La figura certamente più sorprendente di questa generazione di bassanesi è però Giambattista Brocchi (fig.7),
senza dubbio uno dei massimi scienziati italiani del XIX secolo. Nato a Bassano nel 1772, quattordicenne, per volontà paterna e senza alcuna convinzione, si iscrisse a Legge all’Università di Padova, abbandonando i corsi nel 1791 per dedicarsi alle scienze naturali, sua primigenia passione[82]. Inoltre, secondo una prassi piuttosto comune presso gli intellettuali di fine XVIII secolo, negli anni giovanili si dedicò anche all’arte antica e alla letteratura: nel 1792 pubblicò Ricerche sopra la scultura presso gli Egiziani[83](fig.8),
ove, attratto dalle origini della scultura faraonica, si interrogava sul metodo per indagarle; nel 1797 uscirono le anonime Lettere sopra Dante a Miledi W.-Y.[84], che indagavano i canti ritenuti più significativi della Divina Commedia, commentandoli alla propria interlocutrice sulla base di criteri classicisti, di verità-verosimiglianza e misura, opponendosi a certo romanticismo sentimentalista che, secondo quanto affermava nella presentazione, impedisce di vedere le cose per come sono in realtà[85]. Fin dagli autori che egli citava alla nobildonna per dare credito alla propria interpretazione - per esempio, Milton, Dryden, Addison -, risaltano i due poli linguistici e culturali che, oltre all’Italia e al suo classicismo, gli saranno fondamentali per il lavoro scientifico: da una parte l’Inghilterra, dalla quale mutuò i tradizionali pragmatismo e sperimentalismo, nonché le istanze etiche, identificandole con la filosofia tout court e giungendo così al rifiuto dei “sistemi”, di qualunque natura fossero; dall’altra, la Francia rivoluzionaria, dalla quale gli derivò l’idea della necessità che l’intellettuale partecipasse alla vita politica, idea che del resto, insieme alla “vulgata” dell’illuminismo nostrano e d’oltralpe, circolava e veniva discussa ampiamente a Bassano, soprattutto in rapporto alla crisi politica della Serenissima[86]. Secondo l’indirizzo prevalente tra le alte classi venete, egli era distante tanto dai reazionari, quanto dai giacobini, opponendo a entrambi l’idea che la Repubblica andasse sì riformata, ma non distrutta e inglobata in altri organismi politici[87]. Quando Napoleone giunse nella cittadina e il generale Joubert offrì a Brocchi un posto al Comitato Sanitario (1797), egli accettò, poiché questo gli permetteva di dedicarsi alle scienze, tra le quali non aveva ancora scelto un ambito di specializzazione. A causa del trattato di Campoformio, l’engagement fu di breve durata, appena sei mesi: con l’annessione all’Austria, alla quale non risparmierà critiche anche pesanti, egli si recò a Brescia per insegnare scienze nel locale Liceo, spesso scrivendo al fratello Domenico, rimasto a Bassano, sulla grama vita dell’insegnante. Come nella città natale aveva frequentato l’abate Roberti, Giambattista Verci (che era suo zio) e Antonio Canova (nonché, a Padova, Cesarotti e Vallisneri), a Brescia frequentò i vari salotti, che allora ospitavano Foscolo, e si mise in contatto con gli ambienti illuministi e scientifici di Milano e di Brescia, conducendo ricerche e osservazioni sui fossili, sulle rocce e sulle specie vegetali e animali presenti nei gabinetti e nelle collezioni private delle due città lombarde[88]. La biblioteca personale di Brocchi, che fu poi donata per lascito testamentario alla città di Bassano, contiene i testi di scienze naturali all’epoca più aggiornati; tra gli altri, figurano testi di Linneo, Malpighi, Cuvier, Lamarck, Burnet, Woodward, Moro, Werner, Vallisneri, Spallanzani, Bonanni, Bonnet, Tournefort, Coock, Swammerdamm, Saint-Hilaire, Lemery, Buffon, Fontanelle, Dolomieu. Dalla lettura di questi autori, appartenenti a diverse tendenze, nonché dalle osservazioni condotte su flora e fauna, soprattutto di ambiente marino, Brocchi ebbe una prima conferma alla propria ipotesi nettunista[89] (nel tempo mitigata dal vulcanismo)[90] circa l’origine della vita, senza porsi però sul solco dell’illuminismo ateo: per quanto tiepido in fatto di religione, egli riteneva tuttavia che la storia della natura, come quella dell’individuo, si sviluppasse secondo leggi costanti e universali, che rispecchiavano la volontà divina[91]. A partire dal 1798 egli poté condurre i propri studi sul campo, uscendo dalle aule del Liceo bresciano: col passaggio della città sotto il dominio austriaco, gli fu offerto infatti il posto di ispettore alle miniere, su mandato imperiale[92]. Un incarico accettato malgrado le numerose riserve sul governo asburgico, essendo nel frattempo giunto, a causa degli scossoni politici degli ultimi anni, a una concezione di completa autonomia della scienza rispetto al politico. Continuando a riempire le pagine del suo Zibaldone di storia naturale[93](fig.9)
(iniziato due anni prima e tuttora inedito), e dedicandosi nel contempo al Trattato anatomico sugli occhi degli insetti[94](fig.10)
(1799, anche questo inedito), per anni egli viaggiò, scavò, osservò, riportò dati sui minerali e sui fossili trovati nelle vallate bresciane e trentine, dando poi alle stampe il Trattato mineralogico e chimico sulle miniere di ferro del dipartimento del Mella con l’esposizione della costituzione fisica delle montagne metallifere della Val Trompia[95] (1808), e la Memoria mineralogica sulla Valle di Fassa in Tirolo[96] (1811), che, insieme al Giornale di viaggio[97] del 1811-1812, sono alla base della Conchiologia fossile subappennina con osservazioni geologiche sugli Appennini e sul suolo adiacente[98](fig.11),
la sua opera maggiore, in due tomi, pubblicata nella Milano del 1814, pochi mesi prima del passaggio dal Regno d’Italia al Lombardo-Veneto. Da par suo, nella Conchiologia, partendo dall’osservazione e dalla descrizione dei terreni, degli strati rocciosi e delle conchiglie fossili rinvenute, l’autore confuta il fissismo delle specie abbracciato in gioventù, sulla base della constatazione che certe specie di conchiglie fino ad allora sconosciute, nonché ossa di cetacei e zanne di mammut si trovavano negli strati primitivi del terreno solo fino a una certa altezza; negli strati successivi, se non se ne perdeva subito ogni traccia, le si poteva rinvenire in forme sempre più piccole, fino alla sparizione. Il naturalista ipotizzò quindi la teoria del «perdimento della specie», premessa necessaria a quella dell’evoluzione della specie, formulata nel 1859 e ritenuta da Pancaldi[99], per il tramite di Lyell, una fonte non citata delle conclusioni di Charles Darwin. Dopo il licenziamento dall’incarico di ispettore, che gli fu comunicato nel 1816 mentre faceva degli scavi a Roma e che fu causato dallo scioglimento del Consiglio delle Miniere[100], egli continuò a collaborare con la «Biblioteca Italiana» di Monti, Giordani e Acerbi e rimase membro dell’Istituto di Scienze, Lettere ed Arti, godendo presso entrambe le istituzioni della stima di molte persone, che gli permisero di pubblicare articoli, ma anche di continuare i propri viaggi di studio nell’Italia centrale e meridionale, in particolare per lo studio dei vulcani marini. Dal 1818 al 1821, infatti, egli si recò ancora a Roma; lì, pur visitando le vestigia del tempo e trascrivendo molte epigrafi (Labus fa sapere che Brocchi gli aveva inviato un quaderno con 114 iscrizioni[101]), egli osservò la Città Eterna cercando di capire cosa le stesse sotto, quali fossero i diversi strati di roccia e gli sconvolgimenti geologici che li originarono. Nel 1821, tanto per la grave crisi economica causata dal fratello (che lo costrinse a vendere la collezione di rocce e di minerali), quanto per la forte curiosità di vedere dal vivo quelle sculture e architetture su cui aveva discettato da giovane, Brocchi accettò un incarico dal viceré d’Egitto, Mehmet Ali ii, che voleva ingaggiarlo per alcune spedizioni nel sud del paese, alla ricerca di giacimenti di metalli e di pietre preziose; mediatore del contratto fu Giuseppe Forni, da tempo al servizio del viceré. Nell’anno intercorso tra il momento dell’accordo e la partenza, nel settembre 1822, Brocchi lesse sull’Egitto, sulla sua storia e sulla sua arte quanti più libri gli fosse possibile, per tentare di capire a fondo un paese che, presumeva, avrebbe lasciato dopo alcuni anni di esplorazioni e resoconti. Si tenne aggiornato sull’opera di decifrazione dei geroglifici che, allora, andavano compiendo tanto Champollion, quanto i suoi avversari; inoltre, si adoprò a imparare l’arabo (letterario), per limitare il ricorso agli interpreti[102]. L’impatto con Alessandria, ove arrivò nel mese di novembre, fu piuttosto pesante, come anche quello col resto d’Egitto: spogliatosi in fretta della giovanile ammirazione per il periodo faraonico, di cui avvertiva tutta la lontananza, il naturalista, ormai cinquantenne, cercò la città ellenistica, romana e cristiana sulla scorta degli autori classici e protocristiani, riportando e traducendo epigrafi nel proprio Giornale delle osservazioni[103](fig.12)
che, nei viaggi compiuti nei quattro anni successivi, arriverà a constare di cinque volumi. Le osservazioni investiranno tutto ciò che Brocchi vedeva o si trovava a vivere: dal resoconto dell’escursione termica e del clima del deserto, alle difficoltà del corpo di adattarvisi; dalla libertà dei popoli del deserto, alla schiavitù delle popolazioni nere e di quelle egizie sotto un governo dispotico, fino alla discriminazione della donna, lo scienziato non tace nulla, dice tutto con lucidità e senza lasciarsi prendere dall’esotismo. Al ritorno dal viaggio nel deserto, il cui resoconto occuperà due diari e un anno, si recò in Medio Oriente, visitando la Siria, il Libano e la Palestina e restituendone un quadro piuttosto vivace, anche linguistico. Rientrato al Cairo, gli fu proposto di spingersi fin nelle profondità della Nubia, per risalire il Nilo alla ricerca di altre miniere. Il 23 settembre 1826, mentre si trovava a Karthoum e proseguiva le sue annotazioni col quinto volume del diario (di 775 pagine), un attacco di febbre lo stroncò all’improvviso, facendolo morire a cinquantaquattro anni. Sarà l’inglese Lord Prudoe a dare disposizioni affinché lo scienziato ricevesse degna sepoltura; tuttavia, della sua tomba si è ben presto persa ogni traccia[104]. I suoi bagagli e i diari dall’Oriente tornarono a Trieste, donde era partito quattro anni prima, ma il ritardo col quale il fratello li fece recuperare causò la perdita di molto materiale; i manoscritti giunti a Bassano, insieme alla sua biblioteca personale, costituirono il Fondo che, di fatto, diede origine alla Biblioteca e al Museo della sua città natale[105].