata partecipazione dei suoi figli Taddeo e Donato alla congiura filocarrarese contro il dominio visconteo nel 1390. Anche gli Andolfi, discendenti dal fabbro Andolfo che prestò denaro al comune già nel 1250[105] (e suo figlio Pace in quell’anno era uno dei giurati comunali),[106] erano presenti in Bassano sin dal Duecento, ma il loro prestigio emerge soprattutto nel primo Trecento, in terza generazione, con il passaggio alle professioni liberali (un ascensore sociale che non manca mai): il giudice Andolfo del fu Pace Andolfi nel 1316 fu delegato dal comune di Bassano a trattare i patti con gli uomini di San Nazario e Solagna intenzionati a sottrarsi al controllo bassanese[107]. Nel 1322 e poi di nuovo nel 1335 un nipote di Andolfo, Bovolino domini Guidonis quondam domini Pacis de Andulfis (che con lo zio aveva preso parte all’attacco contro i Blasi a Mussolente[108]) ebbe come si è accennato l’onorifico incarico di prestare l’atto di fedeltà ai vescovi vicentini di turno,[109] sostituendo i Blasi[110]. La scelta politica di questa famiglia fu diversa, e in controtendenza con l’orientamento complessivo del ceto dirigente locale: i loro stretti legami con gli Scaligeri sono infatti indubbi. Bovolino Andolfi fu in relazione col notaio veronese Grandonio de la Colçerella, membro importante dell’entourage di Cangrande I, da cui ricevette un prestito a nome del Comune;[111] e sposò Guglielma figlia di Gerardo da Pederobba, un miles che con il sostegno del signore scaligero si era impossessato delle proprietà del monastero di Santa Croce di Campese, cercando poi alla morte di Gerardo di mantenere il possesso dei beni usurpati, con l’ovvia reazione del priore campesano (1336).[112] Anche se le argomentazioni ex silentio sono sempre pericolose, non si può fare a meno di notare che questa famiglia tanto attiva durante la dominazione scaligera non viene più menzionata nei documenti comunali di età posteriore: ad esempio, non ci sono Andolfi tra i sapientes del 1349-50. È possibile dunque che l’avvento dei Carraresi abbia emarginato una casata particolarmente compromessa. Forse gli Andolfi si trasferirono a Marostica (dove Gerardo da Pederobba aveva una casa): in quella che divenne più tardi, sotto il dominio di Cansignorio della Scala, una formidabile fortezza antibassanese (fu «in eminentiori loco ad spectaculum contra Baxianum» che nel 1373 furono impiccati i congiurati filocarraresi).[113] È certo comunque che la famiglia ricompare all’inizio del dominio visconteo, riprendendo d’incanto una posizione autorevole: Bartolomeo di Beraldo Andolfi, nel 1389, fu infatti uno degli otto saggi incaricati di riformare gli statuti.[114] I tre esempi sinora proposti riguardano affermazioni socio-politiche due-trecentesche, che hanno come punto di partenza attività artigianali e commerciali: e non è superfluo osservare che Blasi e Bovolini hanno a che fare con la produzione e commercio dei generi alimentari indispensabili per la sussistenza, in un centro la cui “bilancia alimentare” era come si è accennato strutturalmente squilibrata. Non mancano tuttavia famiglie che sanno attraversare tutto il Duecento, come i Compostella (de Compostellis). Essi compaiono già ai primi del secolo, e nel 1260 figurano con Tiso Compostella tra i primi che giurano fedeltà al comune di Vicenza[115]. Nella seconda metà del secolo l’agnazione è già molto ramificata,[116] e come conseguenza nel consiglio comunale del 1328 sono annoverati ben quattro Compostella: Federico quondam domini Nicolai de Compostellis, Rainerio, Alberto e ser Pietro. Non sappiamo da quale ramo provenisse l’Uliviero Compostella che nel 1408 aveva in concessione parte delle acque della Rosata e fu coinvolto nella lite per il loro controllo con il comune di Cittadella[117], ma è evidente che la famiglia era saldamente insediata nella Bassano trecentesca.[118] Potrebbe anzi non essere casuale la somiglianza dello stemma dei Compostella, i due leoni rampanti su un tino, con lo stemma del Comune bassanese: una scelta consapevole di “identificazione” con la città. Si sarà notato che in queste sintetiche schede prosopografiche non abbiamo usato i termini “aristocrazia” e “nobiltà”, limitandoci a una indicazione tra virgolette nel titolo del paragrafo. In effetti, abbiamo alcune indicazioni sullo stile di vita di queste famiglie, che nell’esercito bassanese combattevano a cavallo[119] e che erano in grado di esibire un blasone, come quello dei Bovolini, dipinto dal Guariento nella predella del Crocifisso oggi al Museo, attribuito al 1332[120](tav.15), o quello dei Trabucchi inserito nel muro della chiesa di San Francesco[121](fig.8).
A livello locale, la riconoscibilità sociale e il prestigio erano indubbi; si trattava davvero di quei viri probi et strenui, opere et sermone potentes ricordati negli atti con cui gli arcipreti di Bassano e di Angarano concessero loro l’investitura delle decime della chiesa bassanese, in dispregio dei diritti vantati dai “signori” Forzatè e Saraceni.[122] Ma sul punto specifico del riconoscimento formale di questa “nobiltà di fatto”, che si auto-definisce tale, è bene essere prudenti. Nessun bassanese infatti figura nelle liste (peraltro non numerose) di cavalieri, insigniti del cingolo militare da Scaligeri e Carraresi nelle curie cavalleresche celebrate in occasione di matrimoni o di vittorie in battaglia. 

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