Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Per affrontare organicamente una ricerca sulla vita politica di un territorio è assolutamente necessario avere chiaro il suo percorso di sviluppo, la sua “appartenenza”. Non è quindi concepibile un discorso su Bassano del Grappa senza definire la sua collocazione nel Veneto, ripercorrerne lo sviluppo sociale ed economico che ha portato la città alla sua condizione attuale. Nel 1984 Arnaldo Bagnasco teorizzava l’esistenza di una “terza Italia”[1]ovvero una zona di sviluppo periferico complementare al polo industriale del nord-ovest e al sud della penisola, teoria che rappresentò una sorpresa clamorosa nell’ambito degli studi economici e sociologici e diede vita ad un nuovo filone di indagine scientifica. La terza Italia non godeva di rapporti privilegiati con il Governo Centrale - come accadeva invece per le aree della grande industria - né tantomeno dei meccanismi di compensazione concessi al sud; si trattava insomma di una «Italia terza, cioè esclusa, emarginata e periferica» che «sembrava destinata ad un decadimento ineluttabile»[2]. Negli anni ‘70, invece, lo sviluppo di tali aree terze - le regioni cioè del Centro e Nord-Est - caratterizzate da un’economia di piccole imprese e di lavorazioni tradizionali che non richiedevano tanto grossi capitali quanto un notevole apporto di manodopera, dimostrava come tale struttura economica presentasse una maggiore tenuta ed elasticità nell’adattarsi alla congiuntura sfavorevole. Il Veneto che esce dalla Seconda Guerra Mondiale è gravato da un livello d’istruzione più basso della media nazionale, una popolazione occupata in un’agricoltura povera caratterizzata dalla mezzadria e da una presenza industriale assai modesta. Nell’arco di 30-40 anni la regione però raggiunge livelli di ricchezza superiori a quelli italiani medi e vicini a quelli delle regioni europee più avanzate[3]. Nell’analisi storiografica degli ultimi trent’anni l’idea di questa Terza Italia si riversa nel cosiddetto “modello veneto”[4], una sorta di industrializzazione “dolce” diffusa, favorita dall’azione amministrativa locale e da forze politiche dominanti in grado di pianificarla, nel caso Veneto la Democrazia Cristiana. Di parere assolutamente contrario lo storico Giorgio Roverato, il quale nega recisamente l’esistenza di un “modello” in quanto «l’idea di un “modello” spontaneo, che parte dal basso ed acquisisce autonoma visibilità in un contesto “altro”, è suggestiva, ed in parte ha una sua oggettività»” ma «“tale sviluppo dal basso non è stata una caratteristica solo veneta»[5] infatti «quella “fabbrica per ogni campanile” che fu lo slogan della Democrazia Cristiana regionale, e in definitiva alla base dell’ideologia del modello veneto, non fu caratteristica esclusiva della nostra regione, bensì dell’intera Terza Italia»[6]. Di fatto, quindi, nessuna “progettazione” politica, bensì un insieme di caratteristiche comuni e di congiunture. Questa affermazione però non tiene conto della programmazione predisposta nella nostra regione dal “Comitato regionale veneto per la programmazione” presieduto dal prof. Innocenzo Gasparini e delle iniziative della Regione, delle Province e dei Comuni. Anche se fu adottata dall’intera “Terza Italia”, non vuol dire che non sia stata predisposta. I sostenitori del “modello” hanno rilevato e documentato l’importanza che ebbero per lo sviluppo veneto due tipologie produttive: il polo tessile dell’Alto Vicentino e quello chimico-meccanico di Marghera-Venezia[7]. Negli ultimi anni, all’interno del più generale modello veneto, la ricerca storica sembra aver rilevato altri modelli specifici, una sorta di microstoria alla francese che, ricostruendo il percorso economico e sociopolitico di alcuni centri di sviluppo apparentemente minori, costituisce una sorta di “radice”, di atipicità specifica della regione[8]. Secondo Roverato il punto d’inizio sembra potersi collocare al di là dello sviluppo industriale del secondo dopoguerra, infatti fin dagli inizi del ‘900 il Veneto si collocò, in quanto ad indici di industrializzazione (numero di imprese, addetti, energia utilizzata), terza – anche se a parecchie lunghezze di distanza – rispetto a Lombardia e Piemonte. Posizione che poi mantenne per quasi tutto il secolo, accorciando via via il divario. Questo risultato del primo ‘900 era la somma da un lato della grande industria laniera emersa nell’alto vicentino, e dall’altro delle migliaia di piccole-piccolissime imprese che erano andate crescendo a partire dagli anni Ottanta dell’800 nell’asse centrale della regione, con la sola eccezione del Padovano che permaneva quasi esclusivamente agricolo[9]. Tale quadro fotografa la situazione prima della Guerra mondiale 1915/1918 e ci dà l’idea dei grandi progressi che la Regione ha fatto soprattutto negli anni Settanta, Ottanta e Novanta del secolo scorso. In tale contesto si vengono ad inserire la città di Bassano ed il suo territorio.

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