Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Nella Bassano del Trecento, operatori economici attivi nei settori del commercio, e dell’artigianato più legati alla vita quotidiana erano sicuramente presenti, come è ovvio che sia in una comunità costituita da diverse centinaia di famiglie; lo lasciano intendere occasionali menzioni di magistri (falegnami, vasai, pellai...), che come si vedrà assai raramente tuttavia compaiono nella documentazione comunale. Di questi pochi cenni bisogna accontentarsi; le fonti non consentono di sapere di più di questi aspetti della vita economica di Bassano nel Trecento, perché cartulari notarili (strumento essenziale per comprendere cosa si muove nel profondo di un’economia e di una società) non esistono sino agli ultimissimi anni del secolo, e non esistono neppure archivi ecclesiastici significativi. L’impressione è che si tratti comunque di attività modeste, funzionali ai modesti bisogni della popolazione locale, e che l’economia bassanese sia rimasta ancora fondamentalmente legata all’agricoltura.[58] Possiamo farci un’idea dell’aspetto delle campagne bassanesi fra Due e Trecento grazie ad alcune fonti “panoramiche”, come l’inventario dei beni appartenuti a Ezzelino da Romano redatto dal comune di Vicenza nel 1262 (oltre 450 appezzamenti di terra) e l’Eventarium decimarum (fig. 5)

inv beni

5. Eventarium decimarum ecclesie Sancte Marie de Bassano (1302). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, vol. 13, fasc.5.Documento riguardante l’importanza e la ricchezza del patrimonio della pieve cittadina.

della chiesa di Santa Maria (1302),[59] confrontabile con un successivo documento del 1347, che elenca terreni che devono corrispondere la decima parte dei prodotti della terra. La campanea bassanese, che dai confini con Pove e Romano si estendeva lungo la sinistra del Brenta fino a Tezze, e ad est fino a Rossano, ci appare fortemente umanizzata e coltivata, percorsa da una fitta rete di troçi, calli e vie pubbliche. Il frazionamento fondiario è forte; nell’inventario delle terre della pieve, sopra citato, si parla quasi sempre di un campo. Vigne e arativi sono suddivisi tra un gran numero di piccoli conduttori residenti in Bassano o nei villaggi circostanti, che in parte possiedono i fondi in piena proprietà e in parte debbono corrispondere un censo livellario alla chiesa o ad altri possessori locali, nessuno dei quali peraltro ha posizioni egemoniche. É questa la lontana eredità lasciata, alla società bassanese, dall’esperienza ezzeliniana: un assetto socio-economico privo di gerarchie particolarmente marcate, anche dal punto di vista che qui specificamente interessa, ovvero la distribuzione della proprietà fondiaria. La storiografia agraria europea ha elaborato, con un certo grado di astrattezza, modelli di organizzazione dello spazio agrario circostante a un villaggio medievale che sono comunque utili: essi prevedono, a cerchi concentrici procedendo dall’interno verso l’esterno, spazi intensamente coltivati a orto o a vigna nelle immediate vicinanze dell’abitato, nella fascia intermedia gli arativi, e all’esterno gli incolti produttivi, consacrati allo sfruttamento collettivo. Nel caso di Bassano, ritroviamo gli elementi essenziali di questo schema. Nelle vicinanze della città si trovavano gli orti, occupanti prevalentemente l’area oltre la Porta dei Leoni e intorno alla Via Nova, e dunque nella fascia pianeggiante immediatamente contigua al rilievo sul quale sorgeva l’abitato. E dalle norme statutarie si ricava che vi si producevano legumi, cavoli e rape, zucche, porri, aglio e lo zafferano. Alla zona coltivata ad orti possiamo assimilare il Vignale, attentamente protetto da una specifica normativa promulgata nel 1356. È stato calcolato che nel 1302 le vigne fossero presenti nel 62% delle parcelle soggette allo ius decimationis della pieve di Santa Maria, con diffusione maggiore nei quartieri di Caserio e Roveredo.[60] Un consistente numero, 50 per l’esattezza, sono definite soltanto come tali; 86 sono invece quelle di uva che produce Groppello; una decina sono le vigne di viti nostrane e un po’ meno le vigne di Schiava. Ma la coltura della vite si insinuava dovunque, non solo nelle aree a coltura specializzata che costituivano il Vignale, ma anche ai margini degli arativi oppure intercalata ad essi. Quanto agli spazi incolti, a parte terre precarie nella loro stessa esistenza come le isole del Brenta[61], erano conservati a pascolo i terreni, in gran parte marginali, che si trovavano nella fascia più lontana dal centro abitato soprattutto lungo il Brenta («prata que sunt ab arcere inter confinia Cartiliani... usque ad ripam troçii Valorgii»; «ripa de S. Zeno de Brenta») e i confini con Cittadella («totum terrenum de vigris a granaria eundo versus mane usque ad callem Fosse, et versus meridiem usque ad Ongarescam»). Il comune ne aveva rivendicato in modo formale la proprietà subito dopo la fine del dominio ezzeliniano, come segnalano gli statuti, ma è ragionevole pensare che questi beni fossero stati utilizzati da sempre per l’uso comune. Nel breve periodo, non sono percepibili le conseguenze su questo stato di cose della costruzione della fossa Roxata, voluta come si è detto da Francesco il Vecchio da Carrara negli anni Sessanta del Trecento; e per alcuni decenni questi incolti restarono prevalente appannaggio dei pastori e degli allevatori bassanesi. Ma in progresso di tempo, a partire dalla fine del Trecento e durante il dominio veneziano, diventeranno interessanti per i cittadini più facoltosi, che potevano prenderle in affitto a canoni assai modesti e che rivaleggeranno per spartirseli ed appropriarsene. Uno sguardo più ravvicinato alla realtà agraria bassanese della seconda metà del Trecento ci è consentito dall’importante atto col quale nel 1364 il padovano Albertino di Giacomo Papafava, appartenente a un ramo cadetto dei Carraresi, vendette per 20.000 lire al veneziano Andriolo Badoer un grande patrimonio disseminato nei territori dominati da Padova.[62] I beni inventariati riguardanti Bassano, dislocati lungo la sponda sinistra del Brenta, ammontavano a 123 appezzamenti di terra (oltre a un cospicuo patrimonio immobiliare costituito da 43 edifici, tra i quali quattro mulini sul Brenta in località Grotte[63]). Il processo di formazione di questo complesso fondiario (che era piuttosto male in arnese; non sono poche le indicazioni di vigne o di alberi di sostegno alla vite incisi) non ci è noto; non appare probabile che esso si sia costituito nei 25 anni intercorsi dall’assoggettamento di Bassano a Padova mediante una capillare attività di rastrellamento e di investimenti della quale non resta alcuna traccia, e forse all’origine c’è una qualche confisca di beni scaligeri. Alcune caratteristiche, come l’estrema frammentazione (la superficie è quasi sempre di un campo bassanese, 4140 mq), non ci sorprendono, così come non sorprende l’incisiva presenza della vite (nel 20% degli appezzamenti, nonostante la collocazione non fosse favorevole dal punto di vista pedologico). La vite è coltivata alta, appoggiata a un sostegno vivo; si usa preferenzialmente il termine postilla («vinea cum postillis»), mentre agli inizi del Trecento prevaleva in alternativa il termine altanum. Nella fascia peri-urbana confinante con gli orti a sud, talvolta condividendone lo spazio, nonché nell’area del Margnano e lungo i confini con Pove era presente la coltura degli olivi, indicati nove volte nell’inventario Papafava; talvolta sono però menzionati come incisi, dal che si deduce che anch’essi avevano sofferto le ingiurie della guerra, soprattutto quelli collocati a sud di Bassano, «in contrata Vie Nove», e in quella dei Ziribelli (oggi nelle vicinanze dell’Istituto Cremona). Attestato nella zona sin dal 923 (quando nei beni del monastero vicentino dei SS. Felice e Fortunato si menziona un mons olivarum sito in Angarano), protetto con cura dagli statuti che prevedevano pene severe per chi danneggi queste piante, l’olivo è nel Bassanese ai margini del suo habitat naturale, e restò sempre una coltura di nicchia, destinata a scomparire quando nel Quattrocento Venezia cominciò a importare in Terraferma l’olio pugliese e istriano. Per giunta, dopo il 1339 la zona “vocata”, cioè Angarano, restò sotto il dominio scaligero ed è possibile che almeno in certi periodi i Bassanesi incontrassero difficoltà per sfruttare le proprietà oltre il fiume. Nell’inventario Papafava, è importante infine la menzione di un esteso castagneto: 20 campi «nemoris de castegnaria positi in pertinenciis Baxiani in valle Margnani». Negli statuti cittadini si parla espressamente di boschi dei castagni che si trovavano nel Margnano e a sud della città, appartenenti al Comune e oggetto di particolari cure, tra cui la sorveglianza effettuata con numerosi saltari (ed estesa ovviamente a tutte le altre colture legnose - alberi da frutta, frassini, pioppi); è un ulteriore elemento che rinvia alla possibile origine “politica” di questo patrimonio. Le colture arboree, in genere, erano numerose nella campagna bassanese. Abbiamo lasciato per ultima la cerealicoltura, che ovviamente è menzionata in modo ampio nell’inventario Papafava e anche nelle fonti relative al primo Trecento sopra utilizzate, nonché negli statuti; e che era praticata ovunque, non soltanto nella campagna posta a sud, ma anche nel Margnano, intorno a San Zeno e verso Romano. Si coltiva frumento, segale, orzo, sorgo, miglio e altri cereali minori; ma nelle terre Papafava non sono poche le terre arative dichiarate vacue e cinque garbe, ossia incolte, improduttive o lasciate a riposo. Questo insieme di dati avvalora un assioma incontrovertibile per chi ha studiato il paesaggio agrario bassanese: le coltivazioni cerealicole non sono quelle più diffuse, anche a causa della particolarità del terreno della sinistra Brenta, a tessitura essenzialmente sabbiosa, poggiato su alluvioni ghiaiose e privo di quelle risorgive che caratterizzavano invece l’area a sud di Cittadella[64]. Per giunta, il territorio bassanese è come si è detto piuttosto ristretto, quanto a superficie. Di conseguenza, e sia pur tenendo conto del fatto che la domanda di cereali (tipicamente “anelastica”) è funzione diretta dell’andamento demografico, la bilancia cerealicola bassanese è costantemente in deficit. Ne fa fede, in un momento di pressione demografica forte, un importante documento redatto nell’aprile 1328 (prima del raccolto estivo), quando il vicentino (di prestigiosa famiglia) Bugamante Proti vendette ai Bassanesi «de municione bladorum fienda in terra Baxiani» 375 staia di frumento, 378 di siligo (probabilmente segale), 362 di miglio, 96 di spelta (un tipo di farro), 96 di sorgo, per 810 lire e 15 soldi. Anche in epoche successive l’acquisto di cereali è prassi corrente per il comune di Bassano. In conclusione la bilancia annonario-commerciale bassanese scambia, nel Trecento, vino con grano. L’alcoolico liquido è infatti, con il legname (che da Bassano transita soltanto), il solo prodotto bassanese che le tariffe daziarie delle città vicine menzionino: indizio sicuro di una rilevanza del flusso. Nel 1352, per esempio, il Senato veneziano, regolando i dazi del territorio trevigiano recentemente conquistato e in particolare il commercio verso Feltre e le Alpi, stabilisce che «de vino autem de Baxano et alio vino forense conducendo per dictam clusam Queri solvantur solidi L pro plaustro de datio».[65] E mostra del resto una esatta percezione di queste caratteristiche strutturali dell’economia bassanese anche il notaio e cronista vicentino Ferreto Ferreti, che nel carme de Scaligerorum origine, scritto nel 1330 circa, ricorda che la cittadina e il suo territorio, lambiti dal Brenta (latus e rapax, cioè largo e dalla corrente vorticosa), sono «non ad Cereris, sed ad orgia Bacchi precipua»[66]

Questo sito usa cookies per il proprio funzionamento (leggi qui...)