Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

L’organo sul quale si fondarono la politica e la forma delle istituzioni del bassanese durante tutta l’epoca veneziana fu il Consiglio, al cui interno si ordinavano le dinamiche politiche e i fili dell’amministrazione locale e dei rapporti con Venezia. Ad esso spettava un diretto controllo su tutti gli offici che dipendevano dal Comune e la scelta delle strategie politiche, finanziarie, economiche e fiscali del capoluogo e del distretto. La sua struttura era stata delineata in epoca viscontea e fu in seguito consolidata dagli Statuti che la Serenissima, all’inizio del Quattrocento, ratificò e confermò anche sotto questo aspetto. Il Consiglio era formato da 32 membri, otto per quartiere, scelti fra i cittadini bassanesi (per nascita o concessione) che potessero vantare proprietà immobiliari per almeno £ 100 di piccoli. Esso veniva rinnovato ad ogni inizio d’agosto e la scelta dei nuovi consiglieri era affidata, come negli altri centri medio-grandi dell’epoca, ad un complesso sistema di ballottaggi e votazioni di conferma[6]. All’interno del Consiglio veniva scelto un gruppo più ristretto, la cosiddetta Banca, che fungeva da esecutivo ed era composto da otto persone: due sindaci in carica per un anno, coadiuvati da due giudici e da quattro consoli, tutti in carica per un trimestre. Sia i sindaci che i giudici erano sottoposti ad ulteriori vincoli di censo e d’età: tutti dovevano possedere almeno £ 200 di piccoli in beni immobili ed inoltre i sindaci dovevano aver compiuto 30 anni, 24 i giudici. In questo modo ai vertici del potere, per i quali i sindaci fungevano da punti fissi, si avvicendavano ogni anno 24 persone, dando modo di realizzare un’ampia rotazione delle cariche all’interno del gruppo dei consiglieri[7]. Tuttavia questi processi di distribuzione degli officia non devono essere letti in direzione contraria rispetto al crescente processo di aristocratizzazione dei gruppi dirigenti in atto in quell’epoca nei centri minori veneti, già individuata negli studi di Ventura. Esso fu anzi presente, e andò rafforzandosi durante il secolo, anche a Bassano[8], in virtù di alcune contraddizioni di fondo a partire dalle modalità di scelta ed elezione dei membri del Consiglio. Se da una parte, al di là dei vincoli d’età e di censo, l’accesso al potere era in linea teorica aperto a tutti i cittadini, dall’altra l’assenza dell’obbligo di un periodo di vacanza dalle cariche (non previsto dalla legislazione) consentiva una continua rielezione degli stessi individui o famiglie. Inoltre durante le fasi di rinnovo erano i componenti dello stesso Consiglio uscente a scegliere gli otto uomini, una coppia per quartiere, ai quali spettava – insieme al rettore ed alla Banca – il compito di stilare l’elenco dei candidati alla nuova entrata in carica. In questo modo le strategie di fazione, o semplicemente rapporti sempre più stretti all’interno del gruppo oligarchico, portarono nel tempo a cristallizzare la composizione delle famiglie di potere sin dagli anni ‘40 del Quattrocento, se non legislativamente quantomeno di fatto, lasciando possibilità di accesso limitate agli emergenti o a chi nel frattempo era risultato escluso dai giochi di potere. Fu un processo che occupò gran parte della prima metà del secolo, con un certo ritardo rispetto ad altri centri della Terraferma veneta. Per tutto il Trecento ed ancora all’inizio del XV secolo la situazione restò infatti fluida[9] e movimentata dagli strascichi interni seguiti al periodo di scontro fra carraresi e veneziani, ma anche dal forte ricambio e rinnovo della società bassanese che una massiccia ondata immigratoria, in quegli stessi anni in atto sul territorio, portò con sé. Così se da un lato la composizione si fissò in quel momento centrale del secolo, dall’altro i primi accenni di concentrazione di potere in mano ad un gruppo ristretto si manifestarono sin dai primordi dell’epoca veneta: nel 1405, ad esempio, su sollecitazione di Giacomo Botton si tentò di restringere il numero dei consiglieri a 24; una disposizione confermata l’anno seguente[10]. Essa si accompagnò alla riduzione del numero dei sindaci ad uno, lasciando quindi il principale ruolo di governo nelle mani di un’unica persona[11]. Si trattava di un restringimento dei poteri importante e che le giustificazioni ufficiali di “scarsità di cittadini”, di uomini, riuscirono a mantenere in vigore solo per qualche decina d’anni. Queste prime derive di chiusura non erano ancora sufficientemente mature per avere successo e la spinta delle nuove famiglie in ascesa riportò nel tempo il numero di componenti consiliari alla normalità statutaria[12]. È interessante che questo momento coincida proprio con gli anni ‘40 e con la nuova composizione stabile del ceto dirigente[13], quasi a siglare che un ritorno alle consuete strutture di potere poteva avere atto solo all’interno di un gruppo definito ed ormai consolidato, quando la necessità di ulteriore sbarramento e controllo era venuta meno ed era tempo di tornare a giocare la partita fra fazioni delineate. All’amministrazione locale si affiancarono, con la formazione dello Stato di Terra, il ruolo ed il supporto delle istituzioni veneziane. Il primo stadio di gestione dello Stato veniva delineato all’interno delle magistrature centrali, dove la Serenissima scelse sin da subito una linea precisa nei confronti dei distretti annessi, probabilmente anche sotto il peso dell’inesperienza di governo su un territorio tanto vasto e legislativamente diverso: per mediare fra gli interessi politici, commerciali e fiscali della Dominante e le pretese autonomistiche, nei più vari settori, delle realtà soggette si adottò una politica volta a favorire ampi spazi di mediazione, una gestione pragmatica dei reciproci interessi, lasciando ampio spazio ai capoluoghi per tutte quelle materie che non entrassero in diretto contrasto con gli interessi realtini. Dall’analisi dei fondi delle magistrature veneziane emerge però con chiarezza la scarsa attenzione su iniziativa diretta riservata al bassanese all’interno della documentazione centrale durante il primo secolo di dominazione. Nei fondi del Senato l’iniziativa su Bassano si limita quasi esclusivamente a materie di routine o di conferma, mentre in quelli dell’Avogaria di Comun (la magistratura preposta al controllo ed alla definizione dei rappresentati veneti in Terraferma ed agli appelli in materia criminale)[14] traspare uno scarso ricorso da parte bassanese al giudizio veneziano per risolvere conflittualità interne. Sembra quindi che in questo periodo da parte veneziana e locale si cercò di trovare, ove possibile, in prima istanza una composizione a livello locale, per mezzo di arbitrati o fermando la propria azione a gradi più bassi di giudizio.   Questa scarsa attenzione del centro verso il Bassanese trovava diverse motivazioni: la condizione di Bassano restava nei fatti, nonostante l’autonomia amministrativa accordata, quella di un centro minore, con la presenza di un ceto dirigente più debole ed inesperto, in difficoltà nell’ostacolare gli interventi del rettore o le disposizioni veneziane su grandi materie comuni. Inoltre non va sottovalutata la scarsa conoscenza da parte veneta dell’organizzazione e delle strutture del territorio bassanese, vittima a volte persino di errori di giurisdizione all’interno della produzione delle magistrature centrali, tale che ancora nel 1440 troviamo il Consiglio costretto a far ribadire dai suoi ambasciatori l’autonomia distrettuale conseguita, sotto il rischio di essere erroneamente considerato parte del trevigiano non solo in materia fiscale[15]. L’intervento di Venezia sembrò allora trovare forma soprattutto come risposta a sollecitazioni del Comune bassanese, le quali ottenevano una risposta più soddisfacente ed efficace da parte di quelle che possono essere descritte come “magistrature centrali periferiche”, quali gli Auditori Novi e Sindaci di Terraferma. Si trattava di una magistratura creata nel 1410 e che fra i suoi compiti (oltre ad occuparsi di dirimere il terzo grado di giudizio nelle cause civili) aveva quello di esaminare gli appelli su provvedimenti, atti e sentenze dei podestà in materia di riscossione dei fitti, di pignoramento dei beni, di vendita di campi e circa le proprietà in genere. Per tutta la prima metà del Quattrocento fu lo stesso Senato ad investire gli Auditori Novi di ampi spazi d’intervento, poiché la loro presenza itinerante sul territorio ed una conoscenza diretta delle realtà locali li rendeva particolarmente efficaci in funzione di pacificazione e mediazione sociale, soprattutto nelle realtà minori come la nostra, dove meno strutturato era il sistema giudiziario e meno forte la tradizione giuridica[16]. Una tendenza che trova conferma anche a Bassano, dove in molte occasioni la loro attività si affiancò a quella del rettore su un ampio spettro di materie, che andarono dai privilegi fiscali e giurisdizionali alla regolamentazione dell’officio del rettore e dei suoi ufficiali, sino al giudizio sui conflitti fra Comune e distretto o fra Comune e podestà. Un ampio raggio operativo che torna, ad esempio, in un provvedimento del 1506 che spaziava dal miglioramento dei regolamenti del fondaco e della cancelleria, sino alle modalità di pignoramento, alla regolamentazione della presenza militare e ancora ai diritti degli ebrei residenti sul territorio[17]. In tutto questo gli Auditori potevano muoversi sfruttando anche quel grado di discrezionalità, utile alla mediazione, che veniva loro conferito dal ricorso all’arbitrium, dando loro modo di decidere di volta in volta come procedere, eventualmente per tentativi. In questa direzione può essere letto il loro affiancarsi ad altre magistrature centrali circa specifiche materie (ad esempio al Consiglio dei X o alla Quarantia in materia fiscale o di gestione dei boschi), in modo da limare e concordare più convenientemente l’interesse veneziano e quello locale su materie fondamentali[18]. Un ruolo di mediazione e governo sul territorio che veniva esercitato con maggiore forza dal rappresentante del potere veneziano a livello locale: il podestà e capitano. A Bassano un unico patrizio veneziano esercitava il doppio ruolo, riunendo su di sé tutti i compiti civili, penali e militari che nei centri maggiori si preferiva spartire fra due persone, facendone l’unica figura ponte fra l’amministrazione locale ed il governo in laguna. I suoi compiti venivano delineati da una parte dagli Statuti locali e dall’altra dalle disposizioni contenute all’interno del mandato del governo della Repubblica, per mezzo della commissione[19]. Soprattutto quest’ultimo documento rivestiva un ruolo di grande importanza, poiché in esso erano descritti i limiti e gli obblighi che Venezia assegnava al suo rappresentate sul capoluogo e sul distretto affidatigli. Il mandato podestarile fu fissato inizialmente in un anno, ma venne prolungato a 16 mesi a partire dal 1450[20]; compito del rettore era governare e custodire il territorio affidatogli con buona e diligente cura, secondo gli Statuti della terra, quindi secondo Dio, la giustizia e l’onore di Venezia. Questo incipit poneva già in evidenza uno dei punti di maggiore importanza del suo mandato, quello di conservare il diritto locale, ma anche di renderlo concorde con la maggiore flessibilità e pragmaticità che le esigenze imponevano, per mezzo di quella caratteristica politico-amministrativa prettamente veneziana che è l’arbitrium, ovvero la discrezionalità di giudizio da parte del rettore in base a criteri di buon senso, in casi di particolare complessità[21]. L’uso di questo strumento giuridico, sconosciuto allo ius commune, ma adatto ad un ceto dirigente digiuno di diritto come quello veneziano, consentiva di risolvere con maggiore flessibilità i problemi legati alle questioni individuali sottoposte al tribunale podestarile, ma era soprattutto, ed innanzitutto, efficace in materia politica. Nei capoluoghi maggiori la presenza pressante di un patriziato organizzato nelle forme di governo del territorio e di collegi di giuristi, oltre che di privilegi in materia giudiziaria (questi ultimi in particolare a Verona e Vicenza)[22] limitavano i margini d’azione e discrezionalità dei rettori, ma in realtà intermedie come quella bassanese l’esercizio dell’arbitrium podestarile nei fori o nel dibattito di governo poteva palesarsi con maggiore frequenza e nel pieno della sua dirompente forza.
Gli Statuti bassanesi[23] ribadivano per il rettore il compito di difendere la terra bassanese, custodendone la giurisdizione ed il diritto, in questo caso comprendendo anche una protezione verso l’amministrazione locale e le sue disposizioni. Suo compito era infatti anche di operare per trovare un accordo alle discordie sorte fra bassanesi e nella sostanza di cercare una composizione alle lotte insorte fra le diverse fazioni. Il suo peso politico a livello del distretto e del capoluogo era dunque un aspetto determinante della presenza podestarile e in alcuni casi poteva trascendere i normali limiti. Nel 1447-1448, ad esempio, il podestà e capitano Girolamo Zorzi travalicò i vincoli tradizionalmente accordatigli ed annullò l’elezione di quattro consiglieri, sostituendoli con altrettanti da lui confermati[24](fig. 2).

2-AttiDelConsiglio

2. Atti del Consiglio (26 novembre 1447 e 16 gennaio 1448). Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, 4. vol. 3, s.d., c.
Il documento attesta la scelta del podestà Girolamo Zorzi di sostituire membri del Consiglio.

Si trattò probabilmente, come fanno ipotizzare i nomi in gioco, dello strascico di una disputa fra fazioni scoppiata pesantemente quattro anni prima e degli ultimi assestamenti intorno alla “chiusura di fatto” del Consiglio; eventi nei quali lo Zorzi si era inserito. Ma non da solo, infatti al momento di annullare i primi eletti in Consiglio si trovavano presenti alla seduta numerosi rappresentanti del patriziato veneziano con interessi economici sul territorio, come i Morosini o i Sanudo. In quell’occasione intervennero poi anche le magistrature centrali, attraverso una ducale, per ripristinare lo status quo originario, ma l’avvenimento esemplifica come potessero essere influenti le commistioni di interesse politico-privato ed i legami fra fazioni e rettori, sino alle ingerenze dei casati nobiliari veneti che qui vantano interessi[25]. Un rapporto di scambio con ampi margini non formali quello fra l’inesperto e sufficientemente chiuso ceto dirigente bassanese ed i rettori, che rendeva il reciproco dialogo ancora più fondamentale e l’intervento del podestà e capitano più deciso e meno sindacabile.   

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