Gian Maria Varanini

Maria Albina Federico

Giampietro Berti

Giuliana Ericani

Renata Del Sal

Donata M. Grandesso

Maria Luigia De Gregorio Giovanni Marcadella

Giambattista Vinco da Sesso

Giambattista Vinco da Sesso

Alessandra Magro

Carlo Presotto

Franco Scarmoncin e Lucia Verenini

Renzo Stevan e Eugenio Rigoni

Bassano, come molti altri centri urbani della terraferma veneta, fu sede di un monte di pietà, tipica istituzione dell’età moderna, preposta a un’attività creditizia rivolta specialmente, anche se non in modo esclusivo, alla popolazione meno abbiente del territorio di riferimento.[1] Oltre quella strettamente creditizia, il monte svolgeva diverse altre uffici, tra i quali un ruolo davvero strategico di natura assistenziale. Semplificando, il suo funzionamento era assai simile a quello di un odierno istituto di credito che, da una parte, raccoglie risorse, e dall’altra poi, le dà a credito, riservandosi la possibilità di scegliere a chi eventualmente devolvere gli utili maturati grazie all’attività bancaria in un contesto generale di riferimento di utilità sociale.[2] Considerando il caso specifico del monte bassanese, va osservato che la documentazione archivistica disponibile consente solo molto parzialmente di analizzarne la storia. Risulta difficile conoscere la consistenza degli utili prodotti dall’istituto e questo impedisce di indagare a fondo la politica sociale perseguita dal Monte, che molto potrebbe dire delle scelte più qualificanti operate dal consiglio dell’ente. La contabilità dei sopravanzi maturati da ciascun massaro è indisponibile. In più, gli stessi bilanci annuali d’esercizio sono inaccessibili e questo contrasta con la più che naturale curiosità di poter valutare i risultati economici ottenuti dal Monte, in un arco temporale definito. I giornali di cassa e i quaderni ancora analizzabili sono proprio pochi. Sopravvivono, invece, un’ampia documentazione riguardante le innumerevoli liti tra il Monte, istituzioni e persone fisiche, regolamenti e altra documentazione assai frammentaria. Le carte disponibili sono il frutto di un intervento di riordino postumo, con ogni probabilità operato per ragioni giudiziarie, che ha tenuto in nessun conto l’opportunità di conservare almeno le serie archivistiche più importanti, procedendo invece a un’intensa attività di scarto. Dopo che anche a Bassano, grazie soprattutto alla predicazione di Bernardino da Feltre, la decisione fu presa di istituire un monte di pietà, la questione assolutamente preliminare fu dotare l’ente di un capitale sufficiente per l’avvio dell’attività.[3] Questa preliminare operazione di raccolta rese noto l’interesse collettivo di promuovere l’erezione di un’istituzione in grado sia di contrastare, sul piano della concorrenza, la tradizionale attività feneratizia degli ebrei, sia di operare nella comunità cittadina come un vero e proprio ammortizzatore sociale. A Bassano, come altrove, il Monte partì grazie a una serie di donazioni, non sulla base di depositi che per loro natura non avrebbero potuto costituire il capitale necessario per poter avviare l’attività. Di quest’atto fondativo si conserva traccia in diversi elenchi di oblatori dai quali si evince una buona risposta collettiva all’iniziativa. Il 29 giugno 1492 si registrarono oblazioni rilevanti. Tre donne sposate donarono ciascuna un oggetto d’oro, senza che a questi si attribuisse un valore monetario, altre due donne coniugate oggetti d’argento, altri o un ducato d’oro o monete d’argento. Offerte di generi dovevano essere conservate presso il fondaco della comunità e contabilizzate in un libro separato da quello per la contabilità ordinaria dell’ente. Ulteriori offerte in natura arricchirono il capitale del Monte, che raccolse anche offerte in denaro: 62 lire furono donate da Tommaso Viaro, il podestà della città, mentre somme assai più basse furono offerte da cittadini che, mediamente, misero sul piatto da 3 a 6 lire ciascuno. Più consistente fu l’apporto della confraternita di S. Maria della Misericordia, che si attestò a 21 lire[4](fig.1).

1-ElencoOblatori

1. Elenco oblatori. Bassano del Grappa, Museo Biblioteca Archivio, Archivio Comunale, 2 Bassano, b. 7, fasc. 2.
Il documento del monte di pietà del 1492 attesta numerosi donatori.

Seguendo l’ordine cronologico della raccolta, la lista seguente è del 27 ottobre 1493 e, come nella precedente, offerte in denaro si accompagnarono a donazioni in natura. Ormai il monte aveva ottenuto il via libera anche a Venezia e il doge Agostino Barbarigo, il 10 agosto, ne aveva approvato lo statuto. Delle oblazioni del 29 giugno 1492 esiste un’ulteriore lista, la più importante, giacché vi sono registrate offerte davvero significative. Duecento ducati furono messi a disposizione dalla città di Bassano, 180 e 160 lire dalle comunità di Rossano e di Valstagna, Oliero e Campolongo. Si trattava di promesse di offerta, ma che certo dovettero aumentare considerevolmente la fiducia pubblica nella riuscita dell’iniziativa. Nella medesima lista molti cittadini si impegnarono a versare sei lire ciascuno, oltre a oggetti diversi, preziosi e non, anche mezzo mastello di vino. Ancora con riferimento al 29 giugno, in due diversi elenchi, altri soggetti furono registrati, alcuni dei quali successivamente cancellati, verosimilmente perché inadempienti, i rimanenti semplicemente spuntati con ogni probabilità perché adempirono la promessa di donazione. La presenza delle confraternite e delle corporazioni viene attestata con regolarità, mentre le offerte non furono mai particolarmente elevate. Inoltre, la presenza di queste organizzazioni cittadine fu verosimilmente importante, ma non decisiva, nella vita del Monte di Bassano, giacché gli statuti non avevano previsto la presenza di tali associazioni negli organi di governo dell’ente, come invece era stato stabilito in statuti di altri monti. Allo stato attuale delle ricerche non è possibile analizzare né crescita né diminuzione del capitale e nemmeno le oscillazioni congiunturali alle quali esso andò di certo incontro nel corso degli anni, mancando ogni riferimento necessario.[5] Con ogni probabilità il capitale del monte bassanese aumentò grazie non solo alle donazioni, ma anche agli accrediti di parte degli utili disponibili. Questo ente si costruì e fu amministrato seguendo norme specifiche raccolte in un vero e proprio statuto. I capitoli furono pochi, sintetici e concentrati soprattutto nel definire la figura e il ruolo del massaro e le modalità di prestito[6](fig.2).

2-CapitoliDelMonte

2. Capitoli del Monte di pietà di Bassano, "formati dal Consiglio e decretati dall’eccellentissimo Senato nel tempo dell’erettione, con aggionta d’altri ordini […] l’anno 1622 et altre nuove regole, stabilite dal Consiglio e decretate dall’eccellentissimo senato l’anno 1670", Bassano, per Gio. Antonio Remondin, 1672.
I capitoli definiscono le modalità di prestito e la figura del massaro.

Il consiglio cittadino eleggeva tra i cittadini originari il massaro che durava in carica due anni, il primo al prestito e il secondo alla riscossione dei crediti concessi. Poteva anche ricuperare i denari mutuati con la vendita all’incanto dei pegni dati in garanzia. Doveva pure conservare i libri contabili del Monte, tenuti dal notaio a ciò preposto. I depositi presso il Monte, come pure i prestiti che potevano essere fatti all’ente, non potevano per motivo alcuno essere sequestrati e la stessa città era obbligata alla restituzione di tali somme nel caso di impossibilità da parte della cassa del Monte. Bisognava in ogni modo possibile convincere depositanti e prestatori della solidità finanziaria del Monte cittadino. A questi capitoli “vecchi” fanno riferimento altri 14 avvenuta il 28 agosto 1670 da parte del Consiglio dei 60. Questi tornano con insistenza sulla figura del massaro, precisando che «debba il massaro render conto di sabbato in sabbato del denaro che havrà ricevuto per dispensar sopra pegni e di quello haverà dispensato»[7]. Era previsto che i due conservatori del Monte ogni sabato affidassero al massaro una certa somma che, durante la settimana, sarebbe servita per il prestito. Il sabato successivo, il massaro doveva rendere conto della propria attività, restituendo ogni denaro residuo. Poca attenzione si prestò, al contrario, al libro dei pegni del massaro. Si tratta di un documento piuttosto raro, che assai di rado si è conservato nel tempo. Con ogni probabilità non è stato affidato agli archivi dal momento che i dati scritti in tale registro, riguardanti il pignorante e il pegno, erano, una volta che il massaro avesse terminato il proprio mandato, riportati nel rendiconto complessivo del massariato stesso. Non c’era motivo di conservare tale repertorio necessario solo nel momento del prestito. A Bassano il libro dei pegni era tenuto dai due conservatori e si riferiva all’attività del massaro pro tempore.
Si tratta, stando a quanto rimane, di un registro di piccolo formato a carte contrapposte: a sinistra dopo il nome di chi impegna, si descrive il bene e l’importo del credito deliberato. A destra si annotò o l’avvenuta vendita del bene, nel caso non fosse stato riscattato, e l’indicazione di una somma che è scritta a credito del massaro, oppure il nome di chi lo aveva richiesto dopo che il debito era stato saldato. Nel 1615 gli oggetti dati a garanzia del credito al Monte furono di valore abbastanza contenuto, trattandosi nella maggior parte dei casi, di oggetti d’uso domestico o di vestiario[8]. Ritenuto quasi superfluo dagli amministratori del Monte, il libro dei pegni è particolarmente interessante perché è una fonte che molto può svelare dell’universo materiale dei clienti dell’ente. Ancora pensando alla figura del massaro, nel 1569 si era stabilito che «si tenghi in cassa un libro separato, dove li massari sieno fatti debitori secondo il ricevere e il restituir il denaro […], qual massaro sia obbligato tenir conto di tutto il tratto del bagatin, o vero elemosina»[9]. Più del cassiere il massaro era ritenuto responsabile del maneggio del denaro del Monte, e la sua figura era considerata punto di riferimento, come un organo di garanzia, per la corretta gestione del bagattino, una somma destinata a esigenze di tipo sanitario. Le risorse così raccolte potevano essere destinate al capitale del Monte o essere impegnate nelle più diverse attività di sostegno delle esigenze della collettività, anche se, nella maggior parte dei casi, il bagattino era impiegato in sanità e, in particolare, in spese in caso di peste. Nei monti più grandi, il conteggio del bagattino diede luogo alla tenuta di libri contabili specifici. A Bassano questo sembra non essere accaduto e l’unico bilancio che ne attesti la determinazione fa riferimento all’esercizio finanziario 1799. In città erano passate le truppe del generale Bonaparte, la Repubblica di Venezia era ormai un ricordo e l’Austria, in virtù del trattato di Campoformio, esercitava sul centro bassanese e territorio dell’ex stato veneto un discreto, ma fermo, dominio.[10] Nonostante questi cambiamenti, si continuava a calcolare il bagattino sulla base di un decreto veneziano «Escorporazion del bagattino di sanità, che deve di anno in anno esser eseguita dalli ministri del santo Monte di pietà da primo gennaro 1799 a tutto dicembre susseguente, a tenore del decreto del senato 9 gennaro 1772 e relativa terminazione del magistrato alla sanità de’ dì 29 gennaro anno stesso, come segue»[11](fig.3).

3-StatoDellaCassa

3. Stato della cassa del bagattino del 1801-1803. Bassano, Museo Biblioteca Archivio, Bassano, b. 9, fasc. 9.
I due bilanci raccolti nel fascicolo si riferiscono al 1799 e al 1800 e sono calcolati ancora in base al decreto veneziano del 1772.

Si determinavano dapprima le attività, comprendenti il capitale proprio, i fondi a livello, i depositi semplici, i sopravanzi dei pegni venduti e le elemosine, che, in questo caso, ascendevano a £. 310.219.1.6. Nello stesso anno l’ente concesse all’Ospedale dei poveri infermi un livello al 4% pari a £. 6.355, mentre non procedette ad affrancazione alcuna. Gli utili portati in cassa dai massari furono a pari a £. 15.933.19 e gli interessi passivi pagati sui livelli censuari, dopo avere detratto quanto incassato allo stesso titolo, per la concessione del livello all’Ospedale, si attestarono a 564.16 lire, dando così luogo a un utile netto di 15.369.3 lire. Questi utili, conteggiati al 5%, comportano un capitale di 301.380 lire che, a un bagattino per lira, davano luogo a 2.280.15 lire, da iscrivere alla cassa del bagattino di Sanità[12]. All’interno dell’organizzazione del Monte la centralità della figura del massaro emerge anche dalla circostanza che il suo salario fu sottoposto più volte a rivalutazione, come avvenne nel corso del 1758. Il consiglio del Monte aveva sottolineato la necessità di un incremento salariale a favore del massaro «essendo accresciuti li pegni dal numero 1456 sino al numero 21862 et in conseguenza moltiplicati li pro provenienti dalli detti pegni».[13] Infine il massaro doveva tenere anche conto delle differenze attive tra somme erogate e ricuperate, derivanti dalla vendita all’asta dei pegni, “sopravanzi” che pure dovevano essere rendicontati e iscritti o al capitale o alle uscite a titolo di elemosina[14]. Dopo questi interventi di natura regolamentare, approvati per correggere aspetti particolari della gestione del Monte, nel 1726 si approvarono “nuovi” Capitoli, rientranti in un provvedimento di più ampio respiro su enti assistenziali e luoghi pii attivi a Bassano[15]. L’organizzazione di base del Monte venne mantenuta, intervenendo piuttosto su taluni aspetti che si pensava dovessero essere migliorati. L’attività del massaro fu sottoposta al vigile controllo del notaio scontro e, soprattutto, quella del tesoriere fu ritenuta carica di maneggio mentre quella di conservatore, di controllo. Con ogni probabilità, tali innovazioni spinsero Nadal Tononcini, massaro in carica nel 1728, a produrre una sintesi normativa, che avrebbe potuto semplificare il lavoro degli addetti all’istituto. L’iniziativa non ebbe fortuna, giacché il podestà di Treviso, Alvise Priuli, delegato dal senato veneziano a sovrintendere l’attività del monte bassanese, decise di non avallare il compendio preparato dal massaro, sulla base dell’assoluta autorità normativa dei capitoli del 1726 e della riserva legislativa che, in materia di luoghi pii, spettava al doge, «essendo la materia de lochi pii unicamente potestativa del prencipe in via deliberativa, non devono ammettersi contraditorii de sudditi»[16]. La contabilità del Monte bassanese era tenuta secondo le regole in uso. Non avendo trovato alcun quaderno, o libro mastro, l’attenzione si rivolge a qualche estratto dal giornale di cassa dell’istituzione (fig.4).

4-LibroDellaCassa

4. Libro della cassa del sacro Monte di pietà di Bassano del 1569. Bassano, Museo Biblioteca Archivio, Bassano, b. 8, fasc. 2, c. 91.
Le variazioni sono rilevate nel conto del massaro, che è responsabile dell’andamento della cassa.

Più precisamente esistono poste contabili che attestano il trasferimento da parte dei conservatori al massaro di risorse destinate al prestito. In tal caso il giornale, più che attestare movimenti della cassa del Monte, registra variazioni nel conto del massaro che, per forza, condiziona anche l’andamento della cassa. Il 12 dicembre 1575 «Messer Daniel dell’Amigo massaro del santo Monte dee dar, a dì dicto, contadi a lui, lire 100 tratti de cassa per imprestar a poveri, appar in questo a c. 87»[17]. In seguito lo stesso massaro continuò a ricevere denaro per far fronte alla domanda di credito e tali richieste dovevano essere tali da eccedere la capacità della cassa dell’istituto, se parte del denaro trasferito al massaro è detto provenire dalla cassa delle elemosine. In generale vigeva il divieto di attingere al bagattino per l’attività creditizia, che doveva trovare nei depositi, ed eventualmente nelle donazioni, sufficienti risorse. Inoltre non risulta che nel conto della cassa tali risorse siano rendicontate come provenienti dal conto delle elemosine. In tal modo si nascondeva che parte delle risorse prestate costituivano gli utili dell’impresa del Monte, sui quali gravava l’attività propriamente assistenziale dell’ente. Nella controscritta sezione dell’avere lo stesso massaro doveva avere tante risorse quante doveva dare. Ognuna di queste poste, tutte riferite al massaro in questione, trovano puntuale riscontro all’interno del documento in altre carte, costituendo così un conto le cui partite sono trascritte pure nel calcolo della cassa dell’ente. Le 100 lire anticipate al massaro sono contabilizzate in avere nel conto della cassa del Monte dove si scrisse come: «A dì 12 dicembre per tanti tratti di quella in contadi a messer Daniel dell’Arrigo, massaro del santo Monte, per servir a poveri imprestido lire 100 appar in questo a c. 91»[18]. Mi sembra di poter dire che questo cosiddetto giornale di cassa non ha le caratteristiche specifiche né del giornale, non c’è l’annotazione giornaliera di ogni movimento che intercorre, né del quaderno, del quale manca la sistematicità della tenuta dei diversi conti, facendo uso di entrambi i sistemi contabili all’interno dello stesso documento, senza preoccuparsi di tenere le due procedure chiaramente distinte e, allo stesso tempo, fortemente legate l’una all’altra. Interventi diversi a favore della comunità caratterizzarono sempre l’attività del Monte di Bassano che amministrò anche risorse che privati avevano deciso di affidare all’istituto, a beneficio esclusivo di fanciulle sprovviste di dote, ma desiderose di sposarsi o di entrare in convento. In questo particolare ambito assistenziale, il Monte si impegnò sempre, esibendo particolare attenzione a una necessità sociale tanto acuta in antico regime quanto in età contemporanea e agendo come altri enti assistenziali attivi nella distribuzione delle doti. Il 23 novembre 1668 il Consiglio dei 60 adottò una parte per cui, partendo dal testamento di Gio.Battista Apollonio, che aveva destinato la somma di 110 ducati all’anno perché si costituissero quattro doti di 25 ducati ciascuna e, con il rimanente, si provvedesse alle spese necessarie, «resti destinato il Monte santo per ricevere e tenir in deposito esso denaro fino agli esborsi», seguendo la stessa procedura già sperimentata nel caso del lascito di Daniel Freschi, anche questo impegnato nella costituzione di doti. Nel caso di ricche commissarie, quasi sempre accadeva che, dopo la morte del de cuius, i congiunti facessero opposizione all’esecuzione dell’atto, che privava la famiglia di parti del patrimonio. Da ciò poteva prendere avvio un lungo contenzioso, che spesso si concludeva riconoscendo le ragioni dell’ente beneficiario. Questo avvenne puntualmente quando Giacomo Apollonio morì, lasciando al Consiglio dei 60 l’onere di devolvere la rendita di 1.500 ducati al mantenimento di una mansioneria presso la Scuola del Nome di Dio in castello[19]. Per gli eredi correva poca differenza, se non alcuna, tra l’istituzione di una commissaria o di una mansioneria. Il Monte non entrava nel merito della disputa giudiziaria, attendendo la legittimazione giudiziaria per poter amministrare le risorse che il testatore aveva lasciato a beneficio della comunità. La consuetudine a essere parte attiva nella gestione delle doti era viva da tempo; almeno dalla fine del Cinquecento, e poi ancora nei primi decenni del Seicento, sono attestate molte «note di fanciulle» che in tempi diversi hanno goduto della grazia di una dote, nella maggior parte dei casi del valore di £. 51,3 o di £. 62. Il Monte si accollava l’onere di verificare che la stessa fanciulla non godesse del beneficio dotale due volte. La determinazione delle risorse disponibili per le doti doveva tenere conto delle spese di mantenimento e di gestione dell’istituto, compresi i salari ai dipendenti, dell’affitto dei magazzini di deposito e di ogni altra spesa incontrata. Solo dopo avere onorato tali impegni, si poteva procedere al calcolo degli utili e, da ultimo, alle scelte di politica sociale da adottare. Un’uscita rilevante, attestata in una copia del giornale di cassa del Monte, riguardava il pagamento dell’affitto al comune delle «fabriche in piazzal del Sale», che comportava un esborso annuale pari a 620 lire, importo registrato nel quaderno del fontego[20]. Con ogni probabilità, lo stesso ente accreditava in precedenza tali somme al Monte che, poi, girava al comune. Di certo il pagamento transitava attraverso la cassa del Monte, che verosimilmente si limitava a girare, non a impegnare, risorse proprie[21]. Presso la Scuola di San Giuseppe a Bassano era pure attiva una cassa per maritar donzelle, maneggiata da un gastaldo, che con regolarità distribuiva doti del valore di 31 lire ciascuna almeno dal 1696 al 1765, secondo quando attesta un giornale di cassa[22]. Il registro contiene la contabilità, intestata alla cassa delle donzelle, dei beni livellari della Scuola, in virtù di legati disposti specificamente per la costituzione di doti. La procedura seguita da questa Scuola era del tutto simile a quella seguita dal Monte e da molti altri enti assistenziali in età moderna. Tra le fanciulle che avevano presentato istanza per essere scelte, si dava luogo a un sorteggio, in ciò seguendo le indicazioni dell’ente che aveva stabilito come «ogni anno si abbia da dir in chiesa da meza quadragesima che le donzelle che si trovano far scrivere et esser ballottate, debbano venir la domenica di San Lazzaro a darsi in nota in detta chiesa alli deputati»[23]. Non ogni fanciulla della comunità poteva avere il proprio nome scritto nella lista delle aspiranti, giacché queste dovevano vantare una qualche relazione con la Scuola. I benefici, o le grazie, che venivano annualmente distribuiti, erano destinati esclusivamente a famiglie appartenenti alla Scuola di San Giuseppe. Questi erano finanziati grazie ad affitti o livelli su beni che erano stati donati alla Scuola perché provvedesse a distribuire grazie dotali. In realtà l’ente era in grado di soddisfare solo in minima parte le domande di dote che con regolarità ogni anno verosimilmente si presentavano davanti ai massari della Scuola. Nel 1674 avevano chiesto di essere iscritte 21 fanciulle: Maria, Antonia, Anzola, Caterina, Fiore, Domenega, Gerolema, e un’altra Maria che non superavano i 20 anni d’età, Paolina, ancora una Maria, Lucia e Maddalena con qualche anno di più e le rimanenti tra i 25 e i 26 anni. Solo Eleonora aveva 33 anni. Di tutte ne furono graziate solo tre; si trattò di un provvedimento straordinario giacché si era deciso di attingere risorse anche dal conto delle elemosine e non solo da quello degli affitti e livelli, come era stato stabilito negli statuti[24]. Oltre che nella costituzione di doti, il Monte fu sempre presente nelle situazioni d’emergenza che potevano colpire la comunità. L’evento di gran lunga più temuto era la peste; ogni epidemia aveva portato con sé paura, povertà, fame, morte, nonostante la Repubblica di Venezia avesse da tempo potuto disporre di un efficiente Ufficio di Sanità in grado di organizzare rapidamente misure di contenimento dell’epidemia. L’Ufficio allertava la popolazione attraverso la pubblicazione di un bando, ben visibile a S. Marco, a Rialto e presso il Fontego dei Tedeschi, destinato agli uffici di sanità territoriali perché adottassero misure di protezione dal contagio[25]. Così era accaduto tra il 1570 e il 1577 e così occorse durante il contagio del 1630-31. Nella documentazione disponibile, il fondaco, più del Monte, si trovò coinvolto nell’emergenza causata dalla peste. Mise a disposizione dei poveri di Bassano ingenti risorse, dalle quali l’ente doveva rientrare. La scelta di procedere al ricupero delle risorse impiegate durante l’epidemia fu imposta dall’autorità veneziana, che autorizzò il fondaco ad applicare una percentuale sulle transazioni che transitavano attraverso l’ente. Così avvenne l’8 gennaio 1632, quando il senato veneziano accordò, per il mezzo del Podestà e Capitano di Bassano, la possibilità di integrare il capitale dell’istituto e ricuperare i donativi fatti attraverso l’accantonamento a proprio favore di 1/3 delle vendite della comunità. Il fondaco, che dal 1614 doveva disporre di un capitale di 60.000 lire, aveva, per far fronte alle esigenze dei poveri, attinto non solo al proprio peculio, ma anche distribuito risorse per 42.000 lire, avendo dato luogo a un esborso davvero ragguardevole. Il rientro dal debito era stato congeniato «di maniera che oltre le £. 60.000 già ferme di capitale, le altre £. 42.000 da rintegrarsi, come di sopra, si debba pur anco in anno in anno con l’istesso 3° andar aumentando sempre il capitale d’esso fontico, del quale abbi da tenirsi cassa a parte, senza che questa già mai resti diminuita»[26]. Il meccanismo adottato era identico a quello fatto proprio, nelle medesime circostanze, da altri monti della Terraferma. In generale, l’intervento del Monte a favore dei poveri consisteva prima di tutto nella concessione di un credito, che trasformava un piccolo bene in numerario, capace di fare la differenza in un’economia così avara nei confronti di chi poco o nulla possedeva. Inoltre poteva elargire elemosine, analogamente a quanto facevano il fondaco, le scuole e l’Ospedale degli infermi[27]. Nei capitoli che regolavano la vita di questo ospedale bassanese vi è un’attenzione tutta particolare ai bisogni dei poveri, giungendo a prevedere che «dovrà esser fatto un libro intitolato dispense a’ poveri, sopra il quale dovranno detti magnifici provveditori, quel giorno li toccherà, far nota di tutte esse dispense, col nome et cognome vero, reale et non finto del povero»[28]. In tal modo la comunità di Bassano curava i propri interessi, anche avendo cura di chi, residente in città, si fosse trovato nella condizioni di povertà estrema ed emarginazione. Accanto alla carità legale, molti furono gli interventi di privati cittadini a favore di poveri o di organizzazioni attive in ambito sociale. Paradigmatico in tal senso può essere il comportamento di Carlo Stecchini, il quale distribuì rilevanti risorse a più richiedenti. Anzitutto fondò una mansioneria, per un valore di 1.616 ducati, per la celebrazione di sei messe ogni settimana, su un patrimonio di pari valore, messo a frutto attraverso un contratto di livello censuario. Si trattava, più precisamente, di cinque contratti, che complessivamente assicuravano una rendita pari a poco meno di 90 ducati all’anno[29]. Lasciò pure 1.000 ducati, anche questi impiegati a livello, in quattro contratti, ai Poveri infermi e poco più di 64 ne affidò alla Scuola della Morte, mentre il denaro contante fu distribuito in questo modo: 100 ducati ai poveri della terra, 10 a Maddalena Mattana, 5 a Betta Pellizaro, 5 ad Anzola Lena di casa. Inoltre destinò 20 ducati all’anno ai padri Cappuccini e Zoccolanti mentre, sulla rendita ricavabile da 400 ducati, dispose che si celebrassero un certo numero di messe: presso la Scuola di San Giuseppe 60 all’anno, 25 nella chiesa del castello e 6 a San Giovanni. Il testatore seppe distribuire i propri beni a favore delle esigenze materiali dei più bisognosi e di quelle più propriamente spirituali del testatore. Anche in altre situazioni di decisa miseria, il Monte fu chiamato ad assumersi una certa responsabilità, pure giungendo a indebitarsi considerevolmente. Capitò al Monte della vicina Feltre, tra l’estate del 1749 e il gennaio dell’anno successivo, di accollarsi debiti pesanti, pur di riuscire a continuare la propria azione creditrice a favore dei più bisognosi. Per poter fare cassa, lo strumento scelto fu la stipulazione di contratti di livello censuario, che necessitavano dell’approvazione veneziana. Generalmente la ducale di autorizzazione fissava anche il tasso di interesse massimo al quale il debito poteva essere contratto. Questo poteva essere affrancato solo con il pagamento dell’intero capitale avuto a credito, mentre per tutto il periodo del contratto il Monte era tenuto al pagamento soltanto degli interessi. In tal modo l’ammontare del debito rimaneva costante nel tempo e questo di certo non ne facilitava l’estinzione. A questa forma di indebitamento, molto diffusa nel tempo, si sottopose con ogni probabilità anche il Monte bassanese, sebbene allo stato attuale della ricerca non si siano individuati documenti a riguardo[30]. Tanti comportamenti virtuosi non impedirono che ai danni del Monte venissero compiuti atti di segno opposto, comportamenti fraudolenti da parte di alcuni massari rei di intacco a carico dell’ente e di privati cittadini. L’intacco era un reato consistente in un uso distorto del denaro depositato presso il Monte. Non si trattava, nella maggior parte dei casi, di un vero e proprio furto, ma della concessione di crediti senza la necessaria garanzia. Di conseguenza il Monte si trovava nell’impossibilità di rientrare in possesso di somme prestate. Il massaro, investito di una carica di “maneggio” che lo poneva nella condizione effettiva di chi poteva erogare il prestito, più di ogni altro addetto, si trovava nella posizione di chi poteva disporre delle risorse del Monte anche eludendo la normativa in materia, che aveva dettato norme inderogabili sul rapporto tra valore del pegno dato in garanzia e denaro erogabile. Il massaro Nicolò Michieli operò uno tra gli intacchi più gravi, che originò una lunga controversia legale. Tra i documenti raccolti a tale scopo, c’è pure una sintesi della condizione patrimoniale dei Michieli dal 15 dicembre 1600[31]. Dall’eredità di Gabriele Michieli si evince che la famiglia possedeva beni, pari a 20 campi nelle località di Solagna e Calalzo e molte altre proprietà poste in luoghi diversi. Non mancava neppure il numerario se, il 26 febbraio 1669, Lodovica Michieli, madre di Nicolò, aveva potuto contare su una dote pari a 1.000 ducati e su molte altre assegnazioni in beni mobili e immobili. La situazione patrimoniale della famiglia era tale da consentire anche la stipulazione di svariati livelli affrancabili, che assicuravano ai mutuatari un flusso non trascurabile di risorse. Nicolò aveva pure ricevuto dalla moglie Anzola una considerevole dote, valutata più di 5.000 ducati[32]. Forse tratto in inganno dagli stimatori, oppure, più verosimilmente, incline a favorire amici del momento, fatto sta che fu imputato di intacco e chiamato a rispondere col proprio patrimonio dei danni causati alla cassa dell’istituto. Furono coinvolti nella causa anche gli eredi. Un proclama, pubblicato a Bassano il 18 maggio 1726, invitava i debitori del Monte a restituire prontamente il capitale indebitamente mutuato, corrispondendo anche tutte le spese a ciò connesse. Il Podestà e Capitano di Bassano Zaccaria Bembo, pur di giungere allo scopo, non esitò a sottolineare « perché l’uso delle casselle per le denuncie secrete fatte esponete, sotto il proclama 16 maggio corrente, niente sin’ora somministra di cose occulte, che a benefizio comune la giustizia sospira di rilevare, resta novamnte eccitato il zelo dell’universale a concorrere con le denuncie contro chiunque, assicurando che anche senza il requisito della sottoscrittione (che si prevede possa essere la remora de’ buoni e zelanti) saranno considerate anco quelle che averanno il solo requisito delle prove e de’ testimoni, ardentemente desiderandosi il risarcimento del povero pio loco intaccato e il giusto essemplare castigo de’ rei»[33]. Poco più di un mese dopo, il Podestà e Capitano di Treviso, Benedetto San Giovanni Toffetti, con ogni probabilità sulla base di una scarsissima efficacia dei proclami precedenti, autorizzò ogni avente causa a valersi sull’eredità del defunto massaro Michieli, stante l’opposizione da parte del figlio Gabriele. Il monte bassanese con molta difficoltà avrebbe potuto assorbire i contraccolpi di un intacco, giacché l’esiguità del capitale, da una parte, e l’intensa attività creditizia, dall’altra, si reggevano su un equilibrio molto fragile, che un intacco avrebbe inesorabilmente fatto scricchiolare. Inoltre l’intacco assumeva sempre il carattere di un danno pubblico, a carico di tutta la comunità, e per questo di enorme gravità. Il caso di Gabriele Michieli non fu certo unico. Anche Giovanni Pietro Lanzarini, massaro nel 1724, fu accusato di intacco al Monte. Anche in questa circostanza si procedette anzitutto alla stima del patrimonio del massaro che ammontava alla considerevole somma di poco meno di 20.000 ducati. Per liquidare il debito che gli era stato imputato non doveva certo intaccare significativamente il proprio patrimonio e, per accelerare la procedura, nominò la moglie, Bernardina Gandellini, procuratrice, affinché potesse, lui in carcere, vendere alcuni beni e preparare la strada per la libertà del marito. Si era deciso di mettere in vendita una proprietà di 34 campi con annesse case coloniche a Rosà, pensando che il ricavato fossero sufficienti a saldare il debito del marito nei confronti della cassa del Monte, stante il fatto che il marito «non ha più violenta premura che quella di render risarcito questo santo Monte per quanto fosse legittimamente rilevato debitore nel suo massariato e sopra la degradazione de pegni originata dalle stime emanate per commando di Vostra Eccellenza [Benedetto San Giovanni Toffetti]»[34]. Dal punto di vista contabile, la posizione del massaro era tale per cui gli furono scritte in dare, l’11 luglio 1726, 33569,18 lire e, in avere, £. 21802,8. Il debito, fatte salve ulteriori indagini, ammontava a poco più di 10.000 lire. Il Lanzarini era in carcere perché accusato di fatti e comportamenti di rilevanza penale, ma il 6 aprile 1727 fu scarcerato «stante le cose come stanno, quanto alla criminalità non sia per ora più oltre proceduto, ma dalle carceri rilasciato, avendosi attender quanto all’intiero risarcimento del sancto Monte l’esecutione intiera del decreto 30 gennaio 1727»[35]. La causa continuò, coinvolgendo altri attori ritenuti corresponsabili del massaro, particolarmente Giuseppe Sale, conservatore, e Antonio Marco Bortolazzi, fideiussore del Lanzarini, che era certamente il più esposto. Il Toffetti già il 14 luglio 1726 aveva intimato a Bortolazzi di provvedere al pagamento del debito di Lanzarini entro 8 giorni «altrimenti saranno prossequite le più sommarie esecutioni»[36]. L’abuso d’ufficio da parte del massaro del Monte avveniva quando veniva accordato il credito. Questo doveva essere determinato in base al valore del pegno portato in garanzia, giacché dalla sua vendita all’incanto si sarebbero ricuperati il capitale prestato, gli interessi maturati e le spese sostenute per l’intera pratica. Ma se accadeva che «era stato sborsato sopra un anello de valuta de 50 ducati, ducati mille», allora il rischio di insolvenza si faceva assai acuto, compromettendo la stabilità dell’istituto e configurando un comportamento civilmente, e talvolta anche penalmente, rilevante del massaro[37]. Le procedure d’esecuzione erano già consolidate e, anche in questo caso d’intacco, le autorità locali e di Treviso procedettero nei confronti del massaro imputato e di chi aveva prestato la fideiussione al momento della nomina, com’era consuetudine in circostanze analoghe. Il Monte di Bassano superò le difficoltà finanziarie causate dai numerosi intacchi, sopravvisse ai profondi mutamenti politici e istituzionali aperti dall’Armata d’Italia del generale Bonaparte e continuò a prosperare durante la seconda dominazione austriaca quando, nel 1847, adottò un nuovo regolamento e riorganizzò il personale di servizio. Fu riconosciuto particolarmente il lavoro dei due stimatori, ai quali spettava uno stipendio annuale superiore a quello destinato al direttore dell’ente e appena inferiore a quello del ragioniere. Il Monte a Bassano era considerato uno tra i molti enti assistenziali operanti in città; la sua funzione era spesso insostituibile e destinata a successo certo nella misura in cui essa fosse connessa a quella degli altri enti di beneficenza che, nel complesso, in qualche modo, assicuravano alla comunità un diffuso senso di protezione. L’attività creditizia del Monte fu efficace tanto quanto questa si accompagnò all’azione degli altri istituti, come gli ospedali, le case di ricovero, gli orfanotrofi o l’istituto elemosiniere. A metà Ottocento, in un breve saggio sull’universo della beneficenza a Bassano, l’autore ebbe opportunamente a scrivere «Le caritatevoli istituzioni, meglio che tutti gli altri monumenti, sono prova e additamento di cresciuta civiltà. Stringono esse gli uomini con una catena d’amore in una sola famiglia, agguagliano in qualche modo le disuguaglianze della fortuna, risollevano le classi diseredate a più comportabile condizione»[38]. In terraferma veneta la maggior parte dei monti di pietà che avevano operato per secoli o furono chiusi oppure dettero vita o si aggregarono alle nascenti casse di risparmio che ne assunsero, almeno in parte, le finalità sociali. Solo la Cassa di risparmio di Castelfranco Veneto fu una società privata, mentre a Padova, Rovigo e Venezia esse furono un’emanazione dei locali monti di pietà. L’unione, in questo caso, non fece assolutamente la forza, tanto che si dovette lo scorporo dei due enti perché le casse potessero prosperare e diventare motore di sviluppo economico del territorio[39]. A Bassano il Monte di pietà continuò a operare con successo: accumulò così grandi risorse che verso la fine dell’Ottocento esso poté elargire somme significative alle maggiori istituzioni caritatevoli della città. E solo in età giolittiana vi fu chi criticò questa politica sociale sulla base che essa avrebbe portato a un eccessivo impoverimento del monte stesso. Solo nel 1912 la Cassa di Risparmio di Bassano del Grappa iniziò a operare come sezione di credito del Monte di pietà e nel 1925 essa diventò autonoma. In tal modo essa si sovrappose, anche se non esattamente, all’attività dell’antico istituto. In questi anni la Cassa poté aprire sportelli a Marostica e a Rossano Veneto. Qualche anno dopo, nel 1928, decise di fondersi con la Cassa di risparmio di Verona e Vicenza.  

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